Taccuino di un vecchio sporcaccione raccoglie le rubriche
che Charles Bukowski tenne su una rivista undeground, a partire dal 1967. Una
condizione ideale, tanto per cominciare: “Non c’erano pressioni di nessun tipo.
Bastava semplicemente mettersi a sedere vicino alla finestra, alzare la lattina
di birra e lasciare che il pezzo venisse fuori da solo. Tutto quello che doveva
arrivare, arrivava”. Settimana dopo settimana, il Taccuino di un vecchio
sporcaccione
cresce grezzo, risoluto, spontaneo perché Bukowski è proprio nel suo elemento
naturale, quello autobiografico, senza altro recinto. L’elenco delle
possibilità e delle opportunità è elementare: “Pensateci anche voi: totale
libertà di scrivere qualsiasi cosa che vi passi per la testa. Io mi ci sono
divertito, mi sono anche fatto dei problemi, qualche volta; ma soprattutto mi è
sembrato di capire che, col passare delle settimane, i pezzi venissero fuori
sempre meglio”. Nella felice confusione del suo taccuino, il Buk tiene insieme
Satchmo e T. S. Eliot, un effervescente ritratto di Jack (Kerouac) & Neal
(Cassady) attraverso uno strambo flusso di coscienza. Molto musicale
nell’appuntare le vicende quotidiane di cavalli di razza e corse
sconclusionate, donne e uomini che si inseguono, “party girls & broken
poets” per dirla con Elliott Murphy, sullo sfondo di una città aperta tutta la
notte. I frammenti del Taccuino di uno sporcaccione si agganciano uno
all’altro, anche in modo disordinato e senza soluzione di continuità, comprese
le licenze igieniche necessarie: “I lettori prendono da uno scrittore, o da un
libro, quel che gli pare e trascurano il resto, ma quel che gli serve è quel
che in realtà non gli serve mentre trascurano quel che gli servirebbe
maggiormente, insomma tutto ciò mi consente di eseguire le mie piccole sante
variazioni e nessuno mi disturberebbe se venissero comprese, ma in questo caso
non ci sarebbero più creatori, ci troveremmo tutti nello stesso paiolo di
merda. Nella situazione attuale io mi trovo nel mio paiolo di merda e loro nel
loro, penso che il mio puzzi di meno”. Non manca la classica autoassoluzione
bukowskiana, che collima con il paesaggio umano raccolto sul Taccuino di un
vecchio sporcaccione: “Io non ero un gran genio, ma ero lontano da Atlanta, non
ero ancora un cadavere, avevo delle belle mani e molta strada da fare”.
Partendo da sé, Bukowski condivide una sorta di infinita apologia generale con
gli outsider, con gli eterni sconfitti (“E per pessimi che fossimo eravamo la
fine del mondo”), con i cronici inconcludenti, con i recalcitranti. Il suo Taccuino
di un vecchio sporcaccione diventa un trionfo verboso e incontinente, caotico e
sarcastico nello stesso tempo, come nella migliore tradizione bukowskiana. La
percezione, a livello epidermico, è di una specie di ritmo che, anche nelle
scadenze di una modesta rivista underground, diventa persino una filosofia di
vita, che poi è quella di sempre: “Non potevo far altro che scolare la lattina
di birra e aspettare che cadesse l’atomica”.
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