lunedì 16 giugno 2025

Ishmael Reed

C’è il groove e c’è l’intenzione di fermarlo perché ha un potere assurdo, difficile da codificare: è incontenibile, gioioso e di giorno in giorno si moltiplica senza sosta. Le istituzioni, le società segrete, le chiese riconosciute, persino i marines, provano in tutti i modi a contrastare le ondate ritmiche, gli effetti incontrollabili delle danze, le mutazioni di usi e costumi, il riappropriarsi di un’identità e la sua proliferazione nei quartieri delle maggiori città e in tutta la nazione. La direttiva è esplicita e univoca: “La gente dovrà comportarsi meglio o non sopravviverà. Smetterla con questi balli, con questo casino, con la soddisfazione di bassi appetiti carnali. Abbiamo bisogno di fabbriche, scuole, fucili. Ci servono dollari”. Ovvio. Conotro il disturbo della quiete pubblica, lo schema è ricorrente e risaputo: il conflitto latente ha le sue radici storiche e politiche e bisogna partire, ancora una volta, dalla schiavitù, ma Ishmael Reed non si attiene mai alle linee di demarcazione sottintese dal romanzo in sé e inventa un mosaico di parole che rispettano soltanto la corrente sincopata del linguaggio. Se è vero che l’America “è il paese dove qualcosa ha successo in proporzione al modo in cui è presentata”, Ishmael Reed rilancia in senso divergente ed esponenziale. È tutto slang, anche a discapito della logica e comprese nel caos generale le forme tipografiche non convenzionali che concorrono a fare di Mumbo Jumbo un caso più unico che raro. La natura stilistica è senza dubbio originale ed esplosiva, con salti, iperboli, digressioni o semplici deviazioni. Le possibilità non sono molte: o ci si lascia andare nel flusso trascinante della mistura di Ishmael Reed senza sindacare su logiche e significati o si rimane incastrati alla ricerca di un senso che è difficile identificare. La trama di Mumbo Jumbo è uno scheletro che balla ascoltando il riverbero antico dei tamburi di Congo Square così come i volteggi spiritati dei sassofoni di John Coltrane. Tra templari, androidi parlanti, cannibali, sette e religioni, connessioni politiche ed equilibri occulti, New Orleans e Harlem, investigatori e giornalisti, trafficanti e artisti, Zora Neale Hurston e Langston Hughes, è  spettacolo senza un coesione apparente, ma che mostra quello che siamo diventati perché è  la rifrazione di una realtà complessa ed evanescente nello stesso tempo. L’insieme è inafferrabile, ma contiene tutti gli elementi della presunta modernità, in particolare uno sciame turbolento di informazioni, un virus linguistico pericoloso e sfuggente, la cui ambiguità si riflette nello svolgersi di Mumbo Jumbo. È facile stupirsi nell’inseguire Otis Redding piuttosto che Freud e Jung e, nel contesto caleidoscopico di Mumbo Jumbo, trovarlo normale perché in fondo “non c’è tempo per spiegazioni”. Succede perché prevale l’alternarsi di personaggi in continuo movimento che “inseguono se stessi. Lo chiamano destino. Progresso. Noi lo chiamiamo spettri. Gli spettri delle loro vittime che salgono sulla terra dell’Africa, del Sudamerica, dell’Asia”. Quello che cresce non chiede permesso e Ishmael Reed conferma che in origine “non apparteneva a nessuno. Le parole non si potevano pubblicare ma la melodia era irresistibile”. È il jazz con tutta la sua forza a trascinare Mumbo Jumbo con le presenze di Scott Joplin, Charlie Parker, Jelly Roll Morton, Louis Armstrong, Fats Waller, Bix Beiderbecke, Paul Whiteman, Cab Calloway, Bessie Smith, Clarence Williams e, non a caso, il Cotton Club che diventa l’epicentro di tutto.

lunedì 9 giugno 2025

Anne Rice

A New Orleans è “come se la notte fosse durata mille anni” ed è dove i vampiri hanno avuto terreno fertile, attingendo all’immane martirio della schiavitù, un’ombra pesante che aleggia sulla città e su tutta l’America. Se questo è l’ambiente che li ha ospitati, le origini sono molto più complesse, tanto è vero che il lugubre interpellato, Louis de Pointe du Lac precisa subito: “Ci sarebbe una risposta molto semplice. Ma non credo di aver voglia di dare risposte semplici”. Ben presto, l’intervista si trasforma in un lunghissimo monologo dove vengono espresse tutte le particolari condizioni esistenziali dei vampiri. Si rivelano esseri tribolati, malinconici, feroci e prigionieri di una decadenza infinita. Le architetture che di volta in volta  abitano e affrontano riflettono la loro identità, l’afflizione che coltivano lungo una falsa eternità e va detto che i vampiri sono una realtà molto complicata. Intanto non sono reali, appartengono a una dimensione parallela, non priva di contraddizioni e di paradossi e Intervista col vampiro in questo è una specie di vademecum dettagliatissimo che va oltre gli aspetti più spaventosi perché, “uccidere non è un atto qualsiasi” e “non si tratta solo di rimpinzarsi di sangue”, ovvero l’atto che li distingue “è l’esperienza di un’altra vita, della perdita di quella vita, attraverso il sangue, lentamente; è rinnovare il ricordo della perdita della mia propria vita”. In cerca della genesi dell’enigma, Louis, accompagnato da Claudia, una bambina che lui e Lestat hanno trasfomato in vampiro, lascia New Orleans per addentrarsi nell’Europa centrale. È un viaggio atlantico ed è anche una sorta ritorno a casa, ma in Transilvania, i miti e le leggende che popolano i villaggi non risolvono il mistero, anzi, lo rendono ancora più acuto. L’angoscia di Louis e la sete di conoscenza di Claudia si scontrano con “la stessa solitudine, la stessa condizione senza speranza. Tutto sarebbe andato avanti come prima, sempre, sempre”. Nelle lunghe e cupe giornate dei Carpazi, capiscono che “non c’era tempo, non c’era ragione”, ma non si arrendono. La meta successiva è Parigi dove si scontrano con una comune vampiresca, piuttosto ambigua vista l’indole solitaria, e ritrovano Lestat che muore e risorge più volte, e ritornerà ancora nella sanguinosa saga di Anne Rice. Mentre il racconto si dipana con atmosfere che ricordano i dipinti di Bruegel, Dürer e Bosch che nell’Intervista col vampiro rappresentano “le ultime vestigia dell’umanità”, nel legame tra Claudia e Louis diventa difficile stabilire cosa sia l’amore per i vampiri (per cui è tutto un assoluto), al punto che lui confessa: “Rimpiango solo di non essere stato più attento alla trasformazione”. Si scopre così che i anche vampiri hanno una sensibilità, e sanno notare “un fiammifero acceso nell’altra stanza, un’ombra che balza all’improvviso alla vita, quando luce e buio si animano dove non c’erano che tenebre”. Intervista col vampiro ne indaga a fondo l’essenza elencando tutta una simbologia legata a generazioni di vampiri che si susseguono e si alternano nel protrarre nei secoli una desolazione infinita. Sì, si comprende l’intensa sofferenza ma alla fine la natura dei vampiri è quella che è, e lo scoprirà anche l’improvvido intervistatore. Condannati “a un tempo vuoto ed eterno” a cui non c’è consolazione, “nessun segreto, nessuna verità, solo disperazione”, sono una tragica deviazione, o forse “solo un’illusione, causata da quel luogo assolutamente selvaggio che era la Louisiana”, dove, infine, ritornano tutti. Sono molto umani, ma “gli uomini erano capaci di una malvagità di molto superiore a quella dei vampiri”, e su questo non c’era dubbio fin dall’inizio.

venerdì 6 giugno 2025

James Sallis

L’odissea umana di Lew Griffin, protagonista della serie che comprende anche Il calabrone nero e La mosca delle gambe lunghe, segue, in questa tappa, le tormentate vicende di una bambina, nata prematura e già tossicodipendente. Baby Girl McTell, questo il nome della piccola sfortunata, è figlia di Alouette la cui madre è LaVerne, intima e profonda amica di Lew Griffin. È proprio la scomparsa di Alouette che lo porta a scoprire l’esistenza di Baby Girl McTell attraverso i paesaggi torbidi e umidi del Delta che sono un ostacolo non indifferente, come riconosce lo stesso Griffin: “Da queste parti non si sopravvive se non si è disposti ad adattarsi. E a tenere duro”. La sua esperienza, parte da lontano, quando cercava di interpretare al meglio il ruolo di detective, ma ormai si è sovrapposto a James Sallis, visto che nel frattempo è è diventato insegnante e scrittore. Non un percorso semplice, anche perché torna a sfiorare quel passato che non passa mai: “Me n’ero andato in città, a New Orleans e mi ero fatto una vita; non una vita di cui vantarsi, ma pur sempre una vita tutta mia, e mi ero tenuto alla larga da quei posti. Da un sacco di altre cose, in verità. E adesso erano tutte lì ad aspettarmi”. Così, mentre Lew Griffin è incastrato tra un crossroad e un juke joint, con le canzoni di Sonny Boy Williamson e Robert Johnson che risuonano nell’aria, tutto un mondo gli si sgretola attorno perché, come dice in uno dei passaggi più significativi de La falena, “la vita che viviamo, i manufatti che realizziamo non sono che un trasparente, uno strato posto sopra chissà quanti altri strati: alcuni destinati a rivelare, altri a nascondere”. Lew Griffin, in questo romanzo intenso e drammatico, attraversa tutti, i livelli della disperazione e della redenzione, andando a cercarsi i guai quando i guai non trovano lui perché poi in fondo il vero problema è “il tempo, che ti ruba la vita e ogni buona intenzione”. Capita persino al suo fraterno amico, Don Walsh, uno che ha combattuto a testa alta nelle strade di New Orleans ma che non ha retto tra le quattro mura della sua famiglia. La sua storia scorre parallela a quella di Baby Girl McTell, di Alouette  e di LaVerne come una variazione dello stesso animo blues di Lew Griffin. Se Alouette guarda con qualche titubanza verso il futuro (“Non sono in grado di fare previsioni a lunga scadenza. Lo vorrei, certo, ma è proprio che non posso, che c’è qualcosa che ancora non quadra”) e James Sallis pare parlare per tutti i suoi personaggi quando dice che “forse, dopo tutto, per quanto possiamo parlare di cambiamenti, di redenzione o di crescita personale, per quanto possiamo essere dipendenti da terapeuti, fedi religiose o droghe (legali o no) che alterano la percezione, siamo costretti a ripetere gli stessi, identici gesti per tutta la nostra vita, rivestendoli di panni diversi, come bambini che giocano, così che possiamo fingere di riconoscere quegli stessi gesti guardando negli specchi”. Per Lew Griffin diventa evidente che “il fardello che ci carichiamo sulle spalle finisce per spingerci a fondo. Nella migliore delle ipotesi, ci tiene fermi dove siamo”. A James Sallis non resta notare che il viaggio è uno solo: “Dentro il passato, senza tregua, Kierkegaard aveva ragione: la nostra esistenza, siamo in grado di comprenderla (se mai lo facciamo) solo guardando all’indietro”. Non è l’unica citazione di alta qualità: richiama anche le letture di Conan Doyle, George Perec, Gore Vidal, Thomas Bernhard, Jonathan Swift, James Baldwin, Raymond Queneau, Robert Pirsig, Tennessee Williams e Chester Himes a cui ha dedicato La falena. Notevole.

martedì 27 maggio 2025

Carl Hiaasen

Miami, un mondo a parte di congetture e intrighi e uno snodo tropicale fin troppo caotico, anche per gli standard di Carl Hiaasen. Se un certo grado di disordine è fisiologico e da mettere in conto, c’è qualcosa in più come notava, con la consueta lucidità, Joan Didion in Miami, contemporaneo di Miami Killer: “Le superfici, a Miami, tendevano alla dissolvenza”. Un bel punto di vista. Siamo tra il 1986 e il 1987, anni torbidi e turbolenti che sono stati davvero un crocevia di complotti, tensioni e violenze che Carl Hiaasen risolve in una parodia agrodolce, sarcastica e irriverente. I protagonisti di Miami Killer hanno l’abitudine di scomparire nell’ombra o nelle paludi: si tratta di un miscuglio di giornalisti, poliziotti, detective, terroristi, turisti e disadattati di ogni genere e specie. I personaggi principali sono Brian Keyes, già giornalista e investigatore privato, e Skip Wiley, un tempo suo collega ed editorialista che si è reinventato ribelle, un “uomo geniale e appassionato che trasformava la fantasia in realtà”. Lo dice Jenna, enigmatica femme fatale, amata da entrambi, che “aveva innescato la scintilla”. Il triangolo è spigoloso e nel gruppo stralunato e combattivo di Skip Wiley sono rappresentati di alcuni tratti distintivi della popolazione di Miami e delle contee limitrofe: un mastodontico ex giocatore di football, un esule cubano, un misterioso seminole. Sono una bella congrega di fissati, ma fanno fatica a restare uniti, nonostante l’obiettivo dichiarato: respingere l’invasione dei turisti e ripristinare l’identità perduta dell’ambiente selvaggio delle coste della Florida. Una missione dai nobili intenti, condotta con mezzi e azioni goffi e crudeli, compreso l’assalto a una nave da crociera con i serpenti lanciati dall’elicottero, una leggenda metropolitana sempre utile, nonché il rapimento della reginetta del momento, Kara Lynn Shivers, che avviene nel corso della più importante sfilata cittadina, con la colonna sonora di Light My Fire dei Doors. Dove può portare tutto ciò, Carl Hiaasen non lo lascia intravedere: si limita a seguire le movenze dei suoi personaggi che sembrano sfuggire anche al suo controllo. Nella baraonda, sono tutti maldestri e fuori posto, come se l’esilio di migliaia e migliaia di cubani fosse contagioso: le relazioni sono tutte pericolose e Miami è uno stagno dove, secondo il principio fisico di azione e reazione, si generano effetti incontrollabili. Ognuno ha la sua teoria e una posizione da difendere e si muove nelle aree devastate della città come se fosse in cerca di un destino che non arriva mai. Anche Carl Hiaasen pare perdersi nel trambusto generale, tra attentati dinamitardi, trappole, fughe e segreti e misfatti che si moltiplicano in un clima umido e irrespirabile. È così che Miami Killer ha il ritmo sincopato dei riff degli Stones (puntualmente citati in una scena memorabile con Sympathy For The Devil) e procede a salti e sobbalzi, ma anche nel suo caracollare disordinato, mette il dito nella piaga della commistione tra stampa, istituzioni, politica, e affari che del resto vediamo e sentiamo tutti i giorni, e non solo in Florida.