Gli effetti dell’arrivo di Too
Much nel villaggio di roulotte e caravan chiamato Vita Serena sono quelli di
una reazione chimica: come iniettare una massa adrenalina impazzita in un cuore
addormentato. L’imprevedibilità di Celebration s’impenna pulsazione dopo pulsazione, anche per via
della peculiare condizione degli ospiti. Vita Serena è occupato da anziani che
vagano come ombre, e sappiamo bene che non è un paese (e nemmeno un mondo) per
vecchi. La routine è parecchio
modesta e a Vita Serena vige una calma piatta, grigia e crepuscolare ovvero
“come diceva Janis Joplin: altro giorno, stessa merda”. E’ una palude in cui le
vite sono sospese tra un nulla e l’altro. Too Much è il sasso che increspa la
superficie dell’acqua e appare incontenibile perché parte dal presupposto che
“il tempo è passato e ha rovinato questo. Il tempo è passato e ha rovinato quello. Il tempo è una cagata. E la morte è una cagata
finché non muori”. Il primo ad esserne affascinato e poi travolto è Stump alias
Bubba, un reduce della guerra di Corea, mutilato, che gestisce il Vita Serena e
che adotta Too Much, quando si presenta sulla sua soglia. Too Much è poco più
di una bambina che si manifesta
con tutta se stessa, a partire dal corpo. L’espressione della fisicità, e della
sessualità, uno dei temi ricorrenti dei romanzi di Harry Crews, è il preludio
all’escalation di mosse che portano Too Much a ribaltare il tran tran di Vita
Serena, cominciando un modo molto (molto) creativo di usare il moncherino di
Stump. Tutto perché secondo
Too Much “la noia era imperdonabile in un mondo in cui esisteva palesemente la
possibilità dell’occasione assoluta”. Non è chiaro cosa rappresenti
quest’ultima definizione, ma è proprio attraverso la propagazione dell’idea di
una “possibilità dell’occasione assoluta” che il parcheggio è attraversato da
una serie di miracoli, non tutti destinati a un lieto fine, perché “le vie
convergenti del caso” (indispensabile corollario della “possibilità
dell’occasione assoluta”) non sono così logiche. Johnson Meechum, che passava
le giornate sparando nel fango, riscopre la moglie Mabel, Justice abbandona
alle ortiche la servizievole identità da pronipote di schiavi e riscopre il
passato prossimo di pugile e Ted Johanson, passati gli ottant’anni, ricorda di
essere stato un boscaiolo capace di arrampicarsi sulla cima degli alberi e
tutti tornano a rivelare le proprie arti e mestieri, dal falegname al
borseggiatore. Con la sua esuberanza, Too Much manipola e indirizza e sprona,
ma è come se soffiasse un ultimo alito di vita. Un concentrato esplosivo per
gli anziani di Vita Serena, che si riscoprono ancora vivi, vegeti e utili ed è
quello il problema perché “il mondo sa che cosa fare del dolore. Non ha mai
saputo che cosa fare della felicità e dell’esultanza”. Episodio dopo episodio, Celebration
si evolve come una specie di
situation comedy urticante e sarcastica. Non è né bello né comodo: è sgraziato
e contorto ma ha anche un fascino particolare nell’immaginare la metamorfosi di
tutto un microcosmo di loser. Come direbbe Too Much: “Un tantino crudo, magari,
ma onesto che di più non si può”. Proprio così.
martedì 30 dicembre 2014
sabato 27 dicembre 2014
T. C. Boyle
Gli amici degli animali si contendono la difesa dei fragili ecosistemi delle
Channels Islands, al largo della California. Dave LaJoy è un attivista
antipatico e insopportabile, ma è nel giusto perché si fa guidare da un solo
comandamento: non uccidere. Alma è politically correct, ma nei suoi interventi
di conservazione e/o ripristino c’è l’ambiguità della supponenza di poter
decidere il destino degli eventi naturali con strumenti artificiali, se non
proprio artificiosi. Il contrasto emotivo tra i protagonisti pare una
semplificazione, ma l’ordine delle cose non è così: c’è molta della condizione
isterica del nostro mondo che Gli amici degli animali interpretano, come se i tentativi, opposti e
speculari, con cui cercano di ripristinare il caos appartengano più ad
una dimensione empirica che scientifica, amplificata dalla particolare cornice
insulare e marina. Come scriveva Judith Schalansky nel bellissimo Atlante
delle isole remote: “L’isola appare un mondo sé
stante, ancora allo stato naturale originario, come il paradiso prima del
peccato originale, impudico ma innocente”. L’introduzione naturale o
artificiale (quale che essa sia) di una specie, implica il rischio,
l’eventualità, più che probabile, di una trasformazione repentina della vita,
di un ribaltamento della catena alimentare. E’ la storia (vera) del boiga
irregularis, che introduce il tema corrente tra Gli amici degli animali: è una bella creatura di tre metri che, arrivata in
modo fortuito sull’isola di Guam, si è moltiplicata per tre milioni e mezzo di
esemplari, trasformando l’isola in un nido di serpenti. Il dilemma della
sovrappopolazione e della convivenza (e della sopravvivenz)a di forme di vita
diverse sullo stesso, limitato pianeta è il nocciolo degli scontri che Gli
amici degli animali sovrappongono a battaglie di ego
insaziabili. E’ una storia dei nostri giorni, una storia paradossale, volendo,
che racconta i pericolosi malintesi che si accumulano nel convulso rapporto tra
l’uomo e la natura (o il suo consumo). L’idea al centro del corto circuito, che
il genere umano possa decidere di vita o morte su tutti, si rivela in modo
diverso e drammatico sia ad Alma che a Dave LaJoy e T. C. Boyle è molto lucido
nel far capire che, in realtà, l’unico deus ex machina è il caso. Gli amici
degli animali è avvincente nel ritmo,
essenziale nella scrittura, molto pertinente e urgente nel rivelare le
contorsioni del genere umano di fronte ai processi naturali, come se T. C.
Boyle avesse letto La natura delle cose nel De Rerum Natura di Tito
Lucrezio Caro: “Vediamo che la natura, nel dissolvere i corpi, libera i vari
elementi ma non li distrugge: se no tutto potrebbe cessare all’istante di
esistere se contenesse in se stesso qualche elemento mortale non occorrendo che
giunga una forza a dividere le parti di cui si compone e a disfarne la trama”.
Come diceva T. C. Boyle in un’intervista: “Io penso che tra 50 anni andrà a
finire come raccontava Cormac McCarthy con La strada. Noi mangeremo tutto e quando non ci sarà più nulla,
ci mangeremo l’un l’altro. Ma il mio piano, personalmente, è morire. Questo è
come affronto la questione”. Non è l’unico omaggio a un grande scrittore che
riserva T. C. Boyle: Gli amici degli animali cela anche un tributo per La fiera dei serpenti di Harry Crews utile a comprenderne il finale, beffardo
e perfetto.
martedì 23 dicembre 2014
Don DeLillo
Si può leggere La stella di
Ratner come un’inconcludente teoria di
scrittura, fine a se stessa: un’elaborazione infinita del rapporto (non del
tutto improbabile) tra lettere e numeri, visto che lo stesso Don DeLillo ha
ammesso di aver “provato a scrivere un romanzo che non solo avesse la
matematica tra i suoi argomenti, ma che, in un certo senso, fosse esso stesso
matematica. Doveva incarnare un modello, un ordine, un’armonia: che in fondo è
uno dei tradizionali obiettivi della matematica pura”. Il sistema è solo
un’apparenza, un abbaglio o un miraggio: La stella di Ratner ha piuttosto le sembianze di un tema jazzistico su
cui piovono improvvisazioni, interludi e incognite assortite. La trama è
sintetizzata, ormai a metà del romanzo, dallo stesso DonDeLillo: “L’ombra
dell’era matematica moderna prese a stagliarsi sulle pareti imbiancate
suppergiù in contemporanea con il manifestarsi dello spirito della
ghigliottina, turbando i sogni di un esile fanciullo che in seguito si sarebbe
distinto per precisione, sgomberando con maestria il flusso regolare
dell’analisi di tante incertezze”. Si chiama Billy Twillig e sarà il genio
principale di una cosmopolita task-force incaricata di decifrare un messaggio
proveniente dai dintorni della stella di Ratner. Endor vive in un buco e mangia
larve, Hoad arriva in elicottero, Otmar Poebbels è il suo superiore ed è
seguito in ordine sparso da Simeone Goldfloss, Desilu Espy, Harouh Farad,
Kidder, LoQuadro, Mutuka alias Gerald Pence, Hoy Hing Toy e poi Celeste Dessau,
U.F.O. Schwarz, Shirl Trumpy, Viverrine Gentian, Rahda Hamadyad, Armand
Verbene, Siba Isten-Esru fino a contrazioni come Grbk o Troxl. La lunga trafila
di nomi, più che di personaggi con identità vere e proprie è una sequenza
linguistica parallela al corso aritmetico e algebrico. Con tutti loro (visto
che “i nomi raccontano storie”), Don DeLillo mette il piccolo “mago dei numeri”
al centro di un labirinto narrativo. Una folle danza di parole che comprende
“una modalità di esistenza subidiotica” piuttosto che “un’indagine sui composti
silfizzanti esoionici” o una non meglio identificata “repressione analogica
ideativa”. Un rumore bianco di perversa ironia: più ci si addentra
nell’underworld della strampalata comunità scientifica che cerca di decifrare
il messaggio alieno e più è evidente il ruolo (provocatorio) dei giocatori. A
partire da Don DeLillo “in orbita” (la definizione è usa) con la rivoluzione
che compie La stella di Ratner attorno
ai suoi romanzi: in fondo, è il frutto di “uno spionaggio poetico praticato dai
sensi per contrastare il sospetto di vuoto che alberga in noi riguardo
all’esistenza stessa”. Marshall McLuhan, una decina d’anni prima che La
stella di Ratner apparisse all’orizzonte,
diceva che “il medium è il messaggio”. Don DeLillo sostiene che “forse non
esiste alcun messaggio” e tutto quello che facciamo “in realtà, è imporre i
nostri limiti concettuali a un argomento impossibile da concludere entro i
confini delle nostre conoscenze attuali. Ci parliamo intorno. Emettiamo suoni al fine di rassicurarci. Tentiamo
di sbucciare i sassi”. Quanto agli extraterrestri, siamo sicuri che Don DeLillo
è sempre d’accordo con il famoso parere Arthur C. Clarke: “La miglior prova
dell’esistenza di forme di vita intelligente nello spazio cosmico è il fatto
che non sono mai venute da noi”. Un paradosso, ma nemmeno tanto.
domenica 21 dicembre 2014
William Carlos Williams
Paterson è una città cresciuta per accumulo, nell’arco di
vent’anni, dal 1946 (anche se le sue radici arrivano fino al 1926) al 1963, un
work in progress che William Carlos Williams ha sviluppato partendo da
un’ipotesi quasi matematica nella sua dimostrazione: “Cerca il nulla, sbaraglia
il tutto, l’N di tutte le equazioni, quella roccia, il vuoto, che le sostiene,
una volta strappato via, la roccia è la loro caduta. Cerca quel nulla, che sta
oltre ogni visione, la morte di ogni cosa che sta oltre, oltre ogni essere”.
Tutto comincia con le domeniche d’estate a Paterson, New Jersey, le conversazioni open air, il
pulviscolo sfuggente della quotidianità, la semplicità di una passeggiata sotto
gli alberi. La realtà rientra nelle parole in modi misteriosi e, come scrive Octavio
Paz, i versi di William Carlos Williams sono “fiori immaginari che operano
sulla realtà, ponti istantanei tra gli uomini e le cose. Ed è così che il poeta
fa del mondo un luogo vivibile”. L’edificazione di Paterson procede fluttuando nel tempo visto che la città “un
luogo è fatto di ricordi al pari del mondo che lo circonda” e coincide con “la
fantasia che non si può scandagliare”. William Carlos Williams avanza senza
esitazioni: non cerca la “sporca argilla”, vuole il “prodotto finito”, la
pietra d’angolo su cui innalzare un tempio degno della capitale di un sogno, di
un’idea, di una rivoluzione. Il genio sta nell’abbandono, nell’inseguire un
miraggio, in fondo, nell’estrema consapevole per cui “noi non sappiamo nulla,
salviamo la danza: il ritmo è tutto ciò che abbiamo”. La materia prima, la
parola, ricostruisce sulle fondamenta di Paterson “l’affinità tra la mente dell’uomo moderno e una
città”. E’ una svolta epocale del ventesimo secolo: nell’interpretazione di
William Carlos Williams “un uomo in sé è una città e inizia, cerca, realizza e
conclude la sua vita in modi personificabili nei vari aspetti di una città”, e
nessuno, come lui, ha tradotto in poesia questa simbiosi. Come una marea, Paterson avanza e scompare, mostra e nasconde, parte e ritorna
rispondendo a quella sensazione “anfibia” che, secondo Octavio Paz “unisce e
allo stesso tempo ci separa dalle cose. E’ la porta attraverso cui entriamo
nelle cose ma anche uscendo dalla quale facciamo nostra l’idea che noi stessi
cose non siamo. Perché la sensazione lasci il passo all’oggettività delle cose
essa deve a sua volta trasformarsi in oggettività. Il linguaggio è l’agente di
questa trasformazione: le sensazioni diventano oggetti verbali. Una poesia è
dunque un oggetto verbale, fusione di due proprietà tra loro in contraddizione:
la vitalità delle sensazioni e l’oggettività delle cose”. Paterson è quello, è tutto proprio perché, come scrive William
Carlos Williams, “tratti via dalle strade noi rompiamo la clausura della mente
e siamo presi dal vento dei libri, cercando, cercando nel vento, finché non
sappiamo più quale sia il vento quale il potere del vento su di noi che porta
la mente lontano”. Da leggere, rileggere, consultare come un vocabolario
magico.
mercoledì 17 dicembre 2014
Greil Marcus
Attorno a Like A Rolling Stone, una delle canzoni più famose e importanti della
storia del rock’n’roll, Greil Marcus ricostruisce la storia dei personaggi,
delle svolte e degli eventi che portarono alla sua incisione e che seguirono la
sua pubblicazione, nel 1965. L’inquadratura è dichiarata fin dalle primissime
pagine dove Greil Marcus dice che in quel preciso momento “la corsa non era
solo tra i Beatles, Bob Dylan e i Rolling Stones e chiunque altro. Il mondo del
pop era in gara con un mondo più vasto, il mondo delle guerre e delle elezioni,
il lavoro e lo svago, i poveri e i ricchi, i bianchi e i neri, le donne e gli
uomini: nel 1965 potevi sentire che il mondo del pop stava vincendo”. I
crocevia di cui si parla in Like A Rolling Stone, oltre a richiamare l’enigma di Robert Johnson,
illustrano meglio le svolte affrontate da Bob Dylan nel e dal 1965. E’ attorno
a quell’anno che maturano alcune delle scelte, molti imprevisti e altrettante
decisioni che cambieranno la storia della sua vita, ma anche quella del
rock’n’roll. In questo Like A Rolling Stone è fedele al concetto espresso da Greil Marcus nella
parte centrale dove dice che “la canzone è un suono, ma prima di questo è una
storia. Ma non è un’unica storia”. Diventa allora il cardine attorno al quale
ruota tutto l’immaginario pubblico e giovanile (ma non solo) di un’intera epoca
e come tale assume un valore universale perché, come scrive Jann Wenner
“riguarda il crescere, scoprire quello che succede intorno a te, realizzare che
la vita non è affatto quella che ti è stata raccontata”. La ricostruzione è
certosina perché gli snodi di Like A Rolling Stone, proprio come nella canzone, sono tanti e
importanti. Tra gli antefatti vanno elencati la crisi dei missili di Cuba nel
1962 (il mondo sull’orlo dell’apocalisse già evocato da un profetico Bob Dylan
in A Hard Rain’s A-Gonna Fall) e
l’assassinio di JFK concentrati nella bellissima epigrafe di Allen Ginsberg.
Tuoni e fulmini che Like A Rolling Stone invocava e superava perché come scrive
ancora Greil Marcus “c’erano rabbia e paura, alla fine venivano lasciate alle
spalle dalla vera e propria euforia dell’avventura che la canzone prometteva.
Adesso non c’è alcuna promessa e la rabbia e la paura sono l’unica moneta di
cui si fida. Ma i frammenti di quella vecchia euforia sono ancora presenti,
come accade per il desiderio di uccidere il passato eliminando chiunque ne
indossi il volto, una vecchia amante, un vecchio amico, te stesso. La tempesta
di Like A Rolling Stone, la
tempesta che fa piazza pulita di ciò che è familiare e rivela un migliaio di
strade, è ora una tempesta di pura distruzione, ma la brama che conduce il
cantante verso la tempesta è la stessa”. In appendice, c’è una dettagliatissima
rivisitazione delle session che portarono a Like A Rolling Stone, take dopo take. Tra questi due estremi, Greil
Marcus, più divulgativo e meno intricato che altrove, riesce ad illustrare con
chiarezza perché, in quel preciso momento storico “nessuno ascoltava la musica
alla radio come se facesse parte di una realtà separata”, ovvero dove hanno
portato quei crossroads che Dylan, e con lui tutto un mondo, si trovò davanti.
venerdì 12 dicembre 2014
Jason Starr
Richard Segal e la moglie Paula
sono due giovani in carriera nella frenesia workaholic di New York, scenario
perfetto per mettere in luce il confronto quotidiano con realtà ossessive e il
minimo comune denominatore che le unisce nell’incapacità di comunicare. Lei ha
appena ottenuto una promozione, ed è integrata alla perfezione, compresa la
visita settimanale dall’analista. Lui, che è un esperto venditore di software e
altri derivati informatici, sta attraversando un periodo negativo dovuto al
trasferimento in una nuova azienda e ad un’oscura ferita che emerge dal
passato. “Lo scopo del gioco è vincere” scrive Jason Starr e quando la vita è
dominata dalla competitività, in ufficio come a letto, in strada come sul campo
da tennis, le ambizioni e le frustrazioni viaggiano insieme, inestricabili. La
pressione, che pare mutuata dalla stessa architettura di New York, è opprimente
per tutti figurarsi all’interno di un matrimonio di per sé già traballante. Le
dinamiche della coppia, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, lei in trincea
di giorno e di notte, lui con una vocazione irrisolta all’alcol, diventano il
motore torbido della storia. Insieme, Paul e Richie sembrano il trionfo della
noia. Separati, sono, nello stesso tempo, mine vaganti e bersagli mobili. La tensione
è costante, a tratti insopportabile, una violenza che cova nell’alveo degli
uffici open space, dei debiti accumulati sulle carte di credito, di una vita
sempre un po’ oltre i limiti, tra il sogno dell’ufficio d’angolo con panorama
su Central Park e l’incubo della destinazione più temuta, un anonimo cubicolo
in mezzo a milioni di altri. Richie ci arriverà, per poi risollevarsi quando
deciderà di affrontare le ombre degli abusi che ha subito da bambino. I Cattivi
pensieri a Manhattan lì prendono una parabola
spietata e il romanzo, nella sua brevità, diventa durissimo e tagliente. Jason
Starr non perde tempo, la sua lingua è limitata ed essenziale, molto realistica
(fin troppo) e senza contorni moraleggianti: i personaggi si muovono veloci nel
disperato tentativo di restare a galla, non altro. L’impressione di averli già
visti con le bugie, i sotterfugi, gli inganni con cui sopravvivere alla
ragnatela di New York, è forte. Come i loro simili in Chiamate a
freddo o in Piccoli delitti del
cazzo, Jason Starr li trascina verso il
fondo, con la velocità di un videoclip. Scena dopo scena, pagina dopo pagina,
la spirale di Cattivi pensieri a Manhattan si fa sempre più stretta e se è evidente fin dalle prime battute che
né Paula né Richie hanno scampo, poco importa perché per Jason Starr esiste
soltanto il ritmo tambureggiante, i dialoghi sferzanti, le frasi tagliate a
colpi d’accetta, i rapporti umani circondati da un’ombra livida e senza
speranza. Non c’è via d’uscita, e il vagabondare di Richie è soltanto il riflesso
di un’identità che non riesce più ad afferrare e tappa dopo tappa, stazione
dopo stazione, il suo downtown train
giunge al capolinea. Si legge in una sera e fa pensare per due settimane.
martedì 9 dicembre 2014
Donna Tartt
Travolto
dalle esplosioni di un attentato in un museo di New York, Theo Decker perde la
madre e salva un piccolo quadro, Il cardellino, a cui si aggrappa come se fosse
l’ultimo appiglio sulla terra. Succede tutto con “il brivido di una connessione
interrotta, i secondi sul marciapiede come un singulto del tempo perduto, la
manciata di fotogrammi tagliati di un film”, poi Theo viene ospitato dalla
famiglia del suo amico Andy, i Barbour che, con i loro modi aristocratici,
cercano di aiutarlo, per quanto possibile perché Theo è cosciente di ciò che è
successo e “di sicuro non urlavo di dolore né prendevo a pugni le finestre, né
facevo alcuna delle cose che uno si sentiva come me avrebbe potuto fare. Eppure
a volte, senza preavviso, il dolore m’investiva a ondate, lasciandomi
boccheggiante; e quando la marea si ritirava restavo a fissare un relitto
coperto di salsedine, illuminato da una luce così chiara, triste e vuota, che
mi pareva impossibile che al mondo fosse mai esistito qualcosa di diverso dalla
morte”. Nella prima parte (e in particolare nello svolgersi del rapporto tra
Theo e la madre) Il cardellino
è davvero da Pulitzer, poi, come se l’onda d’urto delle bombe, cominciasse a
rimbalzare, trascina la storia in un vortice di volti e suggestioni: Hobie,
l’artigiano e l’antiquario che sembra in grado di sopportare tutto, persino la
morte, il padre Larry e Xandra, Boris, Hart Crane, i Beatles, Bob Dylan. Dal
suo approdo Las Vegas, “un enorme fanculo a Thoreau”, Il cardellino si accumula, si addensa, non si risolve,
e il più delle volte è ridondante, come se Donna Tartt non fosse così sicura
della corretta sequenza delle frasi, delle immagini e delle scene, e dovesse
ripetersi, più di una volta. Arrivati a metà si prosegue per capire, giusto per
curiosità, come andrà a finire. Donna Tartt, se non altro, ha la grazia di una
scrittura accattivante e ben organizzata, agevole e pop, una sorta di Stephen
King (peraltro nascosto in un paio di citazioni) senza l’elemento fantastico.
Nella seconda parte, Il cardellino
è assalito dai colpi di scena che si susseguono a ritmo tambureggiante, non
sempre coerente, e si tinge anche di una sfumatura noir, non del tutto
appropriata. In questo passaggio non si può svelare di più, per le ovvie
ragioni legate alla trama e ai suoi sviluppi, ma l’epilogo è contorto, anche se
tra le righe Donna Tartt spiega che “è questo che fanno tutti i veri maestri.
Rembrandt. Velásquez. L’ultimo Tiziano. Giocano. Si divertono. Costruiscono
l’illusione... Ma appena ti avvicini un po’, ecco che il trucco si svela e
appaiono i segni del pennello. Astratti, ultraterreni. Una bellezza diversa e
molto, molto più profonda. La cosa in sé e il suo contrario”. Se si prendono le
dovute misure, Il cardellino
si rivela un romanzo che procede per tentativi, uno strato sopra l’altro: non
sempre i contorni coincidono e rimangono nella cornice. E’ un bel soufflé,
forse lievitato un po’ troppo: se è vero che “tutto ciò che ha davvero valore
rappresenta una scommessa”, è altrettanto ovvio che in un labirinto di
ottocento pagine non sia facile trovare la soluzione.
mercoledì 3 dicembre 2014
Charles Bukowski
Taccuino di un vecchio sporcaccione raccoglie le rubriche
che Charles Bukowski tenne su una rivista undeground, a partire dal 1967. Una
condizione ideale, tanto per cominciare: “Non c’erano pressioni di nessun tipo.
Bastava semplicemente mettersi a sedere vicino alla finestra, alzare la lattina
di birra e lasciare che il pezzo venisse fuori da solo. Tutto quello che doveva
arrivare, arrivava”. Settimana dopo settimana, il Taccuino di un vecchio
sporcaccione
cresce grezzo, risoluto, spontaneo perché Bukowski è proprio nel suo elemento
naturale, quello autobiografico, senza altro recinto. L’elenco delle
possibilità e delle opportunità è elementare: “Pensateci anche voi: totale
libertà di scrivere qualsiasi cosa che vi passi per la testa. Io mi ci sono
divertito, mi sono anche fatto dei problemi, qualche volta; ma soprattutto mi è
sembrato di capire che, col passare delle settimane, i pezzi venissero fuori
sempre meglio”. Nella felice confusione del suo taccuino, il Buk tiene insieme
Satchmo e T. S. Eliot, un effervescente ritratto di Jack (Kerouac) & Neal
(Cassady) attraverso uno strambo flusso di coscienza. Molto musicale
nell’appuntare le vicende quotidiane di cavalli di razza e corse
sconclusionate, donne e uomini che si inseguono, “party girls & broken
poets” per dirla con Elliott Murphy, sullo sfondo di una città aperta tutta la
notte. I frammenti del Taccuino di uno sporcaccione si agganciano uno
all’altro, anche in modo disordinato e senza soluzione di continuità, comprese
le licenze igieniche necessarie: “I lettori prendono da uno scrittore, o da un
libro, quel che gli pare e trascurano il resto, ma quel che gli serve è quel
che in realtà non gli serve mentre trascurano quel che gli servirebbe
maggiormente, insomma tutto ciò mi consente di eseguire le mie piccole sante
variazioni e nessuno mi disturberebbe se venissero comprese, ma in questo caso
non ci sarebbero più creatori, ci troveremmo tutti nello stesso paiolo di
merda. Nella situazione attuale io mi trovo nel mio paiolo di merda e loro nel
loro, penso che il mio puzzi di meno”. Non manca la classica autoassoluzione
bukowskiana, che collima con il paesaggio umano raccolto sul Taccuino di un
vecchio sporcaccione: “Io non ero un gran genio, ma ero lontano da Atlanta, non
ero ancora un cadavere, avevo delle belle mani e molta strada da fare”.
Partendo da sé, Bukowski condivide una sorta di infinita apologia generale con
gli outsider, con gli eterni sconfitti (“E per pessimi che fossimo eravamo la
fine del mondo”), con i cronici inconcludenti, con i recalcitranti. Il suo Taccuino
di un vecchio sporcaccione diventa un trionfo verboso e incontinente, caotico e
sarcastico nello stesso tempo, come nella migliore tradizione bukowskiana. La
percezione, a livello epidermico, è di una specie di ritmo che, anche nelle
scadenze di una modesta rivista underground, diventa persino una filosofia di
vita, che poi è quella di sempre: “Non potevo far altro che scolare la lattina
di birra e aspettare che cadesse l’atomica”.
giovedì 27 novembre 2014
Joseph Mitchell
Joseph Mitchell è un reporter
della vecchia scuola: consuma le suole delle scarpe per andare a caccia di
notizie, non inventa niente ed è un osservatore acuto, curioso, generoso ed
entusiasta, persino molto ironico, quando deve una certa indolenza: “Non mi è
molto difficile inventare una scusa che giustifichi il mio comportamento (ho
una grande esperienza nel giustificarmi di fronte a me stesso”). Si vede anche
nello spazio limitato dalla forma embrionale di Una vita per strada, poco più di un articolo che destinato ad avviare un
romanzo autobiografico: Joseph Mitchell riesce a dipanare tutta una grande
(grandissima) abilità nel leggere la realtà quotidiana di NYC, la sua
architettura, i suoi angoli, le forme e le atmosfere. “Cammina per la città,
indaga ogni stradina, ogni avvenimento insolito, ogni personaggio eccentrico.
Continuò a farlo, e in modo ossessivo, per tutta la vita” dicevano i suoi
colleghi ed è lo stesso Joseph Mitchell a confermare la sua predisposizione al
vagabondaggio: “Quello che amo davvero è gironzolare senza meta per la città,
camminare giorno e notte per le strade. E’ più di un piacere, un semplice
piacere, è un’aberrazione”. Anche se si muove come un rabdomante lungo le
perpendicolari di New York, quel “diventare parte della città”, non è casuale.
La distinzione è nitida e non lascia scampo: i suoi preferiti sono “visionari,
ossessivi, impostori, fanatici, predicatori della fine dei tempi, vecchi re e
regine degli zingari, e freak puri e semplici”. Non cerca, non segue e non
vuole saperne di “signore mondane, capitani d’industria, ministri, esploratori,
attori di cinema, e attrici di qualsiasi tipo al di sotto dei trentacinque
anni”. L’essenza di Una vita per strada è nella sua visione dal basso perché nello spirito con cui l’affronta Joseph
Mitchell “non esiste osservatorio migliore da cui guardare la città ordinaria,
comune l’altezzosa, maestosa, argentea città verticale, ma la vasta città
orizzontale di un grigio, di un marrone, di un rossiccio e di un rosa
fuligginosi, la città intricata che cova sotto le ceneri, vecchia, inquinata e
a un passo della demolizione”. Le immagini, le sensazioni, le percezioni non
sarebbero niente senza la scrittura elegante, raffinata, avvolgente che è
palpabile anche nei ristretti margini di Una vita per strada: “E mi piace in particolare recarmi in una di queste
chiese in un’assolata domenica mattina estiva quando le strade del quartiere
sono praticamente deserte e tutto è calmo e sereno e pare che molti più uccelli
che nei giorni feriali si muovano tra gli alberi e gli arbusti e l’edera del
cimitero e i vetri colorati risplendono e le porte sono accostate e le finestre
al piano terra sono state alzate appena appena e da qualche parte un
ventilatore ronza e i libri di preghiera e gli innari aperti rilasciano
nell’aria calda l’odore acidulo dei vecchi testi maneggiati a lungo, e c’è solo
un gruppetto di persone, il solito gruppetto di irriducibili, tra i quali ci
sono sempre alcune vecchie ossute, rigide, altere, che sprizzano New York da
ogni poro”. Manca soltanto Joe Gould, che rimane là, dietro l’angolo.
martedì 25 novembre 2014
Robert Penn Warren
Se
la dimensione di un classico si misura attraverso la sua atemporalità, allora Tutti
gli uomini del re è una pietra
miliare della narrativa (americana, e non solo) nel ricostruire le deformazioni
del potere, degli uomini e delle donne dentro il potere, nella sua espressione
più appariscente, la ricerca del consenso. Sesso, soldi, politica, famiglia:
legati in modo indissolubile, confluiscono in una palude morale, dove menzogne,
tradimenti, rivalse e vendette sguazzano senza sosta come mocassini acquatici (e
più velenosi). Il romanzo è molto più delle sue riduzioni cinematografiche e la
differenza non è relativa. Da cronista della provincia americana, Jack Burden
diventa uno degli spin doctor di Willie Talos, un parvenu dell’agone politico
che si presenta così: “Il mio verbo è il cuore del popolo”. Secondo il parere
(rispettabilissimo) di Joyce Carol Oates è il suo personaggio a conferire un
“valore eterno” a Tutti gli uomini del re, e non c’è dubbio che Willie Talos abbia i parametri giusti per essere
ricordato nei secoli. Al fondo degli eventi, è però il suo rapporto con Jack
Burden a definire il sinuoso corso di Tutti gli uomini del re. Jack Burden proviene da una famiglia ricca e
dissoluta, con una madre volitiva e amici fraterni e altrettanto altolocati come
Anne e Adam Stanton, che hanno avranno un ruolo decisivo nell’evolversi di Tutti
gli uomini del re. Willie Talos viene
dalla terra, dal fango, dalle radici e diventa governatore senza particolari
ambizioni politiche, visto che la sua considerazione della democrazia è
lapidaria: “Prova tu ad andare lì e ficcare un po’ di buonsenso in quel
parlamento. Stai meglio se ti becchi la dissenteria”. Quando Jack Burden
accetta di lavorare per lui, la svolta è un salto mortale: “Sono un politico, e
noi non abbiamo amici”. A quel punto soltanto l’amore platonico tra Jack Burden
e Anne Stanton rimarrà l’unica cosa pulita e non consumata di tutta una storia
che corre spedita verso la tragedia. I semi sono già gettati fin dall’inizio
perché “quando si vuole troppo, di solito ti succede qualcosa. Ti trasformi
nella sola e unica cosa che desideri, nient’altro, perché hai speso troppo per
lei, troppo tempo ad aspettarla, troppo nel desiderarla, troppo per
raggiungerla. E alla fine ti fanno solo quelle domandine di merda”. Robert Penn
Warren pennella a tinte forti, grezze, impressionanti, una scrittura florida e
fluida nello stesso tempo, americana nella sua profonda essenza popolare. Fin
dal primo capitolo, maestoso, che potrebbe essere un racconto, fatto e finito,
ma poi affascina, per esempio, anche soltatno per come inserisce i personaggi
minori, dislocati nei punti strategici, con una gran classe e una
personalissima disinvoltura. Con le stesse modalità piazza le scene principali,
a partire dall’incontro con il giudice Irwin, nel pieno della notte, mentre
Willie Talos diventa “il simbolico portavoce del muto ed encefalitico popolo
dei probi” ed essendo uno di loro, dispone del potere che gli è stato conferito
per difendere, insieme alla sua gente, anche se stesso. Questo è il refrain
nella storia della democrazia; questo racconta un grandissimo romanzo come Tutti
gli uomini del re.
martedì 18 novembre 2014
Raymond Carver
Pubblicati
nel 2000, gli ultimi racconti di Raymond Carver non sono legati al suo
crepuscolo, anche perché nell’ultimo periodo della sua vita, come è noto, più
che alla narrativa, si è dedicato alla poesia che riteneva “una grande
benedizione”. Pur provenendo da periodi molto diversi, e si va dai primi passi
di Raymond Carver fino alla forma ottenuta con infinite revisioni, si ha la
sensazione che i racconti Se hai bisogno, chiama siano collegati da un sottile filo
conduttore. E’ senza dubbio frutto dell’accurato lavoro di lettura, correzione
e assemblaggio di Tess Gallagher e Jay Woodruff, che li hanno scoperti e poi
trattati con la necessaria esperienza e la giusta discrezione, ma è soprattutto
l’effetto di Carver e dei suoi personaggi, con cui viene spontaneo
identificarsi in modo viscerale. E’ proprio quello che succede quando si
incontrano lui e le sue legioni di outsider, così come lo spiega Tess
Gallagher, dato che nei racconti le vite dei protagonisti “sono talmente
depredate dalle circostanze da diventare nostre”. La spiegazione è più che
pertinente, e se questi “short cuts” raccolti in Se hai bisogno, chiama, non sono proprio indispensabili, perché
non aggiungono nulla di così nuovo ed eclatante alla conoscenza dell’opera
carveriana, sono comunque una valido compendio per completarne la conoscenza. Legna
da ardere, giusto per
andare in ordine, è una storia rarefatta e ombrosa in cui i tre personaggi,
Myers, Sol e Bonnie, sembrano specchiarsi uno dell’altro condividendo una
modesta abitazione vicino all’acqua. Un particolare ricorrente, e non è
l’unico: Carver dissemina (sempre) minuscoli indizi, piccole esche funzionali
al meccanismo narrativo, senza malizia, senza artificio. Non c’è nessun trucco,
questo si sa, solo piccoli semi sparsi per ricordare il sentiero, la strada del
ritorno verso casa, magari con “qualche incidente di percorso”, il più delle
volte l’alcol o un legame spezzato, che porta in direzioni impreviste e
sconosciute. Lo schema di Legna da ardere è riproposto da Vandali però con una doppia coppia, più un convitato
di pietra che sfugge al ricordo. L’incendio è soltanto una leggera distrazione
per illuminare il resto del racconto. Diverso è invece lo straziante rogo di Sogni, che mette a dura prova lo scrittore e
il lettore, tanto che la soluzione
sembra essere soltanto una. Come scriveva Raymond Carver: “Mettilo nel
tuo libro”, ed ecco fatto, come se il racconto in sé fosse in grado di
preservare i Sogni (appunto)
e circoscrivere il dolore. Un’arte, a cui servono pochi passaggi essenziali. E’
la distribuzione dei dettagli in Cosa vi piacerebbe vedere?, il ronzio del generatore e quello del
proiettore, piccole forme di attrazione, per segnalare che “a volte le cose
vanno per il verso giusto”. E’ la voce nella constatazione di Se hai bisogno,
chiama: “A distanza di
tempo sembra tutto così volgare e prevedibile, forse perché lo era, volgare e
prevedibile, ma quella primavera era quello che era e basta, e ci stava
consumando tutte le energie e la concentrazione, a scapito di tutto il resto”.
E’ Carver al 100%.
domenica 16 novembre 2014
Bill Bryson
C’è
un equivoco sostanziale nel titolo, perché l’impresa che vorrebbero portare a
termine Bill Bryson e il suo amico Stephen Katz non è proprio Una
passeggiata nei boschi semplice
semplice. Oltre tremila chilometri seguendo i crinali dell’Appalachian Trail,
dalla Georgia al Maine, sono qualcosa più simile ad un’odissea che a una gita
domenicale e non tanto perché tra gli alberi si può nascondere una congrega di
streghe o chissà quali altre spaventose leggende, ma perché come annota subito
Bill Bryson “le foreste non sono spazi qualsiasi. Tanto per cominciare, sono
spazi cubici. Gli alberi ti circondano, ti guatano, premono da ogni lato, ti
impediscono la visuale, lasciandoti intontito e privo di punti di riferimento.
Ti fanno sentire piccolo, confuso e vulnerabile, come un bambino sperso in una
folla di gambe estranee. In un deserto o in una prateria si ha la sensazione di
uno spazio vasto. Ma di una foresta si può solo avere sensazione. Le foreste
sono non luoghi, vasti e senza forma. Vivi”. Attraversarle per sfida, senza
un’adeguata preparazione, e con un compagno di viaggio poco meno che
disastroso, è la vera impresa. Bill Bryson la racconta con una certa verve e Una
passeggiata nei boschi è un libro
piacevole, a volte persino divertente, sempre scorrevole con quel suo continuo
alternare diario di viaggio e saggio storico. Bill Bryson, perfettamente a suo
agio in questo strano ibrido, ha anche mestiere da vendere, ma resta
l’impressione, già percepita nei precedenti accumulati con America perduta, che non voglia o non possa andare in profondità nel
raccontare il territorio americano, come hanno fatto in modi diversi, senza
tante pretese ma in maniera più avvincente, William Least Heat-Moon in Prateria o Jonathan Raban in Bad Land. E’ diverso il tono, come se Bill Bryson guardasse
l’America da un oblò, quindi con una visione ristretta, univoca e monocolore.
Con troppo distacco per essere convincente, Una passeggiata nei boschi è un viaggio con un obiettivo dichiarato proprio dove,
come se ne accorge ben presto Bill Bryson, mancano i punti di riferimento.
Essendo un umorista, l’ironia gli torna utile nell’affrontare le difficoltà del
viaggio, ma spesso rimane l’unico strumento a sua disposizione e si perde di vista il tema centrale,
che poi è, nella sua essenza, una specie di mito. Rispetto ad America
perduta, con Una passeggiata nei
boschi, Bill Bryson ha alzato il
tiro, perché tra l’avvistamento di un alce e una disgressione sulla qualità di
un certo tipo di zaini, offre anche ampi squarci di piogge acide, specie in via
d’estinzione, disboscamenti forsennati, fabbriche e miniere che distruggono
intere montagne o città. Sono le parti più illuminanti perché, superano una
visione paesaggistica e olografica della wilderness per spiegare che “niente
dura, in America”. Nemmeno le foreste secolari: figurarsi che speranze hanno
gli episodi, gli aneddoti e le nozioni da escursionista che costituiscono gran
parte di Una passeggiata nei boschi.
giovedì 13 novembre 2014
Luci Tapahonso
Una
delle voci più originali della letteratura nativa americana, Luci Tapahonso,
sovrappone racconto e poesia, li alterna e li scambia lungo “il confine sottile
di un miracolo”, il compromesso tra il navajo e l’inglese. Sono due vocabolari
molto diversi, che tengono insieme “le fragili vite” e confluiscono in una
lingua essenziale e scheletrica. Se a prima vista la scrittura raccolta in Sáanii
Dahataał può apparire
istintiva, se non addirittura naïf, c’è invece un sentimento solidissimo
radicato nelle sue fondamenta. Le “vie dei canti” di Luci Tapahonso
appartengono a una cultura offesa, minacciata, vessata e distrutta, ma che non
è mai stata dimenticata e le sue liriche usano una lingua che sopravvive nel
ricordo perché lo scopo trascende le pagine in cui è incastrata: “Per molte
delle persone che, come me, risiedono lontano dalla propria terra, scrivere è
il mezzo per tornare, per rinnovarsi e per riportare i nostri spiriti allo
stato di hohzo, o
bellezza, che rappresenta la base della filosofia navajo. E’ una piccola parte
della cosa vera, ed è
funzionale, ma, man mano che la cultura navajo cambia, noi ci adattiamo di
conseguenza”. L’ossessione per le parole non deve nemmeno essere giustificata,
anche se Luci Tapahonso si premura di precisarne la funzione e, va da sé,
l’importanza: “Le parole generano bellezza, felicità, riso, calma come anche
distruzione e morte, quindi fate attenzione al modo in cui le usate. In navajo
diciamo che il sacro ha inizio sulla punta della lingua”. Sáanii Dahataał che è il modo migliore per aprire una
porta a Luci Tapahonso parte proprio da lì, votato a “ordinare e riordinare con
cura parole e pause che erompono come ricordi dal pieno respiro”, come scrive
in Fuori da una piccola casa.
E’ “un’irrequietezza innominabile”, quella che spinge con insistenza verso la
memoria, una vocazione a collocare “un senso di eredità culturale come un senso
della storia”, quasi a costruire un rifugio con le parole stesse. Succede in E’
notte in Oklahoma, una
toccante poesia in cui i due protagonisti, in fuga dal dolore e dal gelo di
avvolgono uno nell’altra e dicono: “qui dentro, noi respiriamo la pelle
dell’altro, ci muoviamo per sentire il battito dei nostri polsi, e questa è
l’unica rassicurazione delle nostre fragili vite”. Questo sfuggente equilibrio
permea tutto Sáanii Dahataał,
senza distinzione tra poesie, canzoni o racconti, ed è tra i motivi principali
che rendono la scrittura di Luci Tapahonso così vivida e magnetica. Il
confronto con un altro idioma, usato come uno strumento per saldare tante,
diverse visioni non intacca la scintilla originale, che è evocata, fin dal
titolo, in Ricorda le cose che ci hanno detto: “Ogni suono che facciamo evoca la
potenza di questi venti e noi siamo, allo stesso tempo, miti e forti”. Il
cuore, l’epicentro e la stella polare di Sáanii Dahataał sono proprio lì, e sembrano prodotti
dall’eco tramandato nel tempo di un antico canto navajo: “Tutto quello che hai
visto ricordalo, perché tutto quello che dimentichi torna a volare nel vento”.
lunedì 10 novembre 2014
Dennis Cooper
“La
verità è arida. La verità si capisce solo quando tutto il proprio mondo appare
come soffritto a fuoco lento finché non ne rimangono solo le informazioni
strettamente necessarie a separarlo dal mondo altrui” confessa Dennis Cooper in
uno dei passaggi fondamentali di Idoli. La verità è che ha visto l’inferno, ci è passato dentro,
“sembrava quasi amore”, e, ora, è qui a raccontarlo. Dennis Cooper è un autore
che non ha misure: il suo meccanico narrare di violenza e sesso, sesso e
violenza (che per lui sono indissolubilmente legati) scuote più di una
coscienza e, in effetti, l’abulia morale dei suoi romanzi, le assurdità
spiegate con una freddezza vicina al cinismo sono sufficienti a spiegare tanta
tensione e a concordare con lui sul fatto che “la realtà è troppo complessa per
lasciarsi decodificare da uno qualsiasi di noi”. Dal punto di vista narrativo,
monotonia e ripetività sono, nello stesso tempo, le sue armi e i suoi punti
deboli, tali da lasciar supporre una voglia di shock a tutti i costi e per tutti
i bisogni dello spettacolo. Un dubbio lecito visto il proliferare di scrittori
che non raccontano più di quello che ha già spiegato Vladimir Nabokov. Magari
aggiungono qualche particolare, d’accordo, un po’ di violenza in più, ma non è
questo il punto perché Dennis Cooper, almeno da quello che si riesce a capire
in Idoli, va oltre.
Affiorano dubbi: è vero che il paesaggio umano è sempre degradato ai minimi
livelli (anche peggio), ma a differenza di tanti altri votati a un approccio
superficiale, Dennis Cooper sembra accorgersi che sta raccontando e che, in
qualche modo, la sua è già una presa di posizione, un definirsi, probabilmente
un tentativo di venirne fuori. Con il contorno sonoro di Guided by Voices
(un’ossessione), Smear, Sebadoh, Lemonheads, Blur che già evocano un paesaggio
fluttuante ed evanescente, le realtà formate dagli acidi e dalla noia assumono
il centro di gravità, lasciando a “qualsiasi potenziale problema insito
nell’avere rapporti con gli altri” il ruolo di “effetti collaterali irrilevanti”.
Gli Idoli si formano
in quelle particolari orbite e in modo altrettanto repentino scompaiono perché
l’alter ego di Dennis Cooper dice: “Chi distruggo nel corso della narrazione
per me non ha importanza. Vorrei solo essere in grado di fare lo stesso in questa
vita molto meno plasmabile che stiamo iniziando a vivere insieme”. Questa è la
frattura, la ferita dentro Idoli
e sembra confessarlo lo stesso Dennis Cooper un passo più in là: “Scrivo
romanzi che sostanzialmente sono soltanto descrizioni prolisse e involute dei
mondi dei miei desideri, insoliti e utopici, in cui realisticamente non sono in
grado di entrare”. Idoli,
pur non spiegando nulla, mostra che l’inferno di Dennis Cooper, per folle e
arido che sia, è soltanto una cellula e che tutto intorno c’è qualcosa che non
funziona perché ammette: “Tutta la bellezza del mio mondo è addormentata, priva
di sensi o cadavere”. Durissimo, sincero: Idoli è un libro da prendere con le pinze e
con i guanti, ma che affronta la realtà con gli occhi spalancati e senza paura
di niente.
mercoledì 5 novembre 2014
A. M. Homes
Il
primo edificio dell’evanescente architettura di Los Angeles a diventare
protagonista del reportage di A. M. Homes è lo Château Marmont, albergo che è
l’equivalente del Chelsea Hotel di NYC, con tutto il suo bagaglio di storie e
drammi, a partire dalla folle notte in cui se ne è andato (in un sacco nero)
John Belushi. E’ anche l’ultimo perché la sua “antropologia del quotidiano” è
un cocktail leggero ed effervescente di ironia, ipocondria, osservazioni e
divagazioni in misure uguali per cercare di capire e spiegare: a) “una delle
città più americane d’America”; b) “forse il luogo più surreale d’America”; c)
una città specializzata nell’eliminazione dell’incredulità, nella sospensione
del tempo, della realtà, della storia e della memoria”. Le premesse sono altisonanti,
i punti di domanda rimangono lì perché quando A. M. Homes si avventura in
territori che non gli appartengono (l’analisi, la critica, il conflitto), non
riesce a sfuggire alla trappola dell’ovvietà: “Per quanto riguarda
l’architettura di Los Angeles è sempre stata un avamposto progressista. Dal
punto di vista estetico, è eccezionalmente democratica: un ambiente urbano che
accetta quasi di tutto, cosa che ne costituisce la bellezza, ma anche
l’orrore”. In realtà, A. M. Homes sfiora appena e/o sorvola la complessità di
Los Angeles: lascia cadere con un certo aplomb l’idea che, per scoprirla, serve
leggere Mike Davis (questo è poco, ma sicuro), poi trotterella tra una centrale
eolica e una beauty farm, tra un hotel e l’altro. C’è qualcosa di attraente
nell’incidentalità delle sue tappe attraverso una “città di frontiera” ed è una
leggerezza che, non a caso, scivola meglio in superficie quando A. M. Homes
scrive: “Los Angeles è la patria di Hollywood, l’industria che ha creato il
sogno americano: è il luogo dove si fabbricano speranze e desideri che poi ti
vengono consegnati come se fossero tuoi, dove donne e uomini fortunati sono
elevati al rango di star, di eroi, almeno fino a quando non arriva qualcosa di
meglio”. Quando torna nell’ambito che gli è proprio, sé stessa, A. M. Homes è
molto più convincente e riesce a delimitare un legame con Los Angeles in modo
preciso: “E’ facile e pericoloso fingere che non ci sia alcun mondo al di fuori
del proprio. In questa città ognuno fa per sé; ogni persona crea la propria
realtà. Ci sono poche esperienze collettive: le condizioni meteorologiche, il
traffico e la terra”. Per qualcosa di più specifico deve parafrasare Gertrude
Stein, quando diceva (a proposito di un altro luogo, di un’altra città): “Là
non esiste alcun là”. E’ proprio così e lo spirito eccentrico, quasi incantato,
con cui A. M. Homes si lascia trascinare nella multiforme geografia di Los
Angeles non è sufficiente a risolvere i limiti nell’impostazione e
nell’ampiezza di una ricerca che, alla fine, ha prodotto una cartolina,
curiosa, firmata e di classe, ma pur sempre una cartolina. Basta non chiederle
di più, potrebbe rintanarsi nella sua stanza preferita allo Château Marmont e
scrivere un altro romanzo.
sabato 1 novembre 2014
Jack London
L’attualità
di Preparare un fuoco,
scritto tra il 1902 e il 1910 rimane sorprendente, per non dire profetica, a
distanza di un secolo. Le condizioni assolute, più che estreme, in cui cammina
Tom Vincent o Tom Collins (così è variato il nome del protagonista di Preparare
un fuoco nel corso delle
diverse versioni) è la sua lampante incomprensione della stessa realtà della
wilderness, che permette a Jack London di evidenziare e acuire la distanza tra
l’uomo, e per estensione il genere umano, e la natura che incombe sopra di lui.
Preparare un fuoco sarebbe
un’attività che rientra nella routine delle normali procedure quotidiane, ma
nella rigidità dell’inverno dello Yukon diventa una questione di vita o di
morte, senza eccezioni. Le due versioni di Preparare un fuoco, pur nella differenza dell’evoluzione
finale, mostrano l’incapacità dell’uomo di assoggettarsi ai propri limiti e di
comprendere quelli imposti dalla natura. Anche i bizzarri tentativi di
antropomorfizzare i fenomeni naturali sembrano un frutto dell’arroganza e
dell’euforia, almeno alla partenza, come scrive Jack London: “Nonostante tutto
si sentiva presente, aveva la percezione di una gioiosa ebbrezza, una vera
esultanza; stava facendo qualcosa, stava raggiungendo un obbiettivo, dominava
gli elementi”. E’ proprio quella l’esca che attira l’uomo nella sua stessa
trappola perché la natura, l’inverno, il ghiaccio e la neve sono lì e non si
inventano niente. L’idea di sfidarli e il tentativo di controllarli è insito
nell’esigenza dell’uomo di provare la sua stessa esistenza. La fatica di
comprenderli rimane esclusa, ed è questa la morale, perché c’è una morale, in Preparare
un fuoco. La sua
sconfitta non è la vittoria della wilderness che è indifferente al destino
umano. E’ un fallimento, dovuto alla negazione dell’istinto primordiale e
all’azzeramento dell’esperienza, più percepibile nell’ultima versione del
racconto, dove interviene un terzo elemento, quello animale. Lo precisava
meglio George R. Adams: “Attraverso il parallelo tra uomo e cane, London suggerisce
una sorta di perverso e ironico processo evolutivo: gli esseri umani finiranno
per snaturare il cane, rendendolo talmente dipendente e oggettivato che non
sarà più in grado di sopravvivere nel proprio ambiente: quindi non sarà nemmeno
più utile per servire o salvare gli esseri umani”. Sull’ereditarietà dei
caratteri il dibattito resta aperto, ma Preparare un fuoco resta un tassello importante nella
variegata bigliografia di Jack London perché traduce in uno splendido frammento
narrativo, quello che Charles Darwin aveva già intuito in Diario di un
naturalista intorno al mondo:
“Noi non teniamo sempre presente alla mente la profonda ignoranza in cui siamo
delle condizioni di vita di ogni animale”. Nella categoria è compreso anche in
genere umano e “mai viaggiare da soli”, l’imperativo da rispettare nel gelo
dello Yukon, vale anche in senso lato perché dice che bisognerebbe condividere
e restare vicini alla sostanza degli elementi e dei fenomeni naturali. Sfidarli
rimane molto pericoloso, oltre che inutile.
giovedì 23 ottobre 2014
Wallace Fowlie
Wallace
Fowlie, docente universitario che ha intrattenuto rapporti e corrispondenze con
Henry Miller, Jean Cocteau, René Char, André Gide e Anaïs Nin, quando ha
cominciato ad accostare Jim Morrison a Rimbaud ha avuto l’umiltà di dire: “Sono
felice di avere l’opportunità di aggiungere qualcosa alla vostra conoscenza di
un grande poeata e cantante”. Il proposito di Wallace Fowlie, all’inizio delle
conferenze e degli incontri le cui cronache sono poi confluite in Rimbaud e
Jim Morrison, era
altrettanto semplice e plateale: “Parlerò dei vagabondaggi di due poeti, della
poesia, della musica e degli antichi miti che i poeti incarnano”. E’ proprio
per quello che Rimbaud e Jim Morrison si pone in termini molto creativi sia nei confronti della
poesia del primo che del rock’n’roll del secondo e non ha esitazioni a
individuare quelle sottili, persistenti radici che nei secoli e nella storia
hanno identificato “il poeta come ribelle”. E’ la definizione contenuta nel
sottotitolo di Rimbaud e Jim Morrison ed è già molto espressiva nel delineare quelli che sono i
tratti salienti del volto che Wallace Fowlie ottiene sovrapponendo il ritratto
di Jim Morrison a quello di Rimbaud. Il legame, così come lo legge Wallace
Fowlie, va ben oltre l’identificazione e la passione di Jim Morrison per
Rimbaud, che Albert Camus definiva “il nostro più grande poeta della
ribellione”. E’ la somma che va a identificare uno, due ribelli “contro i
valori che normalmente ci preparano alla vita”. La differenza è nell’avverbio
perché “il giovane ribelle vive in un mondo a parte” e se lo deve creare da
solo, contro tutti. Così è stato per Rimbaud, così per Jim Morrison e i
passaggi, attraverso la densa elaborazione di Wallace Fowlie arrivano infine a
definire “il ribelle come artista”, sempre alla ricerca di una felicità
sfuggente. Rimbaud e Jim Morrison non
è soltanto un saggio, un’analisi letteraria e poetica sui legami tra due grandi
ribelli, ognuno per il proprio tempo, ma anche la storia di uno studioso che ha
varcato la soglia e ha attraversato la vasta terra di nessuno tra l’accademia e
il rock’n’roll. Alcuni elementi sono andati via via aggiornandosi nelle
ricerche successive, nelle biografie e nei documentari, ma la qualità
dell’impianto dell’analisi di Wallace Fowlie rimane inalterata nella sua
originalità e nella sua indipendenza dai fanatismi del rock’n’roll così come
dalle regole dell’università. Wallace Fowlie evidenzia, anche sgusciando via
dai panni del saggio e del professore, quella “mixed up confusion”, per dirla
con un altro assiduo lettore di Rimbaud (Dylan) che comprende Jack Kerouac e il
resto della Beat Generation, i Beatles e William Blake, il Living Theater e
Walt Whitman ovvero quella miscela instabile e incandescente che è alla base di
tutti i songwriting del rock’n’roll. Rimbaud e Jim Morrison la condensa, elaborando ogni riflessione
possibile, dalle visioni di Rimbaud alle canzoni dei Doors. Nel dubbio,
chiedere conferma a Patti Smith che, tra Rimbaud e Jim Morrison, si è inventata tutta una vita.
martedì 21 ottobre 2014
Lewis Shiner
Il circondario delle Desolate
città del cuore è un ambiente molto suggestivo
perché è un romanzo hendrixiano, avvolto in una nebbia magica e
psichedelica, ma nello stesso
tempo è anche incollato a particolari molto realistici. I riti ancestrali e
tribali, i viaggi archeologici e i trip allucinogeni si specchiano e si
scontrano con le vicende della guerriglia messicana e l’arrivo dei mercenari
americani, che somigliano parecchio ai contras in azione in quegli anni. Siamo
nel 1986, in piena era Reagan e nella giungla messicana in mezzo a una guerra
dai contorni indefiniti perché “con i fucili tutte le idee sono uguali”. Le due
forme di narrazione adottate da Lewis Shiner, quella più visionaria e onirica e
quella più attinente alla cronaca, si accavallano seguendo un andamento
sinusoidale. Le Desolate città
del cuore prendono forma così, con il sovrapporsi di diversi tempi e realtà, il
formarsi di strati che scivolano uno sopra l’altro si intravede nel racconto di
Lewis Shiner, ma se si percepisce il movimento di un terremoto (e qui ce ne
sono dall’inizio alla fine) non è detto che sia chiaro il disegno generale o la
geografia in particolare. L’incastro triangolare tra Thomas e Eddie Yates e
Lindsey, i tre protagonisti, non è ben focalizzato ed è evidente, se persino
Lewis Shiner si sente in dovere di precisare che “c’era molta storia tra loro,
molta tensione, c’erano molte possibilità”. Forse troppe: dei fratelli Yates,
Thomas, è quello più solido, esperto, conoscitore della civiltà maya, mentre
Eddie, il chitarrista scapestrato con il pallino delle esplorazioni
caleidoscopiche è sempre in cerca di guai. Le ricerche del primo si scontrano
con i viaggi del secondo e con il carattere volubile di Lindsey. Tutti e tre
poi si ritrovano nel gorgo confuso degli eventi, celebrazioni mistiche e feroci
combattimenti. Quasi a bilanciare l’eccesso di movimento, per il corollario ai
personaggi principali Lewis Shiner attinge ai cliché e quindi c’è il cinico
ufficiale americano, (Marsalis), l’antieroe con la sua scorta di dignità,
(Oscar, il pilota dell’elicottero), la ribelle fino alla morte (Carla), per non
dire poi dei maya che, insieme a Hendrix, contribuiscono a spostare i cardini
delle porte della percezione. Il legame hendrixiano con la fantascienza è noto:
Lewis Shiner lo espande, aggiungendogli una punta di esotica avventura e una
diversione politica che, tra le righe, sembra essere il segnale più convinto.
L’indeterminatezza dipende dal fatto che Desolate città del cuore, pur tenendo conto di alcune incoerenze e prendendo
atto che non ha particolari ambizioni
stilistiche, è un piacevole racconto che si sporge quel tanto che basta nel
fantastico ma, nella sua essenza piuttosto rocambolesca, pare rimanere
indefinito. Come se Lewis Shiner, a furia di aggiungere ingredienti su
ingredienti, e tutti piuttosto saporiti, alla fine si sia lasciato prendere la
mano, rimanendo imprigionato, come i suoi personaggi, nell’intricata mappa
delle Desolate città del cuore.
lunedì 13 ottobre 2014
Arthur Hoyle
In
una delle appendici della sua documentatissima biografia, Arthur Hoyle elenca
un bel numero di università americane a cui ha scritto per capire se Henry
Miller è ancora consigliato, letto, studiato, adottato. Le risposte sono state
limitate, come se l’ostracismo nei suoi confronti si fosse soltanto evoluto in
una forma di indifferenza, più subdola ed elaborata, perché non consente il
ricorso alla corte suprema. L’unico a tentare un’analisi e insieme un
riconoscimento è stato Tobias Wolff: “Miller ha avuto in un influsso così
grande che è quasi impensabile che i suoi libri non vengano insegnati, ma la
realtà è che purtroppo credo sia così, almeno per quanto ne so qui a Stanford.
Forse non è poi una cosa tanto negativa: scoprire Miller è scoprirsi in preda alla
disubbidienza, alla sovversione, alla franchezza sfacciata e irrispettosa e
alla comicità rivoluzionaria. E’ possibile coltivare questi sentimenti con il
beneplacito delle sobrie autorità istituzionali? Non sarebbe una specie di
antisovversione? E’ solo un’idea”. I motivi dell’esclusione li raduna lo stesso
Arthur Hoyle e sono già una parte pesante della sua storia: “Miller criticò con
veemenza l’America e ne ridicolizzò i costumi sessuali, ma lo fece dalla
posizione di un uomo profondamente innamorato dell’idea di America, il quale sentiva che tale
idea, incarnata in Whitman, fosse stata tradita dagli imperanti interessi
politici ed economici. L’America ha reagito sulla difensiva e continua a farlo;
se non ti piace il messaggio, distruggi il messaggero”. Il suo ritratto è molto
efficace proprio perché ripropone legami e intersezioni letterarie dell’epoca
attraversata da Henry Miller, dalle sue fortune critiche ai viaggi, non esclusi
tutti gli aspetti polemici, sia nel contesto europeo, ovvero parigino, sia in
quello americano, con particolare riguardo alla vita di Big Sur. La ricchezza e
la varietà dei dettagli, i continui richiami alla voce di Henry Miller,
l’attenzione alla scrittura, allo stile e, molto meno (vale a dire lo stretto
necessario), agli aspetti personali e alle sfumature più pruriginose, rendono
la biografia scorrevole e coerente con la realtà della sua esistenza, compressa
nell’idea che “l’arte di vivere implica un atto di creazione”. I matrimoni, le
difficoltà economiche, la lunga battaglia contro la censura (“Ho la sensazione
che nulla verrebbe considerato osceno se gli uomini vivessero fino in fondo i
loro desideri più segreti”), la sua natura graffiante (“Che paese meraviglioso
l’America. Ti fotte a ogni passo”) e la ricostruzione di Arthur Hoyle
combaciano con l’intimo dettato di Henry Miller: “L’intera mia vita si spiega e
allunga in una mattina non rotta né infranta. Scrivo dal nulla ogni giorno.
Ogni giorno un mondo nuovo è creato, nuovo e separato e completo, e lì sono io,
tra le costellazioni, dio così pazzo di sé da non far nulla se non cantare e
plasmare nuovi mondi”. Una biografia adatta per conoscerlo e per conoscerlo
meglio, per leggerlo e per rileggerlo perché, come diceva Lawrence Durrell,
“quello che ci offre è una conquista indiretta, trovare noi stessi tra le sue
pagine”.
mercoledì 8 ottobre 2014
Elizabeth Bishop
Frutto
dell’osservazione e dell’ossessione per i minuscoli dettagli della vita
quotidiana le poesie di Miracolo a colazione interpretano un’attitudine che ha
espliciti riferimenti nella pittura di Seurat o nelle visioni di Blake. E’
quella che Elizabeth Bishop chiama una “concentrazione perfettamente inutile,
dimentica di sé”, capace di incorniciare nei versi frammenti di dialogo,
schegge di percezione, scorci di paesaggio tradotti in elementi di linguaggio
caratteristici e riconoscibili. La lettura di un refuso su quotidian è
ispirazione più che abbondante per L’Uomo-Falena e le basta aprire gli occhi per
raccontare l’alba e il risveglio in Anafora: “Con quante cerimonie il giorno ha
inizio, con gli uccelli, le campane e le sirene di una fabbrica; i nostri occhi si aprono su cieli d’oro
bianco, su muri così fulgidi che ci chiediamo per un attimo: da dove viene
l’energia, la musica? Per quale ineffabile creatura sfuggitaci era destinato il
giorno? Ed ecco che appare per assumere natura terrena là per là, cadendo preda
di lunghi intrighi, acquistando memoria e una mortale mortale spossatezza”. Pur
avendo una particolare grazia nel disporre le parole, con un gusto molto
sensibile per le immagini, Elizabeth Bishop lascia spesso la porta aperta a
squarci onirici che irrompono sulle sue istantanee domestiche, quasi
inoffensive, spezzandone la sequenza e così creando un ritmo stravagante, fatto
di stop and go, di
rapide interruzioni, svolte, repentini cambi di direzione, fino a “non sentire
null’altro che un treno che passa, deve passare, come la tensione; nulla”. A volte criptica ed enigmatica, a
tratti incantevole e gentile, la sua poesia rimane sempre scomoda perché c’è un
altrove costante in Miracolo a colazione che diventa un orizzonte percepibile attraverso L’iceberg
immaginario, (“Meglio
per noi l’iceberg della nave, pur segnando il termine del viaggio”), Ai
magazzini del pesce,
(“E’ come immaginiamo il sapere: oscuro, salso, limpido, animato, da attingere
in tutta libertà alla dura e fredda bocca del mondo, le mammelle di rocca a cui
ricorrere, mai a corto, e storico qual è il nostro sapere non fa che scorrere e
non è più scorto”), Cap Breton
(“La nebbia rarefatta segue le bianche mutazioni del suo sogno”) e la sezione
conclusiva di Quattro poesie,
dove Elizabeth Bishop scrive che “Il mondo è una foschia. E poi il mondo è
minuto, vasto e limpido. E alta o bassa la marea”. Le descrizioni dei paesaggi
marini sono le componenti di Miracolo a colazione che ritornano con maggiore continuità e
intensità. Elizabeth Bishop le mette spesso in risalto, attingendo dalla sua
tormentata biografia, trascorsa tra le coste del Brasile e le baie atlantiche
del New England, e raccogliendo e disponendo le parole come se fossero
conchiglie sulla spiaggia, una domenica mattina. L’arte è sempre quella, dice in un’altra poesia, ed “è
evidente: l’arte di perdere fin troppo presto s’impara, e sembra (scrivilo!) un disastro”. L’apparenza e la dolcezza
delle sfumature non inganna: Miracolo a colazione è una burrasca che ondeggia sorniona, ma
alla fine giunge a destinazione con tutta la sua forza.
venerdì 3 ottobre 2014
Tobias Wolff
A tutti gli effetti, La nostra
storia comincia è un’antologia che copre gran
parte della narrativa di Tobias Wolff, sia in termini temporali, visto che
attraversa trent’anni della sua storia, sia rispetto alla gamma specifica dei
temi dei racconti. Si va dal breve piccolo ritratto di vita suburbana in La
porta accanto, un concentrato urticante di
Richard Yates, John Cheever e Raymond Carver, fino agli spettri delle guerre
americane in Usignolo e Gioia del
soldato, dove ritorna l’ombra del
Vietnam, già indagata da Tobias Wolff con Nell’esercito del faraone (un capolavoro). Il vero leitmotiv che lega la
varietà di La nostra storia comincia è
la scrittura, nitida, precisa, toccante. Nell’arco di poche pagine Tobias Wolff
costruisce ambiente, personaggi, dialoghi (sempre notevoli), dettagli. Il ritmo
è costante, altissimo e teso grazie alle triangolazioni matematiche che
imprigionano i personaggi. In Cacciatori nella neve i tre protagonisti sono già in conflitto alla
partenza della loro battuta di caccia e le condizioni climatiche estreme ne
esasperano le tensioni. Un racconto crudo e abbagliante, come i riflessi sulla
neve che li circonda (anche se altrove Tobias Wolff scrive che “la neve è
sopravvalutata”). La stessa definizione geometrica è altrettanto chiara in Il
fratello ricco e in Leviatano, perché, nonostante si tratti di una doppia coppia, i
protagonisti alla fine sono un trio. Un’ossessione ribadita con Quella
stanza, che comincia con quattro
personaggi e finisce con tre, di cui uno assente fino al colpo di scena,
comunque limitato “sorridere e sperare di voltare pagina”. Anche Il
beneficio del dubbio, tra i racconti più recenti, è
ancora una triangolazione (tra Mallon, Kadare e Miri, un borseggiatore)
ambientata a Roma e così Il suo cane
dove, caso piuttosto insolito, uno dei vertici è un animale con i suoi
pensieri. Viene lasciato molto in sospeso nei racconti di Tobias Wolff che
detta il necessario, lo strettamente indispensabile a concludere la narrazione,
a identificare un tratto ben delimitato di emozioni e situazioni. La nostra
storia comincia è pieno di “gente che non
vorresti incontrare fuori dalle pagine di un libro”, personaggi sempre in
bilico, traballanti nel loro precario equilibrio perché “sappiamo amare, sí, ma
ce ne dimentichiamo di continuo”.
Sono coppie separate, in crisi, insicure, tradimenti, deviazioni di
percorso, legami che si sfaldano perché “la mappa non rispecchiava la
geografia, poco da fare”. Anche nei racconti più rarefatti, come Bacio vero, Tobias Wolff mostra di saper modellare la vita
attraverso la letteratura (o viceversa) senza manipolare troppo quel fondo di
realtà e limitandosi a seguirne l’evoluzione, che in fondo a La nostra
storia comincia ha descritto così: “La verità è
che non ho mai considerato sacri i miei racconti. Nella misura in cui restano
vivi ai miei occhi, resta inalterato anche il mio interesse a esprimere al
meglio quella vita. Una pratica che risponde ai bisogni di una certa
irrequietezza estetica, ma allo stesso tempo una forma di cortesia, mi pare”.
Una narratore di gran classe.
martedì 30 settembre 2014
Mark Strand
Ogni
raccolta di liriche di Mark Strand è una sorpresa. In Quasi invisibile opta per una forma particolare, si
tratta infatti, di piccoli frammenti di prosa, ma il risultato non cambia. Per
varcarne la soglia, basta il piccolo esempio di Nasconditi la faccia tra le
mani: “Non c’è modo di
dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato
inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una
sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le
porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così
profondamente distante”. La scrittura di Mark Strand è salda, solida ed
efficace eppure leggiadra e fantastica, nel senso più ampio del termine: una
lingua sempre fluida e trasparente, anche quando attraversa snodi singolari e
paradossali di cui peraltro è zeppo Quasi invisibile. L’apice, il concentrato e il senso
stesso della sua attitudine poetica è tutto in Notturno del poeta che amava
la luna: “Lasciamo che
la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è
apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è un tavolo”. Una missione
impossibile di questi tempi, ma che Mark Strand continua ad assolvere con
estrema naturalezza e Quasi invisibile, in questo senso è eloquente: L’enigma
dell’infinitesimale è la
quintessenza della sua percezione e così L’eternità provvisoria, splendido ossimoro, perché è tutto
indefinito, sfuggente, vago e troppo umano e soltanto la scrittura riesce a
dare un minimo di ordine. La soluzione della prosa, piccole schegge incastrate
nel bianco delle pagine, non allontana mai Mark Strand dal suo stile, piuttosto
ne esalta l’origine, l’immediatezza mettendola in risalto, anche quando sembra
regalare un simulacro di commiato in Una lettera da Tegucigalpa: “Ai vecchi tempi, i miei pensieri
sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della
consapevolezza e io li trascrivevo, e ogni nuova pagina risplendeva di una luce
che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era
appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei
pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di
tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era
inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per
ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe
quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di
cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di
sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per
questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia
contentezza”. La poesia diventa una lente di ingrandimento, un traduttore
spontaneo della realtà in linguaggio o nel riflesso più credibile che si possa
immaginare, anche quando Mark Strand si chiede: “Stiamo andando da qualche
parte? Io non credo, non stavolta. Questo è già il prossimo secolo, e guarda
dove ci troviamo”. Difficile dirlo meglio di così.
martedì 23 settembre 2014
Mark Twain
Il fitto patchwork di cui è
composto Il pretendente americano è uno
squarcio postmoderno ante litteram, caotico e allegro andante, un laboratorio
di idee che rivela una pantomima del potere e dei simboli di cui si nutre e con
cui si manifesta. Parecchio visionario, anche rispetto ai suoi personalissimi
standard, l’azzardo di Mark Twain ha ancora, in tutta la sua spontanea
esuberanza, una specifica attualità nell’irridere i luoghi comuni e le
convenzioni che reggono le strutture della civiltà così come la conosciamo,
dalle scale gerarchiche alle (inamovibili) caste, dai governi agli strumenti di
comunicazione. Qualcosa ricorda, fatte le debite proporzioni geografiche e
temporali (Mark Twain ci arriva giusto con mezzo secolo di anticipo) e prese le
adeguate misure stilistiche, Il gattopardo,
almeno nel concetto essenziale che sta nel nucleo effervescente del romanzo.
Attraverso le gesta di Mulberry Sellers, indomito ed esperto sognatore, nonché
quelle di Howard Tracy, aristocratico inglese alla scoperta della democrazia
americana, e le loro molteplici forme d’espressione “il lettore è invitato a
sfogliare le pagine e, di volta in volta, a servirsene man mano che procede
nella lettura”, per ritrovarsi nell’ennesima rappresentazione delle distorsioni
del potere costituito, e della sua corruzione. Le immagini valgono per le
“impressioni d’America”, e così a tutte le latitudini immaginabili: il gusto
provocatorio rimane tale e quale perché, come dice lo stesso Mark Twain, Il
pretendente americano “finora è stato sulla scena
senza problemi; quindi corriamo di nuovo il rischio, questa volta sentendoci
abbastanza al sicuro perché tutelati dall’istituto della prescrizione”. Con
questa fondamentale premessa Mark Twain ha lasciato esplodere i fuochi
d’artificio della sua immaginazione così come quella di Mulberry Sellers,
rendendo Il pretendente americano un romanzo
atipico, estremo, coraggioso, spigoloso e ironico, almeno quanto irriverente.
Anche per questo è un libro che ha avuto bisogno di parecchi anni per essere
compreso, così come è riuscita a identificarlo Bobbie Ann Mason: “Il
pretendente americano è un enorme divertimento. Sono
qui a celebrare la folle energia di questo strano romanzo. In esso abbiamo il
piacere di vedere la fantasia di Mark Twain andare addirittura fuori di testa”.
E’ così, Il pretendente americano è Mark
Twain al cubo, più libero e spiritato che mai: la sua composizione prevede
diversi toni e forme che si alternano e si sovrappongono, seguendo un percorso
tortuoso, non sempre agevole. Anche dal punto di vista stilistico, Mark Twain
elude tutte le gabbie, procedendo per variazioni improvvise, salti spaziali e
temporali, sempre con un ghigno insistente e ricorrente tra le righe, compreso
lo spostamento, in blocco, delle condizioni climatiche in un’apposita
appendice, scombinando fino alla fine anche le impostazioni del libro in sé.
Una piccola curiosità: è anche il primo romanzo dettato al fonografo da Mark
Twain e una certa corrosività sembra averne giovato.
venerdì 19 settembre 2014
Raymond Carver
Di
cosa parliamo quando parliamo di amore è la raccolta di racconti che marca la differenza tra le due
vite vissute da Raymond Carver. Le storie sono attinte da un arco temporale
compreso tra il 1974 e il 1981 ed è proprio lì in mezzo che va individuata la
svolta che lo ha portato a dire: “Il passato è davvero un paese straniero in
cui le cose si fanno in maniera diversa. Sono cose che succedono. Ho davvero
l’impressione di aver avuto due vite diverse”. La trasformazione comincia, non
a caso, fin dall’inizio: Perché non ballate? è il primo racconto scritto da sobrio e
anche lo sgombero finale delle suppellettili da parte di “un uomo di mezza
età”, un tratto significativo della storia, è un riferimento, nemmeno tanto
metaforico, all’autobiografia di Carver. La sua scrittura nasce e resta così:
quei minuscoli bozzetti scritti rubandoli alla propria esistenza, dispensano il
minimo contatto con la realtà, il più profondo possibile. L’approccio non è
mediato, non c’è alcun particolare rilievo grammaticale, le immagini sono
sempre sfocate nei contorni eppure precise (persino crudeli) nel delineare
l’atmosfera e nell’ampio spazio lasciato al lettore, i personaggi sembrano
inclini a non affrontare la vita con progetti, sogni, destinazioni o qualche
semplice illusione, sembrano onde in balia del mare, quando già non spiaggiate
sulla ruvida sabbia. Il distacco con cui Raymond Carver ricostruisce spezzoni
di quelle vite, e insieme riordina anche frammenti della sua, verrebbe da dire,
appare quasi freddo e chirurgico, ma non c’è errore più grosso. Nella sua
attenzione alle parole, e nelle libertà concesse (o meno) al suo editor, Gordon
Lish, per i tagli e le limature, (nel’occasione piuttosto drastico), Raymond
Carver è andato a cercare una precisione sempre più raffinata e Di cosa
parliamo quando parliamo di amore
è un passaggio davvero importante, come ammetteva lui stesso: “Tanto per
cominciare è una racconta molto più circospetta delle altre, nel senso che ogni
mossa è più attenta, più calcolata. Sono racconti che ho manipolato e
rielaborato più volte prima di inserirli nel libro, come non avevo mai fatto
prima con gli altri”. Lo si vede anche in Tanta acqua così vicino a casa in cui una luce teatrale, fissa, sia
negli interni che negli esterni, riporta al suo spostamento geografico, quando
si trasferì a Port Angeles, una città davanti all’oceano e attraversata da una
mezza dozzina di fiumi. E’ stato un turning point importante e definitivo e non
solo perché ha detto: “Ho ancora pesci da pescare e storie da raccontare”. In quel
momento, e per la prima volta in entrambe le sue vite, Raymond Carver ebbe a
disposizione un’intera stanza per sé, per la sua macchina da scrivere e per le
sue short stories, un traguardo che gli sembrava impossibile e che contribuì in
modo notevole alla sua metamorfosi, salutata poi così: “Dopo il successo
ottenuto da Di cosa parliamo quando parliamo di amore, ho acquistato una sicurezza che non
avevo mai provato prima”. Parafrasando la definizione che ha coniato per quel
luogo di lavoro, ecco, con Carver abbiamo imparato che la letteratura è “un
lusso e una necessità”.
martedì 16 settembre 2014
John Williams
Il
viaggio, andata e ritorno, da e per Butcher’s Crossing, cambia gli uomini che partono a caccia di bisonti e
alla fine sono costretti a vivere in simbiosi con l’essenza stessa della
wilderness. Arriveranno a nutrirsi (solo) di carne di bisonte, a vestirsi con
le pelli, persino ad abitarci dentro, dopo averne sterminato un’intera mandria
in una valle sperduta nelle montagne del Colorado. Resisteranno a tutte le
intemperie (o quasi), fino a quando non dovranno fare i conti con la tempesta
più imprevedibile, la legge del mercato, della domanda e dell’offerta,
trascinata dall’arrivo della ferrovia che sta trasformando per sempre
l’America. Siamo nel 1873 e
William Andrews arriva a Butcher’s Crossing con l’idea di verificare la bellezza e la crudeltà
della wilderness, nonché le leggende e i miraggi prodotti dalle corse verso il
West. Nell’organizzare la sua spedizione, assembla un quartetto che è
caratteristico nell’elencare le tipologie dei personaggi. Charley Hoge,
alcolizzato, ha perso una mano nel gelo di un’altra stagione di caccia, è un
credente devoto ed è il conducente dei carri nonché il cuoco, anche se il menù
prevede solo sempre carne secca, fagioli e caffè bollente. Fred Schneider, il
migliore macellaio di Butcher’s Crossing, è l’esperto riottoso e taciturno, che vorrà essere pagato con
puntualità, anche dove i soldi non valgono niente, ovvero nel bel mezzo di una
tormenta di neve. Miller, il cacciatore, è il leader che non si ferma davanti a
niente ed è persino visionario nel suo inseguire e cacciare i bisonti. Andrews
è il giovane intraprendente che vuole scoprire la verità sul West, sulla natura
e sulla vita, laggiù dove albergano “la santità che oscura le nostre religioni,
e la realtà che discredita i nostri eroi” come scrive Ralph Waldo Emerson, posto
in epigrafe insieme a Melville. Ad
Andrews “la natura gli si era presentata in modo così puro da esercitare i suoi
poteri d’attrazione con la forza necessaria per far breccia nella sua volontà,
nelle sue abitudini, nelle sue idee”. Il fascino si rivelerà un drammatico
abbaglio: la spedizione, trascinata dalla bramosia di Miller si risolverà in un
dramma perché cambiano le stagioni e i ruscelli diventano torrenti e i torrenti
diventano frontiere invalicabili, e non è finita perché, tornati a Butcher’s
Crossing, si ritroveranno in una
ghost town. Il racconto di John Williams è rigoroso, il linguaggio è
concentrato e “stick to the plan”, davvero aderente alla storia, inestricabile
dalla sua essenza americana perché come dice lo scorbutico Schneider “questo è
un paese molto grande e di sicuro non c’è proprio niente”. La supremazia della
wilderness, che vive i suoi tempi del tutto indifferente ai destini dei
viaggiatori, e l’avidità come unica stella polare vengono interpretate da John
Williams attraverso un grande romanzo, un affresco molto vicino alla realtà
storica e nello stesso tempo valido per ogni altra latitudine. Tambureggiante
dall’inizio alla fine Butcher’s Crossing è lirico, maestoso e spettacolare nel mostrare la prospettiva della
wilderness che incombe sugli uomini, sempre convinti di essere superiori,
sempre disperati nei loro fallimenti.