lunedì 10 novembre 2025

Larry McMurtry

È sufficiente riportare gli omaggi di John Trudell, Robbie Robertson o Sherman Alexie per rilevare come Cavallo Pazzo aleggi ancora nell’immaginario legato ai nativi americani. Ci sono aspetti della sua storia che ne hanno fatto un personaggio unico e di sicuro è una figura eroica e resistente che non si è mai piegata all’assimilazione, e almeno questo è un fatto indiscutibile. Molti connotati della sua identità restano però sfuggenti e nemmeno la folta bibliografia accumulata nei secoli ha saputo districarsi tra mito e realtà. A scanso di equivoci, Larry McMurtry sottolinea subito i limiti di una possibile ricostruzione e non si avventura a riscrivere le cronache dell’epoca: legge e rilegge le definizioni più affidabili (comprese, tra le altre, quelle di Mary Sandoz, Alex Shoumatoff, Thomas Berger, Stephen Ambrose e Ian Frazier) e, pur condividendone i toni epici, asciuga i contorni ed esercita ogni legittimo dubbio. La coesione della sua versione è data da un approccio metodico (oltre che dallo stile, fluido e preciso, come è noto) e disincantato che è riassunto così: “Queste memorie non rispondono a tutte le domande, forse nemmeno a molte; tuttavia, è bello sapere ciò che i protagonisti pensavano fosse successo, anche se questo ci lascia con un ginepraio di opinioni piene di supposizioni, teorie e congetture”. Ne esce un ritratto molto più credibile di tanti altri: non è l’ennesima celebrazione di Cavallo Pazzo che ha un carattere tutto suo, una solida reputazione e una vasta teoria di apologie alle spalle. Larry McMurtry accantona la narrativa per cercare di focalizzare un’immagine di Cavallo Pazzo più aderente possibile alla realtà. La sua è una cernita puntigliosa e quindi efficace delle fonti, con alcune avvertenze che ritornano nel corso della disanima. I limiti linguistici nella trasposizione degli idiomi nativi verso l’inglese sono stati fonti di equivoci ancora irrisolti e la natura stessa di Cavallo Pazzo resta inafferrabile dato che, per gran parte della sua vita “non evitò solamente i bianchi ma gli uomini in generale; passava giorni e giorni nelle praterie, sognando, vagabondando, cacciando”. Larry McMurtry, osservando e rievocando le gesta di Cavallo Pazzo, anche nelle dimensioni più intime nei legami tribali e famigliari, mette una volta di più in rilievo il contesto complessivo, ovvero la colonizzazione dei territori, lo sterminio insensato dei bisonti (altrimenti raccontato da John Williams in Butcher’s Crossing), l’avvento delle ferrovie, le migrazioni dei pionieri, la corsa all’oro delle Black Hills, gli accordi con il governo americano con i trattati sul campo poi ratificati soltanto il parte dal congresso, promesse dimenticate e tradimenti spietati. È ancora l’occasione per riflettere sulle radici (ciniche e violente) dell’appropriazione del West e sull’inevitabile adesione a un’idea a senso unico del progresso, una volontà predatoria che ha trovato la sua estensione nelle opzioni militari che hanno ridotto gli indiani alla miseria delle riserve. Cavallo Pazzo è l’ultimo a resistere all’attacco dei bianchi, un “giovane guerriero oglala” come lo introduce Michael Punke in Il crinale. È una delle tante rappresentazioni fiction delle sue imprese sul campo, però è efficace e molto utile come antefatto della disfatta di Custer a Little Bighorn. È l’ultima battaglia poi “quell’uomo che un tempo aveva avuto come dimora la vastità delle Grandi Pianure, improvvisamente non aveva più un luogo dove stare”, ma di sicuro si è riservato un posto nella leggenda.

venerdì 7 novembre 2025

Joan Didion

È molto difficile orientarsi tra i miraggi posticci di Hollywood e Las Vegas, i due poli che definiscono l’ambito territoriale di Prendila così, romanzo di Joan Didion del 1970, diventato un film un paio d’anni dopo. L’insostenibile leggerezza della fiction, che tende a sbriciolare le distanze tra le chiacchiere, i sogni e la realtà, ha un prezzo piuttosto alto da pagare. La confusione di ruoli, percezioni, momenti e legami, alimentata da un flusso senza fine di additivi, richiede una sorta di aderenza totale e insindacabile verso un lifestyle sopra le righe, spumeggiante e allegro in superficie, pericoloso e inesorabile nella sua essenza. Maria Wyeth lo ha assecondato fin dove ha potuto per poi capitolare: attrice e moglie di un regista, si è vista caracollare da un party all’altro, sentendosi via via sempre più estranea a tutti e persino a se stessa perché “non sapeva che cos’era che temeva, ma era qualcosa che aveva a che fare con scatole di sardine vuote nell’acquaio, bottiglie di vermouth nel cestino dei rifiuti, una sciatteria irrimediabile”. Joan Didion è irraggiungibile nel delegare a una processione di singoli dettagli il deterioramento psicologico di Maria che subisce un aborto, il divorzio e l’impossibilità di avvicinarsi alla figlia, Kate. Il tracollo è nell’aria: agenti, amici, amanti, colleghi si confondono nelle notti californiane, ogni tentativo di restare aggrappata a uno scampolo di identità viene frullato nei dialoghi evanescenti al telefono e arriva al capolinea in squallide camere di motel. Quando Maria si accorge “dell’irrevocabilità di ciò che sembrava essere ormai accaduto”, attorno le rimane soltanto il deserto, e non soltanto in senso metaforico. Il capolinea è un set nel Mojave, dove la polvere, il calore e la luce accecante sono un confine invalicabile per Maria che si ritroverà in una clinica a provare a riordinare le sequenze di una vita evaporata senza approdare a nulla di concreto. Joan Didion trova una formula perfetta per dare voce alle apparenze e ai fenomeni che affollano la trama inafferrabile di Prendila così: brevi costruzioni che stanno su una pagina o due, frammenti di episodi, brandelli di dialoghi e scorci di paesaggi dove la desolazione ambientale è consona e complementare alla dissoluzione personale. La pena è il tentativo di sopravvivere ai rimpianti che Maria cerca di evitare nella sua nuova collocazione: “Mi sforzo di vivere nel presente e di tenere lo sguardo fisso al colibrì. Non vedo nessuno di quelli che conoscevo un tempo, ma del resto me ne importa pochissimo di un sacco di persone. Voglio dire, forse avevo tutti gli assi nella manica, ma a che gioco giocavo?”. La partita è truccata ed era chiaro fin dall’inizio: Prendila così è un romanzo doloroso perché Joan Didion è inflessibile nella lettura delle deformazioni dello star system e lucidissima nel rappresentarlo con un linguaggio asciutto, spigoloso ed essenziale, che non fa sconti. L’unica attenuante concessa suona sibillina: “Fosse stato un film avrebbero anche potuto sembrare una famiglia”, ma era soltanto l’ennesimo sforzo di immaginazione, destinato ben presto a soccombere. L’unica consolazione di Maria, prima del ricovero finale, che poi è l’inizio di tutto, è il vagabondare in automobile da un highway all’altra, secondo il carattere e le geografie indefinibili di Los Angeles, ma se la strada è la salvezza, non resta molto altro.

martedì 4 novembre 2025

Thomas Zigal

Paul Blanchard ha ereditato una fortuna, ha una moglie e due figli adorabili e la difficoltà maggiore all’ordine del giorno è trovare la giusta la temperatura del gin. Nella sua vita è tutto perfetto o quasi, ma c’è un buco nero nei suoi trascorsi, quando se ne è andato in California per un bel po’. Il figliol prodigo lo deve ammettere: “Alla fine torniamo sempre a casa. Possiamo resistere qualche anno, magari, ma non per sempre. Ci manca quello che abbiamo qui. I favori, le corsie preferenziali, le indulgenze che vengono con il nostro nome. Gli altri sono qui per lavorare con noi”. Questi sono i motivi principali per cui New Orleans è una trappola da cui è impossibile fuggire. Non sono soltanto gli echi mai sopiti della guerra di secessione, il razzismo e la schiavitù e i loro derivati. I conflitti sono tanti e Paul Blanchard trovandosi, suo malgrado, in mezzo a tutte le intersezioni è sempre nel posto sbagliato e nel momento peggiore. A New Orleans ha soltanto l’imbarazzo della scelta. Questo ce lo rende simpatico nonostante sia un figlio di papà senza particolari doti. Un giorno sulla soglia della sua bella magione gli si presenta Mark Morvant, un amico di gioventù, ma anche “quello che sa dove sono sepolti tutti i cadaveri” e gli chiede non solo di ricambiare un antico e pesantissimo favore, ma di intercedere presso la White League perché sostenga la sua candidatura a governatore della Louisiana. Do ut des, senza via di scampo. La politica e la corruzione sono “business as usual”, e non soltanto a New Orleans dove il dilemma del ricatto dura da anni, ma nella perentoria richiesta c’è un taglio nuovo e diverso. La White League è un’organizzazione occulta  esistita veramente ma di cui si sono perse le tracce. Protagonista tra l’altro di una leggendaria insurrezione su Canal Street, imponeva gli interessi bianchi e altolocati con metodi efferati e brutali. Confuso e perplesso più del solito, Paul Blanchard confessa: “Non riuscivo a credere nell’invisibile, anche se stavo cominciando a capire che forze invisibili governavano il mondo molto più di quanto avessi mai immaginato”. Lì si apre un vaso di Pandora che attraversa più generazioni: un popolo di ombre che si alimenta di sigari e scotch in circoli ristretti e privatissimi che incidono non poco sulla vita pubblica, ma che, come nel caso della White League, hanno in catalogo anche linciaggi, rivolte e omicidi. Il prezzo dello status quo. Per Paul Blanchard e per chi lo segue è un crescendo inarrestabile: Thomas Zigal riesce a rendere benissimo il ritmo rocambolesco, spesso condito con una punta di salace ironia, e a tratti persino comico, con dialoghi stringenti e un continuo richiamo alle caratteristiche e alle tradizioni della Big Easy. Conosce ed esalta le battute, lo slang, la topografia e l’anima di ogni vicolo: ha un senso del dettaglio scrupoloso e nello stesso tempo riesce ad avere uno sguardo panoramico capace di abbracciare interi quartieri fino al carcere di Angola. New Orleans è uno state of mind: la violenza e il disordine sono considerati parti integranti del mood cittadino, come il clima, il cibo e soprattutto il Mardi Gras, da cui non si può prescindere e che costituiscono elementi portanti della storia. Hanno il potere di determinare la trama, al di là delle peripezie dell’ineffabile Paul Blanchard e per estensione della sua famiglia. The White League è un’apologia di New Orleans: la città è la vera protagonista del romanzo (grazie al meticoloso lavoro di traduzione e di annotazione di Nicola Manuppelli) e gli intrighi e i segreti, l’attrito infinito e irrisolto tra presente e passato, persino nei risvolti architettonici, sono raccontati con le cadenze travolgenti di un thriller, ma con la coscienza di un’osservazione antropologica. Con la benedizione di Tennessee Williams e Truman Capote, citati en passant, The White League celebra Niu Orlinz in grande stile, nel bene e nel male, concedendo il dono dell’innocenza soltanto alle donne, e si vedrà fino alla fine, nonché alla musica che scorre alla grande con Little Richard, i Neville Brothers, Muddy Waters, Louis Armstrong, Randy Newman con Louisiana 1927, Johnny Adams, Professor Longhair, James Booker, Clarence Gatemouth Brown, Walter Wolfman Washington, Irma Thomas e la Bobby Blue Band con Turn On Your Love Light e Somewhere Between Right and Wrong. Roba di gran classe.

lunedì 27 ottobre 2025

Tom Wolfe

In uno degli stralci più coloriti che vengono riproposti in La baby aerodinamica kolor karamella, Tom Wolfe racconta con disinvoltura la storia di un’opera di Walter de Maria, chiamata Il ritratto di Dorian Gray. Con tutto il rispetto per Oscar Wilde, il furto del titolo ha un senso perché si tratta solo di una lastra d’argento che si ossida e quindi muta nel corso del tempo. La sua storia è al centro del demi monde di New York, con mostre, vernissage, inaugurazioni, cocktail party e il sabato sera tra Jasper Johns o Mark Rothko, ma Tom Wolfe ci arriva alla fine, partendo dalle coste californiane dove imperversano surf, hot-rod e rock’n’roll. La “segregazione generazionale” cominciata con l’invenzione della gioventù nel dopoguerra si impone con la customizzazione delle carrozzerie perché “tra i giovani l’automobile è diventata un simbolo, e in parte il mezzo fisico, del trionfo sulle restrizioni imposte dalla famiglia e dalla comunità”. Tom Wolfe indaga le innovazioni meccaniche come le follie dei demolition derby e soprattutto la deviazione delle forme, dei colori e dei design che ha urtato l’egemonia dei profili dell’industria di Detroit. Sull’onda delle creazioni giovanili, Tom Wolfe affronta anche Murray the K e il suo legame con i Beatles, “il più grosso fenomeno di musica popolare mai esistito”, l’importanza delle radio nella diffusione e nella percezione della cultura, la figura di Phil Spector e le sue produzioni fino ai tumulti di Watts. È tutta un’altra era vista su più dimensioni: le considerazioni di Tom Wolfe sono sempre belle appuntite, lo stile è tranchant e coinvolgente, l’attenzione per i dettagli e i costumi ha una teatralità effervescente, ma a una lettura più attenta, è soltanto un diversivo per mascherare uno sguardo molto più profondo. Ben presto la vena caustica di Tom Wolfe rivolge le sue attenzioni a New York e secondo il suo punto di vista, la città “non fa che tenersi aggrappata a questa vecchia, feudale e patrimoniale idea delle gerarchie sociali, del farsi vedere, dell’incontrare la gente giusta e via dicendo”. Mecenati e artisti, commensali e faccendieri, portieri e altre apparizioni fugaci sono all’ordine del giorno e della notte: New York è fatta di ombre e “qualche passo falso, qualche delusione, qualche risatina alle spalle, e vuoi tagliarti la gola per questo?”. Tom Wolfe è una guida imprevedibile, capace di tenere banco senza sosta, lasciandosi trasportare persino da una brillante leggerezza quando dice: “Guardatevi intorno, tanto per cominciare questa città è un manicomio, sbaglio? Perciò, non lasciatevi prendere dalla frenesia. Rilassatevi. Godetevela”. Certo, intanto Il ritratto di Dorian Gray ormai annerito e graffiato dagli anni oggi vale più di mezzo milione di dollari. Testimone oculare di tanti eccessi e divagazioni, Tom Wolfe a New York si concede un’avventura con gli automatismi all’Hilton, frutto di una digressione letteraria che pare infinita, e poi, nell’alternarsi tra la costa occidentale e orientale, ecco il gran finale con il ritorno in California con l’analisi ravvicinata delle protesi di silicone, acuta ed esilarante. Nel frattempo ci sono ampie parentesi dedicate a Marshall McLuhan (e a Freud) e a Hugh Hefner e al suo impero di apparenze, così, senza alcuna soluzione di continuità. Se a prima vista La baby aerodinamica kolor karamella è un insieme difficile da decifrare, il collage che va formandosi sottolinea, nel caso ce ne fosse bisogno, che “la vita americana si va omogeneizzando sempre più al suo centro di potere”. Ancora validissimo.