giovedì 30 settembre 2010

Charles Willeford

James Lee Burke, suo debitore dichiarato, ha detto che se c'è qualcuno capace di spiegare come scrivere, quello è proprio  di Charle Willeford. Uno scrittore con una vita avventurosa: invece di andare a scuola, a dodici anni saltò sul primo treno di passaggio e niente fu più come prima. Quattro anni dopo si arruolò nell'esercito (un posto pieno di psicopatici, a sentire lui), si fece tutta la seconda guerra mondiale (non proprio una passeggiata) e una volta congedatosi si decise, finalmente, a scrivere. Anche in quest’occasione il destino lo guardò da lontano. Ci volle un bel po’ prima che Miami Blues, esattamente nel 1984, lo tirasse fuori dall'anonimato, con l'esordio sulle scene di Hoke Moseley, un detective improbabile e un loser eccezionale. Sarà lui il protagonista di tutta un’intera serie e, nell’episodio di Miami Blues, la nemesi di Freddie Finger detto Junior alias Ramon Mendez noto anche come Herman Gotlieb, a seconda delle carte di credito che usa. Un criminale a trecentosessanta gradi, risoluto e violento, che giunge a Miami partendo dalla soglia di San Quentin, la galera, sua ultima residenza. Una destinazione che, a prima vista, sembra essere scelta sfogliando l'elenco dei voli giornalieri, ma che diventa subito un ideale territorio di caccia. Il suo volto multiforme non mancherà di affascinare Susan Waggoner, una ragazza di provincia piovuta a Miami (“Siete venuti a Miami, ossia vi siete tuffati in questo vecchio stagno. Qui abbiamo già circa un milione e mezzo di persone, così il rumore che farà il vostro arrivo non sarà un granché”) sull'onda di una storia sordida e incestuosa. Nei convulsi pensieri di Junior lei dovrebbe accudirlo e amarlo, ma anche essere complice e partecipe. Lo scarso quoziente d'intelligenza di Susan non le farà annusare il pericolo, ma l'istinto, al momento giusto, la condurrà a trasformare il predatore in una preda. Questo scambio di ruoli e d'identità, di cui Charles Willeford dà conto in tanti piccoli intarsi narrativi, troverà protagonista, in una Miami torbida e umidiccia, Hoke Moseley, ma a questo punto non si può aggiungere molto di più perché Miami Blues è un thriller imprevedibile e “che scotta”, per dirla con Elmore Leonard, altro suo esimio ammiratore. Quello che si brucia, prima di tutti, è Hoke Moseley che, e sono proprie parole sue, finisce in una storia che “da qualunque punto di vista, era una storia di merda”. La definizione è lapidaria, ma assume un senso ben preciso perché in Miami Blues non si fanno sconti a nessuno e la vicenda, quale che sia la materia di cui è fatta, è intersecata e scheggiata da dozzine di altre meteore di immagini, personaggi, battute e inquadrature (proprio come in un film) che alla fine fanno la cifra della narrativa di Charles Willeford. Il quale, scomparso proprio a Miami nel 1988, non si nascondeva e ammetteva, a più riprese, come “la follia fosse il tema predominante e la condizione normale per gli americani nella seconda metà del ventesimo secolo”. La sua vera fonte d’ispirazione. 

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