Travolto
dalle esplosioni di un attentato in un museo di New York, Theo Decker perde la
madre e salva un piccolo quadro, Il cardellino, a cui si aggrappa come se fosse
l’ultimo appiglio sulla terra. Succede tutto con “il brivido di una connessione
interrotta, i secondi sul marciapiede come un singulto del tempo perduto, la
manciata di fotogrammi tagliati di un film”, poi Theo viene ospitato dalla
famiglia del suo amico Andy, i Barbour che, con i loro modi aristocratici,
cercano di aiutarlo, per quanto possibile perché Theo è cosciente di ciò che è
successo e “di sicuro non urlavo di dolore né prendevo a pugni le finestre, né
facevo alcuna delle cose che uno si sentiva come me avrebbe potuto fare. Eppure
a volte, senza preavviso, il dolore m’investiva a ondate, lasciandomi
boccheggiante; e quando la marea si ritirava restavo a fissare un relitto
coperto di salsedine, illuminato da una luce così chiara, triste e vuota, che
mi pareva impossibile che al mondo fosse mai esistito qualcosa di diverso dalla
morte”. Nella prima parte (e in particolare nello svolgersi del rapporto tra
Theo e la madre) Il cardellino
è davvero da Pulitzer, poi, come se l’onda d’urto delle bombe, cominciasse a
rimbalzare, trascina la storia in un vortice di volti e suggestioni: Hobie,
l’artigiano e l’antiquario che sembra in grado di sopportare tutto, persino la
morte, il padre Larry e Xandra, Boris, Hart Crane, i Beatles, Bob Dylan. Dal
suo approdo Las Vegas, “un enorme fanculo a Thoreau”, Il cardellino si accumula, si addensa, non si risolve,
e il più delle volte è ridondante, come se Donna Tartt non fosse così sicura
della corretta sequenza delle frasi, delle immagini e delle scene, e dovesse
ripetersi, più di una volta. Arrivati a metà si prosegue per capire, giusto per
curiosità, come andrà a finire. Donna Tartt, se non altro, ha la grazia di una
scrittura accattivante e ben organizzata, agevole e pop, una sorta di Stephen
King (peraltro nascosto in un paio di citazioni) senza l’elemento fantastico.
Nella seconda parte, Il cardellino
è assalito dai colpi di scena che si susseguono a ritmo tambureggiante, non
sempre coerente, e si tinge anche di una sfumatura noir, non del tutto
appropriata. In questo passaggio non si può svelare di più, per le ovvie
ragioni legate alla trama e ai suoi sviluppi, ma l’epilogo è contorto, anche se
tra le righe Donna Tartt spiega che “è questo che fanno tutti i veri maestri.
Rembrandt. Velásquez. L’ultimo Tiziano. Giocano. Si divertono. Costruiscono
l’illusione... Ma appena ti avvicini un po’, ecco che il trucco si svela e
appaiono i segni del pennello. Astratti, ultraterreni. Una bellezza diversa e
molto, molto più profonda. La cosa in sé e il suo contrario”. Se si prendono le
dovute misure, Il cardellino
si rivela un romanzo che procede per tentativi, uno strato sopra l’altro: non
sempre i contorni coincidono e rimangono nella cornice. E’ un bel soufflé,
forse lievitato un po’ troppo: se è vero che “tutto ciò che ha davvero valore
rappresenta una scommessa”, è altrettanto ovvio che in un labirinto di
ottocento pagine non sia facile trovare la soluzione.
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