Joseph Mitchell è un reporter
della vecchia scuola: consuma le suole delle scarpe per andare a caccia di
notizie, non inventa niente ed è un osservatore acuto, curioso, generoso ed
entusiasta, persino molto ironico, quando deve una certa indolenza: “Non mi è
molto difficile inventare una scusa che giustifichi il mio comportamento (ho
una grande esperienza nel giustificarmi di fronte a me stesso”). Si vede anche
nello spazio limitato dalla forma embrionale di Una vita per strada, poco più di un articolo che destinato ad avviare un
romanzo autobiografico: Joseph Mitchell riesce a dipanare tutta una grande
(grandissima) abilità nel leggere la realtà quotidiana di NYC, la sua
architettura, i suoi angoli, le forme e le atmosfere. “Cammina per la città,
indaga ogni stradina, ogni avvenimento insolito, ogni personaggio eccentrico.
Continuò a farlo, e in modo ossessivo, per tutta la vita” dicevano i suoi
colleghi ed è lo stesso Joseph Mitchell a confermare la sua predisposizione al
vagabondaggio: “Quello che amo davvero è gironzolare senza meta per la città,
camminare giorno e notte per le strade. E’ più di un piacere, un semplice
piacere, è un’aberrazione”. Anche se si muove come un rabdomante lungo le
perpendicolari di New York, quel “diventare parte della città”, non è casuale.
La distinzione è nitida e non lascia scampo: i suoi preferiti sono “visionari,
ossessivi, impostori, fanatici, predicatori della fine dei tempi, vecchi re e
regine degli zingari, e freak puri e semplici”. Non cerca, non segue e non
vuole saperne di “signore mondane, capitani d’industria, ministri, esploratori,
attori di cinema, e attrici di qualsiasi tipo al di sotto dei trentacinque
anni”. L’essenza di Una vita per strada è nella sua visione dal basso perché nello spirito con cui l’affronta Joseph
Mitchell “non esiste osservatorio migliore da cui guardare la città ordinaria,
comune l’altezzosa, maestosa, argentea città verticale, ma la vasta città
orizzontale di un grigio, di un marrone, di un rossiccio e di un rosa
fuligginosi, la città intricata che cova sotto le ceneri, vecchia, inquinata e
a un passo della demolizione”. Le immagini, le sensazioni, le percezioni non
sarebbero niente senza la scrittura elegante, raffinata, avvolgente che è
palpabile anche nei ristretti margini di Una vita per strada: “E mi piace in particolare recarmi in una di queste
chiese in un’assolata domenica mattina estiva quando le strade del quartiere
sono praticamente deserte e tutto è calmo e sereno e pare che molti più uccelli
che nei giorni feriali si muovano tra gli alberi e gli arbusti e l’edera del
cimitero e i vetri colorati risplendono e le porte sono accostate e le finestre
al piano terra sono state alzate appena appena e da qualche parte un
ventilatore ronza e i libri di preghiera e gli innari aperti rilasciano
nell’aria calda l’odore acidulo dei vecchi testi maneggiati a lungo, e c’è solo
un gruppetto di persone, il solito gruppetto di irriducibili, tra i quali ci
sono sempre alcune vecchie ossute, rigide, altere, che sprizzano New York da
ogni poro”. Manca soltanto Joe Gould, che rimane là, dietro l’angolo.
Nessun commento:
Posta un commento