martedì 25 novembre 2014

Robert Penn Warren

Se la dimensione di un classico si misura attraverso la sua atemporalità, allora Tutti gli uomini del re è una pietra miliare della narrativa (americana, e non solo) nel ricostruire le deformazioni del potere, degli uomini e delle donne dentro il potere, nella sua espressione più appariscente, la ricerca del consenso. Sesso, soldi, politica, famiglia: legati in modo indissolubile, confluiscono in una palude morale, dove menzogne, tradimenti, rivalse e vendette sguazzano senza sosta come mocassini acquatici (e più velenosi). Il romanzo è molto più delle sue riduzioni cinematografiche e la differenza non è relativa. Da cronista della provincia americana, Jack Burden diventa uno degli spin doctor di Willie Talos, un parvenu dell’agone politico che si presenta così: “Il mio verbo è il cuore del popolo”. Secondo il parere (rispettabilissimo) di Joyce Carol Oates è il suo personaggio a conferire un “valore eterno” a Tutti gli uomini del re, e non c’è dubbio che Willie Talos abbia i parametri giusti per essere ricordato nei secoli. Al fondo degli eventi, è però il suo rapporto con Jack Burden a definire il sinuoso corso di Tutti gli uomini del re. Jack Burden proviene da una famiglia ricca e dissoluta, con una madre volitiva e amici fraterni e altrettanto altolocati come Anne e Adam Stanton, che hanno avranno un ruolo decisivo nell’evolversi di Tutti gli uomini del re. Willie Talos viene dalla terra, dal fango, dalle radici e diventa governatore senza particolari ambizioni politiche, visto che la sua considerazione della democrazia è lapidaria: “Prova tu ad andare lì e ficcare un po’ di buonsenso in quel parlamento. Stai meglio se ti becchi la dissenteria”. Quando Jack Burden accetta di lavorare per lui, la svolta è un salto mortale: “Sono un politico, e noi non abbiamo amici”. A quel punto soltanto l’amore platonico tra Jack Burden e Anne Stanton rimarrà l’unica cosa pulita e non consumata di tutta una storia che corre spedita verso la tragedia. I semi sono già gettati fin dall’inizio perché “quando si vuole troppo, di solito ti succede qualcosa. Ti trasformi nella sola e unica cosa che desideri, nient’altro, perché hai speso troppo per lei, troppo tempo ad aspettarla, troppo nel desiderarla, troppo per raggiungerla. E alla fine ti fanno solo quelle domandine di merda”. Robert Penn Warren pennella a tinte forti, grezze, impressionanti, una scrittura florida e fluida nello stesso tempo, americana nella sua profonda essenza popolare. Fin dal primo capitolo, maestoso, che potrebbe essere un racconto, fatto e finito, ma poi affascina, per esempio, anche soltatno per come inserisce i personaggi minori, dislocati nei punti strategici, con una gran classe e una personalissima disinvoltura. Con le stesse modalità piazza le scene principali, a partire dall’incontro con il giudice Irwin, nel pieno della notte, mentre Willie Talos diventa “il simbolico portavoce del muto ed encefalitico popolo dei probi” ed essendo uno di loro, dispone del potere che gli è stato conferito per difendere, insieme alla sua gente, anche se stesso. Questo è il refrain nella storia della democrazia; questo racconta un grandissimo romanzo come Tutti gli uomini del re.

1 commento:

  1. che coincidenza! stavo giusto cercando un romanzo di Warren...sto leggendo un saggio, capitatomi per caso, sulla letteratura americana di quel periodo e sul new criticism che ne è corrente letteraria e di cui ero completamente ignara, lo vedi che il tuo blog è per me sempre una fonte preziosa!? un caro saluto
    Maria

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