Ospiti in una radura tra i boschi del Kentucky, i Baldridge raschiano il fondo del barile (dove conservano la carne), a volte sfiorando soltanto un rimasuglio di sale. Oppure raccolgono “zucche selvatiche e altre erbe commestibili”. Se ha le munizioni (il più delle volte non ci sono) il padre va a caccia di scoiattoli e conigli. La fame è persistente: “Non c’era abbondanza di cibo e mangiavamo tutto quello che ci veniva messo nel piatto, senza mai lasciare una mollica, né una briciola”. Come se non bastasse, la casa (poco più di una baracca, piena di spifferi) va a fuoco. È una vita ai limiti della sussistenza, esposta alle intemperie e senza alcun ausilio. Le uniche autorità, lo sceriffo e il prete, si presentano soltanto per la prigione o un funerale. L’ottica è la sopravvivenza, giorno dopo giorno, riassunta così da Brack Baldridge, quando il figlio gli esprime il desiderio (inarrivabile) di avere un puledro: “Non ha senso cercare di guardare troppo lontano. È meglio che tieni gli occhi fissi sulle cose dell’oggi, e lasciare che il resto accada secondo legge e profezia”. Il punto di vista infantile consente a James Still di usare un tono agrodolce che, pur senza mitigare il dramma della miseria, della disoccupazione, di una vita aspra e dolorosa, riesce a definire con precisione la condizione vissuta dalla famiglia Baldridge. Ogni giornata ha la sua pena, e qualche rara, piccola gioia, e, aneddoto dopo aneddoto, si scontrano due prospettive: il padre vorrebbe tornare a fare il minatore, un lavoro che gli ha garantito uno stipendio, la possibilità di spendere i soldi, e una casa. Forse, un minimo di sicurezza, e quel po’ di orgoglio di essere in grado di mantenere la famiglia. La madre vorrebbe restare in campagna dove, con un clima appena favorevole, il raccolto si fa generoso quel tanto che basta ad accarezzare l’idea dell’indipendenza. Anche se la famiglia Baldridge risponde quotidianamente ai bisogni primari mettendo a dura prova la propria dignità, tra queste due opzioni si estende solo un’estrema povertà. La dicotomia, ancora attuale, tra i processi di industrializzazione ovvero di sfruttamento dell’ambiente e delle persone e l’autosufficienza delle piccole comunità rurali, è un solco profondo, una ferita insanabile. In più, come scriveva Alessandro Portelli in Canoni americani, “la miniera diventa a sua volta un passaggio fra mondi visibili e mondi invisibili”, questi ultimi sospesi nell’illusione, in speranze destinate a infrangersi contro gli umori del mercato. Attratto dalle miniere, spinto dalla convinzione di conoscere a fondo il suo lavoro, Brack Baldridge costringe la famiglia ad assecondare l’evoluzione del prezzo del carbone. Gli impianti vengono chiusi e riaperti e chiusi, le giornate di lavoro ridotte, i minatori licenziati. Se sulle colline, come dice il piccolo protagonista di Fiume di terra, “eravamo convinti di passarcela abbastanza bene, per cui non ci lamentavamo”, a Blackjack, un villaggio minerario destinato a diventare una ghost town, devono confrontarsi con un’umanità sconfitta. La vita in miniera ha i suoi pericoli (a partire dalla dinamite) e i suoi limiti che non tardano a manifestarsi: l’accostamento tra i Baldridge e la famiglia di Tom Joad di John Steinbeck (Fiumi di terra e Furore sono contemporanei) è inevitabile, ma la scena finale evoca Mentre morivo di William Faulkner: stessa America, stessa disperazione.
Nessun commento:
Posta un commento