Ogni
raccolta di liriche di Mark Strand è una sorpresa. In Quasi invisibile opta per una forma particolare, si
tratta infatti, di piccoli frammenti di prosa, ma il risultato non cambia. Per
varcarne la soglia, basta il piccolo esempio di Nasconditi la faccia tra le
mani: “Non c’è modo di
dissipare la foschia in cui viviamo, non c’è modo di sapere che ci è stato
inflitto un altro giorno. La neve silenziosa del pensiero si scioglie senza una
sola possibilità di attecchire. Nessuno ha la minima idea di dove siamo. Le
porte sull’assenza di luogo si moltiplicano e il presente è così distante, così
profondamente distante”. La scrittura di Mark Strand è salda, solida ed
efficace eppure leggiadra e fantastica, nel senso più ampio del termine: una
lingua sempre fluida e trasparente, anche quando attraversa snodi singolari e
paradossali di cui peraltro è zeppo Quasi invisibile. L’apice, il concentrato e il senso
stesso della sua attitudine poetica è tutto in Notturno del poeta che amava
la luna: “Lasciamo che
la semplicità penetri l’occhio, semplicità come un tavolo su cui non è
apparecchiato niente, come un tavolo che ancora non è un tavolo”. Una missione
impossibile di questi tempi, ma che Mark Strand continua ad assolvere con
estrema naturalezza e Quasi invisibile, in questo senso è eloquente: L’enigma
dell’infinitesimale è la
quintessenza della sua percezione e così L’eternità provvisoria, splendido ossimoro, perché è tutto
indefinito, sfuggente, vago e troppo umano e soltanto la scrittura riesce a
dare un minimo di ordine. La soluzione della prosa, piccole schegge incastrate
nel bianco delle pagine, non allontana mai Mark Strand dal suo stile, piuttosto
ne esalta l’origine, l’immediatezza mettendola in risalto, anche quando sembra
regalare un simulacro di commiato in Una lettera da Tegucigalpa: “Ai vecchi tempi, i miei pensieri
sfavillavano come minuscole scintille nel buio quasi assoluto della
consapevolezza e io li trascrivevo, e ogni nuova pagina risplendeva di una luce
che dichiaravo tutta mia. Sedevo alla scrivania, sbalordito da ciò che era
appena successo. E perfino mentre guardavo le luci affievolirsi e i miei
pensieri divenire piccoli mausolei senza alcun senso nel lucore residuo di
tanta promessa, restavo ancora sbalordito. E quando scomparivano, com’era
inevitabile, io ero pronto a ricominciare, pronto a restare seduto al buio per
ore ad aspettare anche un’unica scintilla, nonostante sapessi che non avrebbe
quasi per nulla emesso luce. Quello di cui non mi ero reso conto allora, ma di
cui mi rendo conto fin troppo bene adesso, è che le scintille portano dentro di
sé il desiderio di essere sollevate dal fardello della lucentezza. Ed è per
questo che non scrivo più, e che il buio è la mia libertà e la mia
contentezza”. La poesia diventa una lente di ingrandimento, un traduttore
spontaneo della realtà in linguaggio o nel riflesso più credibile che si possa
immaginare, anche quando Mark Strand si chiede: “Stiamo andando da qualche
parte? Io non credo, non stavolta. Questo è già il prossimo secolo, e guarda
dove ci troviamo”. Difficile dirlo meglio di così.
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