Più
che la storia di un disco, ovvero Pink Moon, è quella di un
artista, di un ragazzo fragile e confuso, e malato, che si ritrovò a
confrontarsi con i meccanismi tutt’altro che gentili e comprensivi
del processo di creazione, e poi di commercializzazione della musica.
I suoi dischi vendettero qualche migliaio di copie (oggi potrebbero
bastare, allora erano del tutto risibili) ed ebbero una risonanza
critica relativa, e non sempre entusiasta, per usare un eufemismo.
“La sua storia è nelle canzoni. Più passa il tempo più sembrano
parlarci di lui, e di nessun altro” ha detto Joe Boyd, il
produttore, e con ogni probabilità la persona che è stata più
vicina a Nick Drake e Amanda Petrusich ha cercato di condividere la
passione per quella mezz’ora di musica, acustica, scheletrica
(molto bella la ricostruzione del suo primo “incontro”) con
altrettanti fans tra cui Lou Barlow (Dinosaur Jr., Sebadoh), Damien
Jurado, Curt Kirkwood (Meat Puppets) Duncan Sheik, Robyn Hitchcock,
ed è sua la migliore definizione: “Pink Moon è una lezione
di umiltà”. La bellezza resta indefinibile, anche perché non fu
del tutto compresa quando quel disco uscì, nel 1972. Qualche
risposta in più su Nick Drake cresce pagina dopo pagina: la sua vita
e la sua morte rimangono un mistero incompiuto, se si cercano
risposte oltre le patologie, ma la sua riscoperta è ormai
universale, soprattutto grazie a Milky Way, un raffinato spot
della Wolkswagen che usava proprio Pink Moon, come colonna
sonora, senza alcun commento aggiuntivo. Serve ancora una
delucidazione di Joe Boyd che in Le biciclette bianche
ricordava così quel preciso momento: “Quando la pubblicità della
Wolkswagen arrivò sulle televisioni americane, esisteva già il
culto di Nick Drake, di dischi se ne vendevano decine di migliaia
all’anno e quello di Nick era, per i giovani cantanti, un bel nome
da dire quando gli si chiedeva di citare le loro influenze. La musica
di Nick, come i critici spesso affermano, è eterna? O si è
sganciata dal suo tempo perché non è riuscita a legarsi al pubblico
quando fu pubblicata? La musica di Nick non fu mai una colonna sonora
dei ricordi dei genitori, quindi il pubblico moderno è libero di
farne la propria”. E’ successo esattamente così ed è dove
l’analisi di Amanda Petrusich comincia davvero perché, prendendosi
l’onere di intervistare gli addetti ai lavori (dai copywriter ai
registi), è andata a scandagliare, e fino in fondo, l’ambiguo
rapporto tra musica e pubblicità. L’originalità della suo saggio
su Pink Moon sta proprio lì ed è ben rappresentato nella
definizione della musicologa Bethany Klein che Amanda Petrusich cita
in modo assai opportuno: “Credo che la musica pop, intesa come
arte, sia un fenomeno molto più complicato. Secondo un mito
difficile da sfatare, per arte e musica il fine primario è quello
estetico, ma ciò ovviamente non è sempre vero. Tuttavia, anche se
finiamo per accettare l’idea che la musica pop sia essenzialmente
un prodotto commerciale, essa ci fornisce, sia come individui che
come società, qualcosa che gli altri prodotti commerciali non ci
forniscono: un veicolo attraverso il quale esplorare emozioni,
identità, significati”. Un ottimo lavoro, proprio perché riesce a
riannodare Nick Drake all’attualità, senza scadere
nell’agiografia, e andando a raccontare l’evoluzione di molte
idiosincrasie, in particolare proprio quella che oppone il valore
dell’integrità della musica al suo utilizzo nella pubblicità. Non
funziona, ma quando funziona, è grande.
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