Mostri
che ridono è il ritratto caotico e psichedelico dell’ incrocio
in diagonale tra due donne e due uomini sullo sfondo di un’Africa
sospesa tra gli echi ancestrali della sua natura e un futuro
disperato di sfruttamento e devastazione. E’ proprio in questo
humus estremo e contraddittorio che si forma la struttura del legame
tra Michael Adriko e Roland Nair, che a sua volta è complessa e
molecolare. Sono compagni d’armi (o lo sono stati altrove e in
altri tempi), sono amici (se lo sono ancora), sono i due vertici di
un ipotetico rombo con Davidia Saint Claire e Tina che però resta a
distanza, anche se a tutti gli effetti è uno dei terminali emotivi
di Mostri che ridono. Michael Adriko chiede a Roland Nair di
accompagnarlo al suo matrimonio, o meglio a far conoscere Davidia
Saint Claire alla sua famiglia, o quello che ne resta, nel cuore
dell’Africa tropicale. Roland Nair accetta l’invito, ma ha anche
altri motivi per seguirlo, non tutti lineari o comprensibili. Lo
stesso Michael Adriko, che in teoria dovrebbe rispondere al comando
delle forze speciali americane, è “assente senza motivo”, il
termine burocratico per definire un disertore soltanto che nella sua
versione, così come la spiega al suo (ipotetico) testimone di nozze,
“la diserzione è una moneta. La giri, e dall’altra parte c’è
la lealtà”. Nella sostanza, Mostri che ridono è
un’eccentrica spy story del ventunesimo secolo, e ventunesimo
secolo vuol dire quello che è successo dopo l’11 settembre 2001,
ovvero come lascia scivolare Denis Johnson tra le righe, da quando
“correre dietro a miti e favole è diventato un affare serio.
Un’industria. E anche redditizia”. Mostri che ridono torna
a ricordarci che quell’apocalisse ha rivelato che “la realtà non
è un fatto”, ormai “è un’impressione, una convinzione”, e
tutto è possibile, perché non è vero. Nell’attraversare le linee
d’ombra africane sia Roland Nair che Michael Adriko restano
prigionieri più volte, una condizione che li rivela ostaggi del
proprio passato, di se stessi. Eppure non sembrano soltanto immuni,
ma neanche impensieriti, forse perché “un soldato non deve mai
pensare”, e loro sono guerrieri incalliti, disillusi, stanchi e
cinici. Sanno che “la causa della disumanità dell’uomo nei
confronti dell’uomo”, è “la desensibilizzazione.
L’indifferenza dell’esecutore”. L’hanno provata, più volte,
e non saranno mai eroi, un po’ perché sono incognite nel
sottobosco delle menzogne, un po’ perché tra fiumi di alcol
ammettono che “il coraggio non esiste. E’ una questione di
addestramento”. Vale anche per una lunga teoria di figure
secondarie, Bruno Horst, Mohammed Kallon, Hamid, Spaulding, Kruger,
portatori di minacce indistinte, ognuno con la propria missione,
prima di tutte, cercare di decifrare “l’anarchia. La follia. Le
cose che crollano”. Sì, la storia al centro di Mostri che
ridono è quella di un’amicizia suprema, una sfida a forze
incontrollabili, a dimensioni divine e/o magiche e nello stesso tempo
all’ineluttabilità degli elementi (la terra, la pioggia, gli
animali, gli uomini e le donne). Ancora di più, le contorsioni di
Michael Adriko e Roland Nair mettono in risalto i conflitti, gli
intrighi e i disastri dello sfruttamento delle risorse, della
devastazione di tutto, della brutalità e, in fondo, sono l’emblema
della constatazione che “sono pazzi, sono ciechi, sono sventati, e
se ne infischiano tutti, dal primo all’ultimo”. L’identificazione
formale delle possibilità, delle probabilità e dei motivi dei
viaggi si riduce a “oro o idrocarburi”, l’Africa resta un
bersaglio, una terra di conquista, una zona di guerra. L’evidente
omaggio di Denis Johnson a Joseph Conrad lascia una vaga sensazione
di incompiutezza, che d’altra potrebbe essere l’indizio della
genesi di una saga, ma Mostri che ridono è più che
sufficiente a mostrare quali inferni si spalancano quando l’unica
differenza possibile è tra preda e predatore, una distinzione che
non ha più nulla di umano.
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