Il
primo edificio dell’evanescente architettura di Los Angeles a diventare
protagonista del reportage di A. M. Homes è lo Château Marmont, albergo che è
l’equivalente del Chelsea Hotel di NYC, con tutto il suo bagaglio di storie e
drammi, a partire dalla folle notte in cui se ne è andato (in un sacco nero)
John Belushi. E’ anche l’ultimo perché la sua “antropologia del quotidiano” è
un cocktail leggero ed effervescente di ironia, ipocondria, osservazioni e
divagazioni in misure uguali per cercare di capire e spiegare: a) “una delle
città più americane d’America”; b) “forse il luogo più surreale d’America”; c)
una città specializzata nell’eliminazione dell’incredulità, nella sospensione
del tempo, della realtà, della storia e della memoria”. Le premesse sono altisonanti,
i punti di domanda rimangono lì perché quando A. M. Homes si avventura in
territori che non gli appartengono (l’analisi, la critica, il conflitto), non
riesce a sfuggire alla trappola dell’ovvietà: “Per quanto riguarda
l’architettura di Los Angeles è sempre stata un avamposto progressista. Dal
punto di vista estetico, è eccezionalmente democratica: un ambiente urbano che
accetta quasi di tutto, cosa che ne costituisce la bellezza, ma anche
l’orrore”. In realtà, A. M. Homes sfiora appena e/o sorvola la complessità di
Los Angeles: lascia cadere con un certo aplomb l’idea che, per scoprirla, serve
leggere Mike Davis (questo è poco, ma sicuro), poi trotterella tra una centrale
eolica e una beauty farm, tra un hotel e l’altro. C’è qualcosa di attraente
nell’incidentalità delle sue tappe attraverso una “città di frontiera” ed è una
leggerezza che, non a caso, scivola meglio in superficie quando A. M. Homes
scrive: “Los Angeles è la patria di Hollywood, l’industria che ha creato il
sogno americano: è il luogo dove si fabbricano speranze e desideri che poi ti
vengono consegnati come se fossero tuoi, dove donne e uomini fortunati sono
elevati al rango di star, di eroi, almeno fino a quando non arriva qualcosa di
meglio”. Quando torna nell’ambito che gli è proprio, sé stessa, A. M. Homes è
molto più convincente e riesce a delimitare un legame con Los Angeles in modo
preciso: “E’ facile e pericoloso fingere che non ci sia alcun mondo al di fuori
del proprio. In questa città ognuno fa per sé; ogni persona crea la propria
realtà. Ci sono poche esperienze collettive: le condizioni meteorologiche, il
traffico e la terra”. Per qualcosa di più specifico deve parafrasare Gertrude
Stein, quando diceva (a proposito di un altro luogo, di un’altra città): “Là
non esiste alcun là”. E’ proprio così e lo spirito eccentrico, quasi incantato,
con cui A. M. Homes si lascia trascinare nella multiforme geografia di Los
Angeles non è sufficiente a risolvere i limiti nell’impostazione e
nell’ampiezza di una ricerca che, alla fine, ha prodotto una cartolina,
curiosa, firmata e di classe, ma pur sempre una cartolina. Basta non chiederle
di più, potrebbe rintanarsi nella sua stanza preferita allo Château Marmont e
scrivere un altro romanzo.
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