martedì 2 dicembre 2025

Earl Thompson

C’è il tatuaggio e ci sono ferite che ti costringono a ricordare chi sei e da dove vieni. Non si possono cancellare ed è così che Earl Thompson non fa sconti: Tattoo è un romanzo pieno di dolore e di miseria umana che si trasmette come una malattia contagiosa. Ti si incolla addosso per osmosi con l’aura di Jack alias John Andersen, che è un loser come pochi. Il padre è in carcere, la madre anche, e lui vive con i nonni in una roulotte, tutto molto white trash. Jack è solo “il ragazzo” e come tale deve ancora scoprire e capire i risvolti della vita che verrà, comprese quelle pulsioni che non riesce a controllare. Tutti gli sforzi per integrarsi e/o per redimersi sono inutili anche se la sua idea, in fondo, è molto semplice ed essenziale: “Avrebbe voluto che tutti potessero essere trattati come gentiluomini. E basta con le stronzate sul fatto che quel diritto bisognava guadagnarselo”. La differenza è proprio lì e Jack, sognando l’eroismo, si arruola in marina per non consumarsi nel buco nero di Wichita, Kansas. La vita militare non è certo la soluzione migliore, ma per il suo limitatissimo background è la sola alternativa, e lo sarà per ben due volte nel corso di Tattoo. La seconda guerra mondiale sta finendo, è questione di giorni: Jack arriva in marina e si ritrova prigioniero della stessa feroce miscela di noia, sesso e violenza che Earl Thompson condensa nelle scene turpi di un’assurda battaglia tra commilitoni a base di resti di polli e dello stupro di gruppo di un’ufficiale ubriaca e priva di sensi. Il dispiegamento nell’oceano Pacifico a caccia degli ultimi soldati giapponesi che non si arrendono e in attesa degli sviluppi della rivoluzione cinese non cambia molto. Se per Jack “i libri erano diventati il suo stabilizzatore giroscopico” con la lettura di H. G. Wells, John Steinbeck, James M. Cain, Bret Harte ed Erskine Caldwell, la vera ossessione resta il sesso che lo spinge ad avventurarsi nei bordelli sulla costa. Earl Thompson non lascia nulla all’immaginazione del lettore, i dettagli sono degni di un voyeur, la scrittura, lineare e senza particolari sfumature,  segue un ritmo meccanico con insistenza maniacale che ha l’effetto di mettere in risalto la decadenza, il disorientamento e l’infinita tensione che aleggia intorno a Jack. Al ritorno, con il minimo prestigio guadagnato con l’uniforme della marina, prova a trovare una collocazione dignitosa e ci guadagna solo un turbinio di guai senza fine. La voglia di vivere e di emergere si scontra con i muri delle istituzioni, la famiglia, l’azienda, la chiesa, la scuola, le forze armate. Lo scontro è impari e faticoso e la vicenda opprimente e angosciante di Jack assorbe e condensa la storia americana dell’immediato dopoguerra, un clima di turbolenza con l’esplosione di un’idea di gioventù che deve trovare un posto tra porzioni di tran tran provinciale e grandi drammi mondiali. Per Jack non c’è una via d’uscita e dopo essersi bruciato ogni occasione, gli resta soltanto un’ultima spiaggia, l’esercito, e torna ad arruolarsi. Solo che c’è sempre una guerra americana dietro l’angolo, la disciplina e le gerarchie lo inchiodano a un grado infimo, e viene chiamato in Corea a comandare una formazione di carri armati, dove nel gelo e nel fango scompare ogni parvenza di umanità. Se Jack è l’antagonista di se stesso, Earl Thompson non segue altro schema e nemmeno una particolare costruzione della trama: Tattoo (nella traduzione di Tommaso Pincio) è un romanzo spietato che, con un suo peso specifico, racconta come le deviazioni americane, dalla feroce competitività quotidiana alla natura stessa dell’onnipresente complesso militare e industriale, sono il brodo di coltura ideale per lo sviluppo di un violenza che esplode da un momento all’altro. Sia un stupida rissa o un conflitto internazionale, non è una questione che si può spiegare o argomentare per vie semplici: i particolari, come i tatuaggi, non mentono ed è necessario affrontare una massa enorme di pagine (sono quasi ottocento) per rendersi conto che Tattoo è un’immersione inequivocabile in una realtà brutale.

venerdì 21 novembre 2025

Roman Kozak

Patti Smith, che c’era fin dall’inizio e ci sarebbe stata fino all’ultimo giorno, lo chiamava “la roccaforte dell’ignoto”. Una bella immagine: pur scontrandosi con la rozza realtà del CBGB, la poetica formula rende l’idea dello spirito del luogo, un topaia nel Lower East Side di New York destinata a diventare un ganglio nevralgico della musica popolare nella seconda metà del ventesimo secolo. Secondo l’affidabile percezione di Ira Robbins si trattava di “un tunnel lungo e buio, con un soffitto spoglio, pochi sgabelli al bar, un palco nel retro e pareti fossilizzate da graffette, adesivi e poster”, eppure dalla primavera del 1975 ha visto fiorire rock’n’roll band che hanno cambiato in modo radicale gli scenari sonori. Television, Patti Smith Group, Ramones, Blondie e Talking Heads sono stati tra i primi a usufruire degli angusti spazi del CBGB che è esistito ed è diventato quello che è diventato per via dell’umanità che l’ha popolato. In effetti persino il suo fondatore, proprietario e animatore, Hilly Kristal lo definisce un “incidente”, nato dal classico errore che in tutti gli esperimenti che si rispettino sortisce gli effetti migliori: “Aprii il CBGB perché pensavo che la musica country sarebbe diventata la cosa più importante. E lo divenne, anche se non qui”. Se le prime battute sono state un po’ casuali, e molto pionieristiche, in seguito si è rivelato un approdo inaspettato per realtà alla deriva. È la pop art il convitato di pietra, tutto un modo di intravedere ovunque una possibilità, di cogliere un’opportunità anche dove sembra impossibile, persino attraverso il fascino della decadenza. Più che un vago senso di comunità, l’identità del CBGB è stata quella di un capolinea che ha trasformato le necessità delle rock’n’roll band in altrettante occasioni, prima tra tutte quella di crescere in pubblico, come avrebbe detto Lou Reed, un avventore di tutto rispetto. Al netto delle variazioni di prospettiva e delle cronache più o meno affidabili, il collage di Roman Kozak puzza di verità. È crudo, diretto ed essenziale, in questo in perfetto stile CBGB: nei fatti e nella sostanza Questa non è una discoteca è una storia orale che raccoglie le testimonianze sul campo, compresi gli anni dell’evoluzione dal punk all’hardcore. Da Lenny Kaye a Dee Dee Ramone, da Richard Hell a David Byrne a volte le voci si sovrappongono al racconto di Roman Kozak che limita allo stretto indispensabile gli aneddoti e le leggende, scegliendo piuttosto di assecondare la versione dei protagonisti che a vario titolo hanno affollato il CBGB fino alla sua chiusura, avvenuta nel 2006. Una fine inevitabile perché tutto il quartiere, come gran parte della città, non ha resistito alla gentrification: il gusto tribale della street life ha lasciato spazio a quello glamour della moda e al nuovo ordine del turismo, ma nulla toglie alla magia del CBGB. Il fitto assemblaggio di Roman Kozak è arricchito dalla prefazione di Chris Frantz, dalle fotografie in bianco e nero di Ebet Roberts, dalle locandine e dai flyer raccolti da Matteo Torcinovich, nonché dall’appendice dedicata all’hardcore italiano in trasferta a New York seguita da Luca Frazzi che peraltro ha tradotto e curato l’intero Questa non è una discoteca. La precisazione racchiusa nel titolo merita di essere seguita dall’ulteriore definizione di Patti Smith: “Il CBGB è uno stato d’animo”. È vero ed è importante ricordare come ci si è arrivati, visto che Legs McNeil ha precisato che “Hilly (Kristal) fu abbastanza intelligente da lasciare che i pazzi gestissero il manicomio”. È andata proprio così, e non si poteva dirlo meglio.

martedì 18 novembre 2025

Patti Smith

Patti Smith è una sagoma in movimento, una Polaroid che si deve sviluppare: ci vorrà un minuto, o un pezzo di vita, o forse tutta intera. La sua introspezione non conosce sosta: è una perlustrazione intima e molto personale che scorre parallela e contigua al suo inesauribile afflato per l’arte in generale, la musica e la scrittura in particolare. Il pane degli angeli è l’ennesima celebrazione di un modus vivendi che vede Patti Smith nell’epicentro di fibrillazioni emotive che si traducono in una prosa florida e ipersensibile, capace di perdersi in un singolo particolare e di convogliare suggestioni e osservazioni in un tono elegiaco. A priori, lei si riserva un’autoassoluzione, quasi un rito propiziatorio per ricominciare e continuare a raccontarsi: “Per molto tempo ho mantenuto un residuo di innocenza, un ciuffo impalpabile alla deriva da qualche parte dentro di me, che mi ha concesso una generosa dote di entusiasmo, temperando la perdita e la delusione”. È un memoir sui generis con una costante nelle digressioni di Patti Smith e nell’infinita macedonia di iperboli e metafore che ormai distinguono il suo stile e qui c’è tutto, “c’è la magnificenza, e c’è il magnifico fallimento”. Non spiega, non argomenta e non teme di ripetersi, e succede spesso: è come se ogni storia, ogni singolo aneddoto, da Just Kids in poi, prendessero forma in modo diverso, sotto una nuova luce. Il pane degli angeli è così: meditabondo, accurato nella scelta dei vocaboli, ma anche naïf a tratti, come se Patti Smith fosse solo una spettatrice del proprio destino, consapevole che “bisogna distinguere tra un sogno e una vocazione”, ma libera da canoni e vincoli. Questo fin dagli anni più acerbi, evocati in un florilegio di dettagli che concorrono a definire un’apparenza di trama e il senso di un’individualità ribelle: “Non stavo al passo, eppure nella mia mente ero diversi passi avanti, perché portavo con me i mondi che avevo abitato, letto o creato febbrilmente”. La tessitura iniziale è fin troppo fitta, ma la ricerca del tempo perduto dell’infanzia ha però un motivo ben preciso che diventerà chiaro soltanto più avanti, ovvero verso la fine, quando Il pane degli angeli chiarisce che quel passato non passa mai “perché i bambini operano nel perpetuo presente, vanno avanti, ricostruiscono i loro castelli, depongono gessi e stampelle, e tornano a camminare”. Per Patti Smith la svolta arriva con “la schietta ingenuità del rock’n’roll” e, anche se lo sapevamo già, non perde l’occasione per ribadire che “non c’erano regole se non quella di essere liberi, senza nessuna aspettativa materiale. Cercavamo tutti il nuovo, fondendo poesia e rock, messi a nudo, privi di artificio. Nella ricerca dell’illuminazione, potevamo anche sporcarci, ma nella ricerca della semplicità venivamo purificati, e così cercavamo tutti entrambe le cose”. Gli appunti di viaggio, le cronache famigliari, le amicizie e le assenze (“Faccio l’inventario di chi è ancora con me”) si alternano alle visioni, agli ascolti e alle letture. Di volta in volta “la memoria si riaccende e si snoda nelle vene di una mappa a brandelli” e ritroviamo Il pane degli angeli farcito da Samuel Beckett e James Joyce, dal mare onnipresente della costa atlantica a quello di Trieste e Nizza, da Picasso e Camus, da John Coltrane e dai Grateful Dead, da William Burroughs ed Emily Dickinson fino all’inevitabile ricordo di Sam Shepard, che le aveva dato il via, un secolo fa. L’idea di “lasciar andare” le parole è implicita nel tono, nel ritmo e, più di tutto, nella certezza, l’unica, che “la realtà è la pioggia e il vento, poche pagine di appunti che, si spera, entreranno a far parte di qualcosa di più grande”. Le esigenze di Patti Smith sono frugali e la sua predisposizione è tutta volta a cogliere qualcosa che il più delle volte resta impercettibile e aleatorio: “Ecco ciò che uno scrittore desidera, in un caffè alle prime ore del mattino, nel salone vuoto di un albergo, o quando scrive su un taccuino nel banco di una cattedrale silenziosa. Un improvviso raggio di luce che contiene la vibrazione di un preciso momento”. Davvero, non c’è altro e Il pane degli angeli è tutto lì: una fotografia sfocata, l’eco di una chitarra elettrica, una barca che non ha mai preso il largo, un miraggio che brilla ancora. 

lunedì 17 novembre 2025

Ron Rash

In un remoto angolo del North Carolina, nel fatidico 1929, sbarcano marito e moglie freschi di matrimonio e in arrivo da Boston. Serena è perfida e risoluta e con Pemberton forma una coppia diabolica, che non lascia scampo. Sono animati da un unico scopo, il profitto, e non badano ad altro. Ogni mezzo, dalla corruzione (sistematica) alla violenza, omicidio compreso, è permesso, se non addirittura consigliato. Le speculazioni sul terreno, la costruzione della ferrovia, il taglio degli alberi, lo sfruttamento senza limiti delle persone non meno dell’ambiente sono gli elementi che sostengono i loro affari. I lavoratori arrivano a frotte in cerca di un impiego qualsiasi, in seguito alla crisi economica seguita al crollo finanziario di Wall Street, e lì lo trovano anche se per pochi spiccioli e molti rischi e pericoli. Gli incidenti mortali e la mutilazioni sul fronte del lavoro sono continui, ma i coniugi Pemberton non badano a nessuna evenienza sapendo che la legge non aiuta chi non può permetterselo. Le maestranze, in tutta la loro miseria, vengono scaricate dai vagoni e alimentano senza sosta la predazione di alberi secolari. C’è molto in Serena delle delle imprese e delle necessità dei capitali, a partire dalla scelta tra “il lavoro o un bel panorama”, che è ancora attualissima, ma la volontà di “disboscare” è soltanto l’inizio. Lei è mossa da un’ambizione sfrenata che le fa immaginare in continuazione il passaggio successivo, le foreste amazzoniche del Brasile viste come un frutto maturo da cogliere. Per Serena e Pemberton “niente esiste se non ciò che è adesso”, ma poi la determinazione piega la curva ed ecco “la sensazione di guardare il tempo scorrere al contrario”. A loro resistono soltanto la figura laboriosa di Rachel e quella, ripescata dalla realtà, di Horace Kephart, scrittore e attivista ante litteram. Rachel ha avuto un figlio da Pemberton, e lo cresce da sola, sistemando la casa dove vivono e trovando il tempo di chiedersi qual è il suo posto nel mondo. Horace Kephart, l’autore di Our Southern Highlanders, storica indagine sull’universo degli Appalachi, è tra i convinti promotori, sostenuti dal governo federale, di un parco nazionale che, va da sé, collide con i piani economici dei Pemberton e dei loro soci. La trama si evolve insieme alla devastazione dell’ambiente e Ron Rash dissemina indizi, agganci e rimandi e tutta ha una serie di chiavi e di artifici che premettono svolte importanti. I dialoghi degli operai sono il contraltare spontaneo e colorito del continuo tramare dei due malefici coniugi. Un’assortita fauna che comprende procioni, cavalli, aquile, giaguari, serpenti a sonagli è protagonista almeno quanto gli esseri umani. Nello stesso modo il clima, aspro ed estremo, e le condizioni del territorio,  determinano gran parte dei momenti più importanti: mentre la personalità di Serena appare con maggiore decisione, svolta dopo svolta, Ron Rash non risparmia nulla ai suoi personaggi, nemmeno a lei e a Pemberton, e con il ritmo incalzante di un’avventura, offre uno sguardo panoramico ed emozionante sulla wilderness americana, così come volge l’attenzione sulle feroci contraddizioni di cui è teatro, fin da allora. Nell’aria aleggiano temi popolari come The Big Rock Candy Mountains, Mary Of The Wild Moor e Barbara Allen che Ron Rash chiama “canzoni di frontiera” a ricordare che laggiù “la terra è rocciosa e ripida, gli inverni sono lunghi e la solitudine è tanta”. Epico.