Più
che la storia di un disco, ovvero Pink Moon, è quella di un
artista, di un ragazzo fragile e confuso, e malato, che si ritrovò a
confrontarsi con i meccanismi tutt’altro che gentili e comprensivi
del processo di creazione, e poi di commercializzazione della musica.
I suoi dischi vendettero qualche migliaio di copie (oggi potrebbero
bastare, allora erano del tutto risibili) ed ebbero una risonanza
critica relativa, e non sempre entusiasta, per usare un eufemismo.
“La sua storia è nelle canzoni. Più passa il tempo più sembrano
parlarci di lui, e di nessun altro” ha detto Joe Boyd, il
produttore, e con ogni probabilità la persona che è stata più
vicina a Nick Drake e Amanda Petrusich ha cercato di condividere la
passione per quella mezz’ora di musica, acustica, scheletrica
(molto bella la ricostruzione del suo primo “incontro”) con
altrettanti fans tra cui Lou Barlow (Dinosaur Jr., Sebadoh), Damien
Jurado, Curt Kirkwood (Meat Puppets) Duncan Sheik, Robyn Hitchcock,
ed è sua la migliore definizione: “Pink Moon è una lezione
di umiltà”. La bellezza resta indefinibile, anche perché non fu
del tutto compresa quando quel disco uscì, nel 1972. Qualche
risposta in più su Nick Drake cresce pagina dopo pagina: la sua vita
e la sua morte rimangono un mistero incompiuto, se si cercano
risposte oltre le patologie, ma la sua riscoperta è ormai
universale, soprattutto grazie a Milky Way, un raffinato spot
della Wolkswagen che usava proprio Pink Moon, come colonna
sonora, senza alcun commento aggiuntivo. Serve ancora una
delucidazione di Joe Boyd che in Le biciclette bianche
ricordava così quel preciso momento: “Quando la pubblicità della
Wolkswagen arrivò sulle televisioni americane, esisteva già il
culto di Nick Drake, di dischi se ne vendevano decine di migliaia
all’anno e quello di Nick era, per i giovani cantanti, un bel nome
da dire quando gli si chiedeva di citare le loro influenze. La musica
di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è
sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi al pubblico
quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora
dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di
farne la propria”. E’ successo esattamente così ed è dove
l’analisi di Amanda Petrusich comincia davvero perché, prendendosi
l’onere di intervistare gli addetti ai lavori (dai copywriter ai
registi), è andata a scandagliare, e fino in fondo, l’ambiguo
rapporto tra musica e pubblicità. L’originalità della suo saggio
su Pink Moon sta proprio lì ed è ben rappresentato nella
definizione della musicologa Bethany Klein che Amanda Petrusich cita
in modo assai opportuno: “Credo che la musica pop, intesa come
arte, sia un fenomeno molto più complicato. Secondo un mito
difficile da sfatare, per arte e musica il fine primario è quello
estetico, ma ciò ovviamente non è sempre vero. Tuttavia, anche se
finiamo per accettare l’idea che la musica pop sia essenzialmente
un prodotto commerciale, essa ci fornisce, sia come individui che
come società, qualcosa che gli altri prodotti commerciali non ci
forniscono: un veicolo attraverso il quale esplorare emozioni,
identità, significati”. Un ottimo lavoro, proprio perché riesce a
riannodare Nick Drake all’attualità, senza scadere
nell’agiografia, e andando a raccontare l’evoluzione di molte
idiosincrasie, in particolare proprio quella che oppone il valore
dell’integrità della musica al suo utilizzo nella pubblicità. Non
funziona, ma quando funziona, è grande.
mercoledì 28 dicembre 2016
martedì 27 dicembre 2016
Tom Wolfe
Partendo dall’idea che il linguaggio è “una
linea di demarcazione netta”, Tom Wolfe si diverte a incrinare le
teorie conclamate di Charles Darwin e Noam Chomsky. Non si
accontenta, non si adegua e non teme né abiure né faide: a lui
interessa “non tanto cosa il linguaggio può fare, quanto
piuttosto che cos’è”. Il regno della parola è
fondato su questa distinzione e sia nei confronti dell’ipotesi
evolutiva quanto per quella genetica, Tom Wolfe dispensa un’analisi
ironica e avvincente. La ricostruzione degli albori della teoria
evolutiva, che ne mette in risalto i limiti, e l’ambiente in cui è
maturata, è a metà strada tra un thriller e una commedia, a tratti
spassosa. Il rocambolesco susseguirsi di eventi e aneddoti che vedono
Charles Darwin protagonista di una svolta per l’intera civiltà
umana, viene buttato da Tom Wolfe con gran allegria butta per in aria
per vedere poi come viene giù: “Nel 1837, Darwin era caduto senza
accorgersene nella trappola del cosmogonismo, l’ossessione di
trovare la sempre sfuggente teoria del tutto: un’idea o una
narrazione in grado di spiegare come ogni cosa al mondo rientri in
uno schema unico e chiaro”. Non essendoci spiegazioni
condivisibili, concrete e indiscutibili sulle origini e sulle
funzionalità del linguaggio, Tom Wolfe se la gode, ed è evidente, a
smontare le strutture portanti delle ricerche di Darwin: “Come ogni
cosmogonia, era un racconto serio e onesto che mirava a soddisfare
l’insaziabile curiosità dell’uomo sulle proprie origini, su come
era giunto a essere così diverso dagli animali intorno a lui. Ma
restava un racconto. Non era una dimostrazione. In poche parole, era
sincera ma semplice letteratura”. La sentenza di Tom Wolfe è
inappellabile: “Sull’origine del linguaggio, anche Darwin, come
tutti, brancolava nel buio”. A Noam Chomsky concede qualche
vantaggio in più, ma non è meno inconoclasta. Avendo individuato
“l’organo del linguaggio”, ovvero e in estrema sintesi,
considerandolo innato, Noam Chomsky, “stava dando ai linguisti
anche l’aria condizionata”. Una battuta che lo stesso Tom Wolfe
spiega così: “Aveva fornito loro un sistema completo: struttura,
anatomia e fisiologia del linguaggio. Rimaneva però lo sconcertante
problema di capire cosa fosse il linguaggio: la creazione delle
parole, i suoni specifici e come venivano messi insieme, la meccanica
del più grande potere noto all’uomo”. Anni e anni di studi,
centinaia di libri, dozzine di università impegnate a tempo pieno
e Il regno della parola è ancora lì: esiste, eccome, ma è
indefinito nella sua essenza ultima. Succede poi che Daniel Everett,
già allievo e collega di Chosky, scopre una piccola e singolare
tribù amazzonica, vive con loro e giunge alla conclusione che il
linguaggio non è innato o, come riassume Tom Wolfe, “non si era
evoluto da un bel niente: era un’opera umana, un artefatto.
L’uomo, proprio come aveva selezionato i materiali naturali, il
legno, i metalli, e li aveva messi insieme per costruire una scure,
aveva preso i suoni naturali e li aveva combinati in codici che
rappresentavano oggetti, azioni e, in ultima istanza, pensieri e
calcoli, chiamando quei codici parole”. L’inevitabile, lunga
diatriba tra Daniel Everett e Noam Chomsky, non dissimile (anzi,
speculare) a quelle maturate attorno a Charles Darwin, si concluderà
con l’ammissione da parte di un team guidato proprio dallo stesso
Chomsky che “l’evoluzione della facoltà del linguaggio rimane in
gran parte un enigma”. Fin troppo facile per Tom Wolfe mettere a
nudo la pretenziosità delle contese scientifiche e accademiche, ma
in fondo lo fa con un ghigno sornione perché sa che si tratta di
astrazioni, in gran parte dimostrabili e accettate, ma che alla fonte
poggiano sempre su “un’idea blasfema, mortalmente peccaminosa
eppure eccitante, odorosa di fama e di rilucente di gloria”. Solo
che a quel punto Il regno della parola ormai ha già pronti
i fuochi d’artificio: “Era grandioso, ancorché in senso
fallimentare, questo sfoggio universale, definitivo, assoluto e
pluridecennale d’ignoranza riguardo la dote più importante
dell’uomo”. L’ingorgo di aggettivi rende bene lo spirito di Tom
Wolfe, che poi conclude in fretta, non solo sposando il concetto
secondo Andy Clark per cui il linguaggio resta un “artefatto
fondamentale”, ma da lì estrapolando persino una sua definizione:
“E’ stato il primo artefatto, il primo caso in cui un vivente,
l’uomo, ha preso elementi della natura, i suoni, e li ha
trasformati in qualcosa di integralmente nuovo e artificiale:
sequenze fonetiche che formano codici, codici chiamati parole. Non
solo il linguaggio è un artefatto, ma è il primo artefatto”. La
conclusione è lapidaria, non dovendo dimostrare nulla né
all’accademia né ad altri, ma cade ancora lì, nel campo delle
probabilità, dove Tom Wolfe ha fatto sbattere sia Darwin che
Chomsky. La provocazione in sé, limpida, dettagliata e puntuale, era
più che sufficiente.
sabato 24 dicembre 2016
Jim Harrison
L’espressione
dei personaggi è il cuore delle storie di Jim Harrison e Vento
di passioni, per via della metamorfosi in
film di Leggende d’autunno
(che resta il titolo originale della raccolta, poi modificato per
ovvi motivi), è diventato il suo libro più fortunato, ma resta
anche uno dei più espliciti e rappresentativi nel mostrare
l’aderenza agli sviluppi delle sue creature. Nei racconti Jim
Harrison è proprio uno storyteller nudo e crudo: lascia quel minimo
indispensabile di spazio ai dialoghi (più che altro in Vendetta)
e va a collegare le narrazioni con una voce diretta, come se fosse il
commento a “una sorta di déjà vu permanente”. Una modalità che
non chiede alter ego, intermediari o altri escamotage: Jim Harrison
si limita ad allineare “i fatti puri e semplici, un concetto che
usiamo volentieri quando cerchiamo di sfuggire alle paludi, in cui
più o meno s’invischiano le nostre esistenze” e il lettore, più
che affrontare le pagine, deve ascoltarle. Leggende
d’autunno è un racconto che sfoggia una
delle specialità ricorrenti nei menù di Jim Harrison, la saga
familiare. Nello svolgere l’albero genealogico dei Ludlow, che
occupa più di un secolo, serpeggia l’elemento della vendetta, e
anche se “in fin dei conti la gente non ama farsi troppe domande,
soprattutto quelle spinose che riguardano l’evidente assenza di un
sistema equo di ricompense e di punizioni sulla terra”, per il
protagonista, Tristan è un desiderio sufficiente e rivelatore.
Leggende d’autunno
ha la forma spudorata del soggetto cinematografico, senza un dialogo
che sia uno, eppure in grado avvinghiare il lettore alla pagina, come
l’anaconda comprata da Tristan si è attorcigliata all’albero
maestro della sua nave e a cui hanno dovuto offrire un maialino per
farla scendere, e questo aneddoto è Jim Harrison al cubo. A riprova
che “uno stato di grazia non è mai solo” anche il secondo
capitolo di Vento di passioni
trova uno tra i più memorabili dei suoi personaggi tormentati dal
passato, circondati e definiti dalle rispettive figure femminili,
sempre sul confine tra un cambiamento e l’altro. Una situazione
delicata e volubile perché, come direbbe Nordstrom alias L’uomo
che rinunciò al suo nome, “la cosa più
frustrante per un uomo che desidera cambiare la propria vita è
l’improbabilità stessa del cambiamento”. Nordstrom che, in
un’ideale galleria antologica dei suoi protagonisti, occuperebbe di
sicuro una posizione centrale, balla da solo ascoltando i Dead e Otis
Redding, è “un amante abbastanza esperto da preferire l’atto
alla sua conclusione”, si divide tra la moglie (ormai ex) e la
figlia, affrontando i resti spaventosi del mondo con un aplomb tutto
suo, cucinando, stappando costose bottiglie di vino e pensando,
un’attività non così scontata. A concludere l’ideale trilogia
di Vento di passioni è
Cochran, già pilota di un cacciabombardiere abbattuto nel Laos, che
si trova in Messico “quasi divertito della propria circospezione,
da quella volontà di sopravvivere a qualsiasi cosa fosse in grado di
capire consapevolmente. Al momento non si sentiva nemmeno di
rimpiangere il modo in cui aveva sprecato, una dopo l’altra, le
varie occasioni che la vita gli aveva offerto. I rimpianti lo
annoiavano e la sola energia che gli rimaneva quella notte era
concentrata nello sforzo di capire come tutto ciò fosse potuto
accadere: un’ambizione meccanica, a dir tanto”. Quello che c’è
da sapere è tutto qui e lui, Nordstrom e Tristan sembrano lo stesso
personaggio tradotto e sfumato da Jim Harrison in tre
interpretazioni. Pur essendo molto differenti, i protagonisti di
Vento di passioni si
avvicendano su personalità con una notevole definizione, un
carattere indomabile e nello stesso tempo portato all’introspezione
e in fondo, degni esemplari del fatto che “ognuno desidera una
parte di mistero nella propria vita, ma rari sono coloro che fanno
qualcosa per meritarlo”. Da riscoprire.
mercoledì 21 dicembre 2016
James Ellroy
Un vortice di personaggi dentro una pozzanghera nera chiamata Los Angeles (l’inizio e la fine di tutto) che poi si allarga verso Chicago, Las Vegas, Miami, un’ombra chesi allunga la storia fosca degli Stati Uniti nei Caraibi dove pare abbiano trovato il cuore di tenebra e la linea d’ombra, insieme di quella che è (in effetti) un’idea distopica dell’America. Pur non essendo un romanzo storico, Il sangue è randagio collima e incastra fatti e cronache e se in quegli anni torbidi il leitmotiv era legato alla consapevolezza, leggendo James Ellroy si capisce che nessuno era consapevole di ciò che sta accadendo. E’ il 1968, la parola chiave è collusione e per favorire prima l’ascesa e poi la conferma di Nixon, prende forma una folle, convinta e ambigua volontà di assemblare piani, trame e operazioni segrete. Uno dopo l’altro, tutti confezionano, conservano, collezionano dossier per proteggersi, per attaccare, per difendersi e con la scusa che “per il dissenso c’è un prezzo da pagare”, li usano per contrastare le proteste contro la guerra del Vietnam e per i diritti civili. Attorno a quelle attività illegali, prolifera un mondo parallelo, oscuro e spietato che si nutre dell’ipocrisia e della corruzione come elementi principali della miscela di una società predatoria e convinta fino al midollo che il razzismo, non soltanto verso i negri, ma con tutti, possa essere il collante di una nazione. Compresi gli oggetti stessi che sono al centro degli intrighi e delle macchinazioni di Il sangue è randagio: la distribuzione dell’eroina nei ghetti delle metropoli americane, gli interventi a Haiti e nella Repubblica Dominicana sono un parte considerevole dei gironi infernali in cui James Ellroy immerge il lettore, senza possibilità di appello. Una volta partito, Il sangue è randagio è impossibile fermarlo: nel suo vortice immaginifico, e nello stesso tempo ancorato alla realtà (peraltro ormai convalidata da tutte le analisi storiche) le contorsioni del potere, le sue assurdità, le sue maschere prendono le sembianze di spie addestrate al doppio e triplo gioco, infiltrati, informatori, delatori, spacciatori, mercenari, agenti, investigatori, femme fatale. L’elenco dei nomi è infinito e costituisce una sorta di romanzo nel romanzo perché ognuno è “l’anello di congiunzione tra causa ed effetto”, una connessione dove, il più delle volte, il risultato è la morte, ovvero l’omicidio, di qualcun altro. Le moltitudini di personaggi attraversano Il sangue è randagio come una piaga biblica, e cercando “di creare un’adeguata convergenza ed elaborare un’ipotesi credibile”. macinano, sbriciolano, devastano senza concedere nulla, senza correggere gli appetiti. La voracità è insaziabile, cannibale e suicida, ma anche cosciente del suo infausto destino, quando qualcuno ammette che “eravamo innocenti, allora. Adesso tutto il mondo ci odia”. Non è facile tenere testa a James Ellroy perché è animato da una ben strana generosità, nel senso che non risparmia niente, scruta nelle ombre, non cede mai alla tentazione di censurarsi e abbonda con i punti di vista anche se, in definitiva, quello che conta è soltanto uno, il suo. Non spiega, non racconta: trascina dentro un flusso inarrestabile, tanto è vero che, un po’ per gli additivi, un po’ per i riti voodoo, nell’accellerazione finale Il sangue è randagio si inoltra in una Dimensione onirica, e si trasforma in un gorgo allucinante. E’ la citazione Hellhound On My Trail di Robert Johnson a spiegare che Il sangue è randagio è una corsa letale nella decadenza dove caos e ordine tendono a sovrapporsi, a confondersi, a scambiarsi di ruolo rivelando un ritratto magniloquente del potere, nelle sue manipolazioni delle persone, dei fatti, delle informazioni, della realtà e della storia. Il delirio delle macchinazioni è tale da assumere vita propria e più il turbinio di alcol, droghe, torture, omicidi, furti, fughe, notti insonni si fa minaccioso e più il ritmo diventa via via furioso, il linguaggio scarno e brutale, le frasi spezzate senza pietà. James Ellroy è come i suoi “killer-a-distanza-ravvicinata”. Scotenna il lettore.
lunedì 19 dicembre 2016
Rick Moody
Ci
voleva il Nobel a Dylan per ricordarlo urbi et orbi, ma Rick Moody
l’aveva già capito con Musica celestiale che “la
letteratura, come la musica, vuole apertura, vuole esperienze, vuole
presa di coscienza e emozioni, e vuole esprimere tutto questo con
accuratezza e con dolcezza”. Una richiesta espressa in modo
perfetto, anche quando i temi sono tra i più disparati: in Musica
celestiale trovano posto le note scritte per i Wilco, il diario
agrodolce di Due settimane al campo musicale, il capitolo
dedicato a New York per la Rock’n’Roll High School di
Little Steven, ovvero L’underground di New York 1965-1988,
gli omaggi ai Pogues e ai Lounge Lizards. Anche se tesa a condividere
“visione storica, immaginazione, brama culturale, e passioni e
debolezze molto umane”, la dimensione è colloquiale, per cui il
tono funziona sempre e la voce di Rick Moody, più che le sue analisi
(che comunque sono accurate e documentate), risulta essere il
collante ideale per rendere coerente e uniforme una composizione in
realtà molto eterogenea. Contenuta da due estremi opposti e
sovrapponibili: cool e underground sono le parole d’ordine che
comprimono tutto quello che c’è dentro la Musica celestiale,
i tempi e i rituali, le epifanie e le interpretazioni, gli alti e i
bassi perché, come si premura di ricordare Rick Moody, “nella vita
capita di toccare il cielo con un dito e di capire quanto sia
importante quell’istante, ma poi ci si sveglia e ci si rende conto
di avere ancora molta strada da fare. Oppure: tutte le cose giungono
alla loro conclusione, specie la sensazione che la tua giovinezza sia
stata memorabile; questa sensazione si affievolisce, gli occhi
luminosi della giovinezza si velano di oscurità, tutto quel danzare
attorno a certe colonne sonore di quegli anni finisce, e ti trovi a
passare da un lavoro incompiuto a un altro e a cercare di tenere i
creditori a bada. Arrivano più bollette che lettere d’amore”. La
sfida ai luoghi comuni non è del tutto convincente, rimangono in
sospeso La questione del declino o quella dei Piaceri
inconfessabili, la musica come rifugio e come hobby, così come
Rick Moody alterna fiction fiction e filosofia, narrativa e
autobiografia, restando in bilico tra il racconto della sua
esperienza e dell’esperienza in sé. Non a caso, I frammenti di
Pete Townshend è forse il capitolo che rappresenta uno snodo,
anche nella sua forma assemblata di più parti, perché Rick Moody
sembra riflettersi, magari in modo involontario e spontaneo, nella
tormentata personalità del chitarrista degli Who. Se non altro,
Musica celestiale non cede alla tentazione di azzerare gli
orologi o di cancellare una storia quando è chiaro che “questa
musica del passato ci offre un rinnovato accesso alle nostre antiche
percezioni e emozioni, e quindi con ogni probabilità c’è un che
di intrinsecamente nostalgico nel piacere inconfessabile (benché
ritenga la parola nostalgia inadeguata in questo contesto: sarebbe
come dire che tutta l’opera di Proust ruota attorno alla nostalgia
per un dolce). Ma se la musica riesce a dar voce a emozioni che
altrimenti rimarrebbero inespresse, questa non è forse una ragione
sufficiente per considerarla valida e importante?” Il senso più
intimo e profonda della Musica celestiale è proprio nella
risposta di Rick Moody quando dice che “la memoria è difettosa,
costellata di errori, trasuda desiderio, eppure interagisce con la
musica in modo duttile; come il jazz, la memoria è imprevedibile, e
offre ai musicisti qualcosa su cui puntare, così come offre agli
scrittori qualcosa su cui scrivere”. La definizione rimane quella,
l’entusiasmo resta intatto ed esplicito quando viene così
condensato e sollecitato: “Prendete il controllo del vostro
splendido linguaggio. Mettete in funzione il vostro gergo alchemico.
Rimescolate il vostro slang. Suonate i vostri innumerevoli fiati.
Suonate bene. Suonate con sentimento”. L’esortazione, molto Beat
Generation, in coda all’introduzione della Musica celestiale,
è ambivalente e si può leggere anche al contrario visto che, come
ribadisce Rick Moody, “la letteratura, pur manifestandosi sulla
pagina, è un fenomeno acustico”. Ecco perché, tra l’altro, il
Nobel è andato dove è andato.
martedì 13 dicembre 2016
Walt Whitman
Negli
anni della guerra civile fino all’assassinio di Abraham Lincoln,
Walt Whitman si offre volontario nell’accudire i feriti, i
moribondi e i prigionieri. E’ l’amico che passa nelle corsie
degli ospedali, è l’ideologo di una rivoluzione amputata dalla
secessione, è il custode di una promessa, è la voce libera di una
nazione che, in tutta la sua fragile costituzione, si trova ad
affrontare uno “sconvolgimento vulcanico”. Le sue annotazioni
sono febbrili, urgenti e ambivalenti. Da una parte, “un’occhiata
alle infernali scene di guerra”, le inaudite sofferenze, i feriti e
i morti protagonisti di “una tragedia così profonda che nessuna
voce di poeta può mai aver cantato o raccontato. Da queste pagine si
sollevano corpi veri, reali, che si muovono e respirano”.
Sull’altra faccia della medaglia, Walt Whitman non resiste alla
tentazione del racconto epico dei valorosi combattimenti corpo a
corpo, di “un migliaio di imprese valorose, ciascuna delle quali
meriterebbe d’essere ricordata in poesie in uno stile nuovo e più
grande”. La partecipazione e il trasporto sono totali,
incondizionati: Walt Whitman invoca, per tutti, “uno spirito tanto
forte quanto dolce, come ce ne sono sempre stati, da che mondo è
mondo” e si lascia trascinare dalla convulsione di quel
momento riempiendo i suoi taccuini di “rapidi sguardi non
sistematici gettati in quella vita, e negli interni foschi e lividi
di quel periodo, che meritano di essere ricordati in futuro”. La
speranza è riposta soltanto nell’incrollabile fiducia nell’ideale
americano, messo a repentaglio da una guerra che “ha dimostrato
umanità, e ha dimostrato pure cosa sia l’America e la
modernità”. Lasciato il campo dell’assistenza, della
compassione, delle storie di figli e madri distrutti per sempre, Walt
Whitman legge il “destino manifesto” secondo un vocabolario in
gran parte inedito. Spinto dall’esperienza diretta di atrocità
inaudite, ammette con pubblico candore che “noi abbiamo bisogno di
questa urticante lezione d’odio generale, e d’ora in poi non
dovremo mai più dimenticarcene”. L’auspicio ha un valore
assoluto: anche nelle condizioni frammentarie imposte dalle
circostanze belliche alle pagine del suo diario, Walt Whitman non
nasconde di aver compreso l’intima e profonda origine delle
divisioni americane e si chiede “dopo tutto, cos’è ogni nazione,
e che cos’è un essere umano, se non una lotta tra opposti elementi
confliggenti e paradossali, e cosa sono questi stessi elementi se non
parti importanti di quell’unica identità e del suo divenire?” La
retorica della domanda rivela che la frattura è stata articolata,
non era soltanto in orizzontale, tra gli stati unionisti e
secessionisti, ma anche lungo una direttrice verticale, dentro
l’identità stessa della nazione, del governo del popolo per il
popolo, quando invece, proprio nel corso di quegli eventi sanguinosi
e drammatici, “il singolo e l’insieme di sono rivelati
superbamente all’altezza, l’organizzazione militare, il potere
d’indirizzo, le sue direttive si sono invece rivelati rozzi e
illegittimi, peggio che deficienti, offensivi e radicalmente
sbagliati”. La separazione diventa palpabile quando Walt Whitman
avendo sperimentato l’incertezza e l’ambiguità nelle retrovie
politiche di Washington tratteggia in modo inconfondibile Abraham
Lincoln “vestito interamente di nero, con guanti di capretto
bianchi, e una giacca a coda di rondine, che riceveva le persone come
se fosse obbligato farlo, stringeva le mani e sembrava proprio
sconsolato, con l’aria di chi avrebbe volentieri dato qualsiasi
cosa pur di trovarsi altrove”. E’ ancora più esplicito quando
misura in prima persona l’inerzia e l’inefficienza dei
governanti, anche di fronte al rischio concreto di una disfatta e al
protrarsi di quattro anni in cui si sono concentrate “tempeste di
vita e di morte, una miniera inesauribile di vita e di morte”.
L’America del poeta resta una nobile illusione, dalla guerra ne è
nata un’altra, e le annotazioni diventano via via lapidarie:
ci saranno annali e ballate, teorie e ricostruzioni, ma la resa di
Walt Whitman arriva quando chiede: “Ma riusciremo mai a sapere le
storie delle cose reali?” Secoli dopo, la domanda è sempre
lì, ancora più grande, ancora più evidente.
mercoledì 7 dicembre 2016
Denis Johnson
Mostri
che ridono è il ritratto caotico e psichedelico dell’ incrocio
in diagonale tra due donne e due uomini sullo sfondo di un’Africa
sospesa tra gli echi ancestrali della sua natura e un futuro
disperato di sfruttamento e devastazione. E’ proprio in questo
humus estremo e contraddittorio che si forma la struttura del legame
tra Michael Adriko e Roland Nair, che a sua volta è complessa e
molecolare. Sono compagni d’armi (o lo sono stati altrove e in
altri tempi), sono amici (se lo sono ancora), sono i due vertici di
un ipotetico rombo con Davidia Saint Claire e Tina che però resta a
distanza, anche se a tutti gli effetti è uno dei terminali emotivi
di Mostri che ridono. Michael Adriko chiede a Roland Nair di
accompagnarlo al suo matrimonio, o meglio a far conoscere Davidia
Saint Claire alla sua famiglia, o quello che ne resta, nel cuore
dell’Africa tropicale. Roland Nair accetta l’invito, ma ha anche
altri motivi per seguirlo, non tutti lineari o comprensibili. Lo
stesso Michael Adriko, che in teoria dovrebbe rispondere al comando
delle forze speciali americane, è “assente senza motivo”, il
termine burocratico per definire un disertore soltanto che nella sua
versione, così come la spiega al suo (ipotetico) testimone di nozze,
“la diserzione è una moneta. La giri, e dall’altra parte c’è
la lealtà”. Nella sostanza, Mostri che ridono è
un’eccentrica spy story del ventunesimo secolo, e ventunesimo
secolo vuol dire quello che è successo dopo l’11 settembre 2001,
ovvero come lascia scivolare Denis Johnson tra le righe, da quando
“correre dietro a miti e favole è diventato un affare serio.
Un’industria. E anche redditizia”. Mostri che ridono torna
a ricordarci che quell’apocalisse ha rivelato che “la realtà non
è un fatto”, ormai “è un’impressione, una convinzione”, e
tutto è possibile, perché non è vero. Nell’attraversare le linee
d’ombra africane sia Roland Nair che Michael Adriko restano
prigionieri più volte, una condizione che li rivela ostaggi del
proprio passato, di se stessi. Eppure non sembrano soltanto immuni,
ma neanche impensieriti, forse perché “un soldato non deve mai
pensare”, e loro sono guerrieri incalliti, disillusi, stanchi e
cinici. Sanno che “la causa della disumanità dell’uomo nei
confronti dell’uomo”, è “la desensibilizzazione.
L’indifferenza dell’esecutore”. L’hanno provata, più volte,
e non saranno mai eroi, un po’ perché sono incognite nel
sottobosco delle menzogne, un po’ perché tra fiumi di alcol
ammettono che “il coraggio non esiste. E’ una questione di
addestramento”. Vale anche per una lunga teoria di figure
secondarie, Bruno Horst, Mohammed Kallon, Hamid, Spaulding, Kruger,
portatori di minacce indistinte, ognuno con la propria missione,
prima di tutte, cercare di decifrare “l’anarchia. La follia. Le
cose che crollano”. Sì, la storia al centro di Mostri che
ridono è quella di un’amicizia suprema, una sfida a forze
incontrollabili, a dimensioni divine e/o magiche e nello stesso tempo
all’ineluttabilità degli elementi (la terra, la pioggia, gli
animali, gli uomini e le donne). Ancora di più, le contorsioni di
Michael Adriko e Roland Nair mettono in risalto i conflitti, gli
intrighi e i disastri dello sfruttamento delle risorse, della
devastazione di tutto, della brutalità e, in fondo, sono l’emblema
della constatazione che “sono pazzi, sono ciechi, sono sventati, e
se ne infischiano tutti, dal primo all’ultimo”. L’identificazione
formale delle possibilità, delle probabilità e dei motivi dei
viaggi si riduce a “oro o idrocarburi”, l’Africa resta un
bersaglio, una terra di conquista, una zona di guerra. L’evidente
omaggio di Denis Johnson a Joseph Conrad lascia una vaga sensazione
di incompiutezza, che d’altra potrebbe essere l’indizio della
genesi di una saga, ma Mostri che ridono è più che
sufficiente a mostrare quali inferni si spalancano quando l’unica
differenza possibile è tra preda e predatore, una distinzione che
non ha più nulla di umano.
domenica 4 dicembre 2016
Hart Crane
Daniel
Mark Epstein chiama i versi di Hart Crane “assalti alla logica”
ed è una definizione ben allineata a quella di Waldo Frank che a sua
volta li inquadrava in “una superba espressione del caos”. Non
c'è alcun dubbio che la poesia di Hart Crane sia un Giardino
astratto, popolato da immagini e associazioni forti ed
eccentriche che mettono in rilievo le parole, le levigano e le
lasciano libere di mutare “cavalcando spontaneità che formano le
loro orbite indipendenti”, come dice un verso in Le mele della
domenica mattina. Le forme sono sempre ingombranti (Harold Bloom
parla di “complessità”, e per dirlo lui), ma l’insistenza del
ritmo è feroce, non lascia scampo, è tambureggiante, ed è piena di
svolte, come avviene in Chaplinesque. Se
all'inizio, “noi docilmente ci adattiamo, contenti di quelle
fortuite consolazioni che il vento depone in tasche sfondate e troppo
grandi”, poi il poeta e la sua poesia ci conducono a un livello
superiore dove “il gioco impone compiacenti sorrisi; ma noi abbiamo
visto la luna in vicoli solitari fare di un bidone vuoto dei rifiuti
un fulgido graal di risate, e fra tutti i suoni della gaiezza e della
ricerca, abbiamo sentito un gattino nella desolazione”. Se si segue
con attenzione la cadenza, è facile intuire la stessa avvolgente
natura del jazz che Hart Crane riassumeva nella meravigliosa
percezione degli “ipnotismi di ottone”, poi particolareggiati in
“mille piccoli sobbalzi ci bilanciano in mezzo a minacciosi
soprassalti di melodia, ombre bianche scivolano sul pavimento,
disseminate come carte aperte da una mano fiacca; ritmiche ellissi ci
portano al galoppo in un qualche luogo con un gallo insolente”. Le
destinazioni finali restano sempre un'incognita e un discorso a parte
meritano i Viaggi compresi alla fine di White Buildings.
Sono uno dei momenti più alti ed evoluti della poesia di Hart
Crane, che qui si intreccia inevitabilmente con la sua umanità, come
ricorda Harold Bloom: “I Viaggi sono poesie di intenso
appagamento erotico ambientate nel Mar dei Caraibi, dove Hart Crane
aveva trascorso le estati insieme alla nonna, sull’isola dei Pini,
sin da quando aveva quindici anni. Proprio in queste acque il poeta,
ormai trentaduenne, di ritorno a a New York dopo essersi mantenuto
per lungo tempo a Città del Messico con la borsa di studio
Guggenheim, cadde in depressione e si annegò”. Per questo i versi
del secondo movimento, quando Hart Crane dice che “il sonno, la
morte, il desiderio, sono racchiusi all’istante in un fiore che
galleggia”, sempre secondo Harold Bloom hanno “l’autorevolezza
di una profezia”. Questa proiezione, la visione dentro e oltre il
tempo, è una proprietà che appartiene a tutta la poesia di Hart
Crane e se serve un punto di riferimento, tra tutte le liriche di
White Buildings, forse lo si
può scovare in Leggenda: “Silenziose come si crede
uno specchio, le realtà affondano nel silenzio vicino. Non sono
pronto al pentimento; né a misurare rimpianti. Perché la falena non
piega nulla più che la fiamma, ancora implorante. E tremuli, fra i
bianchi fiocchi cadenti, sono i baci, l’unica verità che vale
tutto. Questo va appreso, questo scindere e questo bruciare, ma solo
quelli che ancora si consumano”. Follia e ragione possono aspettare
in un angolo, il tempo, almeno qui, è dettato dal mistero della musica e della poesia.
giovedì 1 dicembre 2016
Flannery O'Connor
Al
di là dei racconti selezionati con La
schiena di Parker (e
tra gli altri alcuni classici come Un
brav’uomo è difficile da trovare, Il
fiume, La
vita che salvi può essere la tua o Non
si può essere più poveri che da morti),
questa selezione ha il pregio di annoverare alcuni frammenti di
notevole valore tratti da Il
territorio del diavolo e
soprattutto una piccola campionatura delle lettere di Flannery
O’Connor che rivelano un rigore nella formazione delle riflessioni
poi espresse con un tono tagliente. La predisposizione a separare (a
incidere) nettamente a dividere gli aspetti più superficiali della
scrittura (dell’arte in generale) sono evidenti in Natura
e scopo della narrativa dove
Flannery O’Connor si dimostra una grande teorica e trova sempre il
modo di puntualizzare la sua visione senza paura di prendere
posizione, per esempio sparando ad alzo zero sulla didattica perché “vogliamo l’abilità ma, da sola, è mortale. Necessaria
è la visione che l’accompagna e non la otterrete da un corso di
scrittura”. Il territorio della narrativa è sempre “qualcosa da
desiderare”, e questo vale anche per tutti: “C’è qualcosa in
noi, sia come narratori che come ascoltatori, che richiede l’atto
di redenzione, al fine di offrire a chi cade la possibilità di
risorgere. Il lettore di oggi, anche giustamente, cerca questo
processo, ma ne ha dimenticato il prezzo. Il suo senso del male è
diluito o manca completamente, e così ha dimenticato il prezzo del
riscatto. Quando legge un romanzo vuole il tormento dei sensi o
l’elevazione dello spirito. Vuole essere trasportato all’istante
in una finta dannazione o in una finta innocenza”. Nessuno sconto
né ai principianti, né all’accademia: “Ovunque vada mi chiedono
se, secondo me, le università soffocano gli scrittori. Il mio parere
è che non ne soffocano abbastanza. Con un buon insegnante più di un
best-seller si sarebbe potuto prevenire”. La distanza è ancora più
evidente nelle lettere dove Flannery O'Connor mostra una verve
impagabile. Essendo già autocritica a sufficienza, di fronte a
un'analisi tutta imperniata sugli aspetti gotici della sua scrittura
risponde:“Mi
fa sorridere vedere le mie storie descritte come storie dell’orrore
perché il recensore ha sempre un senso dell’orrore sbagliato”.
Più in là, in un'altra corrispondenza sembra, rincarando la dose in
modo ruspante e senza inibizioni: “Il senso morale è stato
geneticamente estirpato da certe categorie di popolazione così come
geneticamente sono state fatte nascere galline senza ali per
ricavarne più carne. La nostra è una generazione di galline senza
ali che suppongono sia stato quello che Nietzsche intendeva dire
quando disse che Dio era morto”. Non le sfugge nulla: nel campo
della fede (cattolica), un tema su cui non teme di spendersi con
generosità riesce a inventarsi un'acrobazia linguistica al limite
del paradosso (se non oltre) quando dice: “Trovo ragionevole
credere, sebbene queste credenze siano al di là della ragione”.
Quella di Flannery O'Connor è una voce inconfondibile e la sua
unicità è tale che, fatte salve le diverse prospettive, non si
intravedono differenze tra il tono dei racconti, dei saggi o delle
lettere, a conferma dell'idea che “la
narrativa riguarda tutto ciò che è umano e noi siamo polvere,
dunque se disdegnate d’impolverarvi non dovreste tentar di scrivere
narrativa”, e così sia.