Cresciuto
tra le gang di Baltimora, dove “la strada trasforma qualsiasi
giorno normale in una serie di domande difficili”, Ta-Nehisi Coates
si ritrova, adulto e genitore, a fronteggiare il terrore come prima,
unica e urgente forma di risposta alle necessità della vita
quotidiana. La deportazione, la schiavitù, la segregazione pesano
per secoli e secoli e, anche se è vero che “il furto del tempo non
si misura in termini di intere esistenze, ma di momenti”, le radici
sono avvelenate per sempre. Allora il padre si rivolge al figlio,
quindicenne, che deve diventare “un cittadino di questo mondo
terrificante e splendido” con una lunga lettera e gli dice, come
premessa: “Non hai ancora dovuto fare i conti con i miti in cui
credi, devi ancora scoprire l’imbroglio che ci circonda”. La
dimensione del legame impone un tono accorato e Ta-Nehisi Coates non
si esime, ma essendo cresciuto nella trincea della sua pelle
americana Tra me e il mondo è diretto, estremo, impietoso.
Nella condizione di un popolo confinato nei ghetti, costretto a
misurarsi con i limiti imposti dall’odio e dall’avidità,
dall’ignoranza e dall’indifferenza è naturale vedere una
proiezione del futuro perché “la distanza è intenzionale come lo
è una legge, e l’oblio che ne segue. La distanza consente la
selezione mirata tra i derubati e i predoni, i contadini e i padroni
della terra, i cannibali e il cibo”. La linea è nitida, senza un
cedimento, senza forme consolatorie, nemmeno per rivendicare
un’appartenenza, nemmeno per salvare le apparenze, che ormai si
sbriciolano ogni giorno di più. Ta-Nehisi Coates sembra gridarlo,
mentre lo scrive in Tra me e il mondo: “La banalità della
violenza non può scusare l’America, perché l’America non fa
proclama di alcuna banalità. L’America si crede eccezionale, la
più grande e nobile delle nazioni mai esistita, un campione
solitario che si erge tra la bianca città della democrazia e i
terroristi, i despoti, i barbari e gli altri nemici della civiltà.
Non si può sostenere di essere supereroi ma poi chiedere venia per
i propri errori umani”. La lettura è istintiva e immediata,
nonostante la complessità delle considerazioni di Ta-Nehisi Coates
perché la sua lucidità è un grido d’allarme, anche senza
volerlo: la tensione si scioglie soltanto quando ricorda la libertà
di un viaggio a Parigi, dove, nonostante l’invalicabile differenza
linguistica, si è potuto muovere alleggerito dall’angoscia di
essere identificato solo per il colore del suo corpo. Il perno, a cui
ruotano intorno tutte le frasi di Tra me e il mondo, è, di
fatto, la sospensione più o meno occulta di un diritto inalienabile
quale è l’habeas corpus. Ta-Nehisi Coates è soltanto un reporter,
non è un avvocato e nemmeno un giudice della corte suprema, ma è
proprio quello il solco scavato perché “gli americani hanno
letteralmente divinizzato la democrazia, eppure di tanto in tanto
l’hanno sfidata e oltraggiata, sebbene non se ne rendano del tutto
conto. Ma la democrazia è un dio misericordioso, e le eresie
dell’America, la tortura, il saccheggio, lo schiavismo, sono così
comuni negli individui e nelle nazioni che nessuno può
considerarsene immune” Se c’è una speranza è la consapevolezza
che “forse la lotta è tutto ciò che abbiamo perché il dio della
storia è ateo, e nulla del suo mondo è perché così deve essere”.
Non ci sono sconti, né al figlio, né a nessun altro. Anche davanti
a Ground Zero, l’epicentro del futuro, Ta-Nehisi Coates ricorda che
laggiù, a Manhattan, c’era il mercato degli schiavi di New York e
uomini e donne venivano venduti all’asta.
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