lunedì 20 dicembre 2021

Barry Gifford

Nella radio, Little Richard canta Lucille e il groove scandito asseconda e sottolinea la conversazione in corso tra madre e figlio, in viaggio attraverso l’America. Le voci si distinguono nitide e seguono un ritmo sincopato, ma non privo di una sua dolcezza. La vita si svolge tutta dentro l’abitacolo dell’auto, Roy, nove anni, è uno sguardo alimentato da una curiosità insaziabile e per la madre è una sorta di riflesso imprevedibile, che rimbalza in continuazione, tappa dopo tappa. Il viaggio non è organizzato, prevede deviazioni di percorso, reali e immaginarie, “una religione della geografia” che comprende frammenti del passato (“Ti ricordi come risuonavano le onde sulla spiaggia a Cuba? Il modo in cui schiaffeggiavano la sabbia, poi facevano una specie di sussurro mentre l’acqua si spargeva ovunque prima di ritirarsi. Una cosa completamente diversa dal suono del fiume a New Orleans”), valutazioni dedicata ai luoghi incontrati di volta in volta (“Secondo me dappertutto è successo qualcosa di importante per qualcuno, solo che certi ci hanno tirato su un polverone, a differenza di altri”) e di persone abbandonate al proprio destino (“Uomini e donne, che non si capiscono tra loro e non hanno neppure voglia di provarci, o non ne sono capaci”). Ogni frase è centellinata a costruire un microcosmo in movimento e l’ossessione di Barry Gifford per i dialoghi trova in Wyoming la sua apoteosi: sono il plasma che genera tutto, dai personaggi che vengono ricreati nel fluidificare del confronto tra madre e figlio alla visione del paesaggio che scorre parallelo alla strada. Le loro voci disegnano una fitta simbologia americana al 100%: una carrellata che scorre senza fine: motel, il serpente reale e quelli arboricoli, i seminole, la wilderness, la guerra di secessione, il Mississippi (“Scommetto che gli schiavi non pensavano che i campi di cotone fossero così belli”), il Texas alle spalle, New Orleans di passaggio, l’Alabama da qualche parte. Il percorso è tortuoso e contorto: un po’ elencano le località, un po’ gli stati che si susseguono, come a voler trovare una posizione, uno schema che nemmeno la mappa riesce a garantirgli. Si passa dentro l’America con una sequenza di città e smalltown, di incroci e mete oscure, evocando figure lontane o scomparse (a partire dal padre di Roy)  o che tendono a dissolversi nei ricordi e nella limitata ricostruzione delle parole. Nel colloquio senza sosta tra madre e figlio, il passato scorre almeno quanto la strada, due componenti che si srotolano apparentemente senza fine. È lì che Barry Gifford lascia intravedere un senso senza rivelarlo: l’impressione è proprio che il loro sia anche un viaggio nel tempo perché “gli anni si perdono, volano via e non riesci a ricordarli”. La vita resta inafferrabile e il Wyoming, tra l’altro nemmeno sfiorato nel lungo tragitto, è un’aspirazione, più che una meta reale, è uno stato della mente, una necessità, forse anche una scusa, proprio come dice Roy: “Mi piace quando siamo a metà strada, tra i posti da cui veniamo e quelli a cui siamo diretti”. Da grande narratore quale è, Barry Gifford non lo dice, ma lo lascia capire: una volta arrivati, è troppo tardi. La felicità resta tutta, sempre e solo nell’incertezza.

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