Joseph Mitchell è un reporter
della vecchia scuola: consuma le suole delle scarpe per andare a caccia di
notizie, non inventa niente ed è un osservatore acuto, curioso, generoso ed
entusiasta, persino molto ironico, quando deve una certa indolenza: “Non mi è
molto difficile inventare una scusa che giustifichi il mio comportamento (ho
una grande esperienza nel giustificarmi di fronte a me stesso”). Si vede anche
nello spazio limitato dalla forma embrionale di Una vita per strada, poco più di un articolo che destinato ad avviare un
romanzo autobiografico: Joseph Mitchell riesce a dipanare tutta una grande
(grandissima) abilità nel leggere la realtà quotidiana di NYC, la sua
architettura, i suoi angoli, le forme e le atmosfere. “Cammina per la città,
indaga ogni stradina, ogni avvenimento insolito, ogni personaggio eccentrico.
Continuò a farlo, e in modo ossessivo, per tutta la vita” dicevano i suoi
colleghi ed è lo stesso Joseph Mitchell a confermare la sua predisposizione al
vagabondaggio: “Quello che amo davvero è gironzolare senza meta per la città,
camminare giorno e notte per le strade. E’ più di un piacere, un semplice
piacere, è un’aberrazione”. Anche se si muove come un rabdomante lungo le
perpendicolari di New York, quel “diventare parte della città”, non è casuale.
La distinzione è nitida e non lascia scampo: i suoi preferiti sono “visionari,
ossessivi, impostori, fanatici, predicatori della fine dei tempi, vecchi re e
regine degli zingari, e freak puri e semplici”. Non cerca, non segue e non
vuole saperne di “signore mondane, capitani d’industria, ministri, esploratori,
attori di cinema, e attrici di qualsiasi tipo al di sotto dei trentacinque
anni”. L’essenza di Una vita per strada è nella sua visione dal basso perché nello spirito con cui l’affronta Joseph
Mitchell “non esiste osservatorio migliore da cui guardare la città ordinaria,
comune l’altezzosa, maestosa, argentea città verticale, ma la vasta città
orizzontale di un grigio, di un marrone, di un rossiccio e di un rosa
fuligginosi, la città intricata che cova sotto le ceneri, vecchia, inquinata e
a un passo della demolizione”. Le immagini, le sensazioni, le percezioni non
sarebbero niente senza la scrittura elegante, raffinata, avvolgente che è
palpabile anche nei ristretti margini di Una vita per strada: “E mi piace in particolare recarmi in una di queste
chiese in un’assolata domenica mattina estiva quando le strade del quartiere
sono praticamente deserte e tutto è calmo e sereno e pare che molti più uccelli
che nei giorni feriali si muovano tra gli alberi e gli arbusti e l’edera del
cimitero e i vetri colorati risplendono e le porte sono accostate e le finestre
al piano terra sono state alzate appena appena e da qualche parte un
ventilatore ronza e i libri di preghiera e gli innari aperti rilasciano
nell’aria calda l’odore acidulo dei vecchi testi maneggiati a lungo, e c’è solo
un gruppetto di persone, il solito gruppetto di irriducibili, tra i quali ci
sono sempre alcune vecchie ossute, rigide, altere, che sprizzano New York da
ogni poro”. Manca soltanto Joe Gould, che rimane là, dietro l’angolo.
giovedì 27 novembre 2014
martedì 25 novembre 2014
Robert Penn Warren
Se
la dimensione di un classico si misura attraverso la sua atemporalità, allora Tutti
gli uomini del re è una pietra
miliare della narrativa (americana, e non solo) nel ricostruire le deformazioni
del potere, degli uomini e delle donne dentro il potere, nella sua espressione
più appariscente, la ricerca del consenso. Sesso, soldi, politica, famiglia:
legati in modo indissolubile, confluiscono in una palude morale, dove menzogne,
tradimenti, rivalse e vendette sguazzano senza sosta come mocassini acquatici (e
più velenosi). Il romanzo è molto più delle sue riduzioni cinematografiche e la
differenza non è relativa. Da cronista della provincia americana, Jack Burden
diventa uno degli spin doctor di Willie Talos, un parvenu dell’agone politico
che si presenta così: “Il mio verbo è il cuore del popolo”. Secondo il parere
(rispettabilissimo) di Joyce Carol Oates è il suo personaggio a conferire un
“valore eterno” a Tutti gli uomini del re, e non c’è dubbio che Willie Talos abbia i parametri giusti per essere
ricordato nei secoli. Al fondo degli eventi, è però il suo rapporto con Jack
Burden a definire il sinuoso corso di Tutti gli uomini del re. Jack Burden proviene da una famiglia ricca e
dissoluta, con una madre volitiva e amici fraterni e altrettanto altolocati come
Anne e Adam Stanton, che hanno avranno un ruolo decisivo nell’evolversi di Tutti
gli uomini del re. Willie Talos viene
dalla terra, dal fango, dalle radici e diventa governatore senza particolari
ambizioni politiche, visto che la sua considerazione della democrazia è
lapidaria: “Prova tu ad andare lì e ficcare un po’ di buonsenso in quel
parlamento. Stai meglio se ti becchi la dissenteria”. Quando Jack Burden
accetta di lavorare per lui, la svolta è un salto mortale: “Sono un politico, e
noi non abbiamo amici”. A quel punto soltanto l’amore platonico tra Jack Burden
e Anne Stanton rimarrà l’unica cosa pulita e non consumata di tutta una storia
che corre spedita verso la tragedia. I semi sono già gettati fin dall’inizio
perché “quando si vuole troppo, di solito ti succede qualcosa. Ti trasformi
nella sola e unica cosa che desideri, nient’altro, perché hai speso troppo per
lei, troppo tempo ad aspettarla, troppo nel desiderarla, troppo per
raggiungerla. E alla fine ti fanno solo quelle domandine di merda”. Robert Penn
Warren pennella a tinte forti, grezze, impressionanti, una scrittura florida e
fluida nello stesso tempo, americana nella sua profonda essenza popolare. Fin
dal primo capitolo, maestoso, che potrebbe essere un racconto, fatto e finito,
ma poi affascina, per esempio, anche soltatno per come inserisce i personaggi
minori, dislocati nei punti strategici, con una gran classe e una
personalissima disinvoltura. Con le stesse modalità piazza le scene principali,
a partire dall’incontro con il giudice Irwin, nel pieno della notte, mentre
Willie Talos diventa “il simbolico portavoce del muto ed encefalitico popolo
dei probi” ed essendo uno di loro, dispone del potere che gli è stato conferito
per difendere, insieme alla sua gente, anche se stesso. Questo è il refrain
nella storia della democrazia; questo racconta un grandissimo romanzo come Tutti
gli uomini del re.
martedì 18 novembre 2014
Raymond Carver
Pubblicati
nel 2000, gli ultimi racconti di Raymond Carver non sono legati al suo
crepuscolo, anche perché nell’ultimo periodo della sua vita, come è noto, più
che alla narrativa, si è dedicato alla poesia che riteneva “una grande
benedizione”. Pur provenendo da periodi molto diversi, e si va dai primi passi
di Raymond Carver fino alla forma ottenuta con infinite revisioni, si ha la
sensazione che i racconti Se hai bisogno, chiama siano collegati da un sottile filo
conduttore. E’ senza dubbio frutto dell’accurato lavoro di lettura, correzione
e assemblaggio di Tess Gallagher e Jay Woodruff, che li hanno scoperti e poi
trattati con la necessaria esperienza e la giusta discrezione, ma è soprattutto
l’effetto di Carver e dei suoi personaggi, con cui viene spontaneo
identificarsi in modo viscerale. E’ proprio quello che succede quando si
incontrano lui e le sue legioni di outsider, così come lo spiega Tess
Gallagher, dato che nei racconti le vite dei protagonisti “sono talmente
depredate dalle circostanze da diventare nostre”. La spiegazione è più che
pertinente, e se questi “short cuts” raccolti in Se hai bisogno, chiama, non sono proprio indispensabili, perché
non aggiungono nulla di così nuovo ed eclatante alla conoscenza dell’opera
carveriana, sono comunque una valido compendio per completarne la conoscenza. Legna
da ardere, giusto per
andare in ordine, è una storia rarefatta e ombrosa in cui i tre personaggi,
Myers, Sol e Bonnie, sembrano specchiarsi uno dell’altro condividendo una
modesta abitazione vicino all’acqua. Un particolare ricorrente, e non è
l’unico: Carver dissemina (sempre) minuscoli indizi, piccole esche funzionali
al meccanismo narrativo, senza malizia, senza artificio. Non c’è nessun trucco,
questo si sa, solo piccoli semi sparsi per ricordare il sentiero, la strada del
ritorno verso casa, magari con “qualche incidente di percorso”, il più delle
volte l’alcol o un legame spezzato, che porta in direzioni impreviste e
sconosciute. Lo schema di Legna da ardere è riproposto da Vandali però con una doppia coppia, più un convitato
di pietra che sfugge al ricordo. L’incendio è soltanto una leggera distrazione
per illuminare il resto del racconto. Diverso è invece lo straziante rogo di Sogni, che mette a dura prova lo scrittore e
il lettore, tanto che la soluzione
sembra essere soltanto una. Come scriveva Raymond Carver: “Mettilo nel
tuo libro”, ed ecco fatto, come se il racconto in sé fosse in grado di
preservare i Sogni (appunto)
e circoscrivere il dolore. Un’arte, a cui servono pochi passaggi essenziali. E’
la distribuzione dei dettagli in Cosa vi piacerebbe vedere?, il ronzio del generatore e quello del
proiettore, piccole forme di attrazione, per segnalare che “a volte le cose
vanno per il verso giusto”. E’ la voce nella constatazione di Se hai bisogno,
chiama: “A distanza di
tempo sembra tutto così volgare e prevedibile, forse perché lo era, volgare e
prevedibile, ma quella primavera era quello che era e basta, e ci stava
consumando tutte le energie e la concentrazione, a scapito di tutto il resto”.
E’ Carver al 100%.
domenica 16 novembre 2014
Bill Bryson
C’è
un equivoco sostanziale nel titolo, perché l’impresa che vorrebbero portare a
termine Bill Bryson e il suo amico Stephen Katz non è proprio Una
passeggiata nei boschi semplice
semplice. Oltre tremila chilometri seguendo i crinali dell’Appalachian Trail,
dalla Georgia al Maine, sono qualcosa più simile ad un’odissea che a una gita
domenicale e non tanto perché tra gli alberi si può nascondere una congrega di
streghe o chissà quali altre spaventose leggende, ma perché come annota subito
Bill Bryson “le foreste non sono spazi qualsiasi. Tanto per cominciare, sono
spazi cubici. Gli alberi ti circondano, ti guatano, premono da ogni lato, ti
impediscono la visuale, lasciandoti intontito e privo di punti di riferimento.
Ti fanno sentire piccolo, confuso e vulnerabile, come un bambino sperso in una
folla di gambe estranee. In un deserto o in una prateria si ha la sensazione di
uno spazio vasto. Ma di una foresta si può solo avere sensazione. Le foreste
sono non luoghi, vasti e senza forma. Vivi”. Attraversarle per sfida, senza
un’adeguata preparazione, e con un compagno di viaggio poco meno che
disastroso, è la vera impresa. Bill Bryson la racconta con una certa verve e Una
passeggiata nei boschi è un libro
piacevole, a volte persino divertente, sempre scorrevole con quel suo continuo
alternare diario di viaggio e saggio storico. Bill Bryson, perfettamente a suo
agio in questo strano ibrido, ha anche mestiere da vendere, ma resta
l’impressione, già percepita nei precedenti accumulati con America perduta, che non voglia o non possa andare in profondità nel
raccontare il territorio americano, come hanno fatto in modi diversi, senza
tante pretese ma in maniera più avvincente, William Least Heat-Moon in Prateria o Jonathan Raban in Bad Land. E’ diverso il tono, come se Bill Bryson guardasse
l’America da un oblò, quindi con una visione ristretta, univoca e monocolore.
Con troppo distacco per essere convincente, Una passeggiata nei boschi è un viaggio con un obiettivo dichiarato proprio dove,
come se ne accorge ben presto Bill Bryson, mancano i punti di riferimento.
Essendo un umorista, l’ironia gli torna utile nell’affrontare le difficoltà del
viaggio, ma spesso rimane l’unico strumento a sua disposizione e si perde di vista il tema centrale,
che poi è, nella sua essenza, una specie di mito. Rispetto ad America
perduta, con Una passeggiata nei
boschi, Bill Bryson ha alzato il
tiro, perché tra l’avvistamento di un alce e una disgressione sulla qualità di
un certo tipo di zaini, offre anche ampi squarci di piogge acide, specie in via
d’estinzione, disboscamenti forsennati, fabbriche e miniere che distruggono
intere montagne o città. Sono le parti più illuminanti perché, superano una
visione paesaggistica e olografica della wilderness per spiegare che “niente
dura, in America”. Nemmeno le foreste secolari: figurarsi che speranze hanno
gli episodi, gli aneddoti e le nozioni da escursionista che costituiscono gran
parte di Una passeggiata nei boschi.
giovedì 13 novembre 2014
Luci Tapahonso
Una
delle voci più originali della letteratura nativa americana, Luci Tapahonso,
sovrappone racconto e poesia, li alterna e li scambia lungo “il confine sottile
di un miracolo”, il compromesso tra il navajo e l’inglese. Sono due vocabolari
molto diversi, che tengono insieme “le fragili vite” e confluiscono in una
lingua essenziale e scheletrica. Se a prima vista la scrittura raccolta in Sáanii
Dahataał può apparire
istintiva, se non addirittura naïf, c’è invece un sentimento solidissimo
radicato nelle sue fondamenta. Le “vie dei canti” di Luci Tapahonso
appartengono a una cultura offesa, minacciata, vessata e distrutta, ma che non
è mai stata dimenticata e le sue liriche usano una lingua che sopravvive nel
ricordo perché lo scopo trascende le pagine in cui è incastrata: “Per molte
delle persone che, come me, risiedono lontano dalla propria terra, scrivere è
il mezzo per tornare, per rinnovarsi e per riportare i nostri spiriti allo
stato di hohzo, o
bellezza, che rappresenta la base della filosofia navajo. E’ una piccola parte
della cosa vera, ed è
funzionale, ma, man mano che la cultura navajo cambia, noi ci adattiamo di
conseguenza”. L’ossessione per le parole non deve nemmeno essere giustificata,
anche se Luci Tapahonso si premura di precisarne la funzione e, va da sé,
l’importanza: “Le parole generano bellezza, felicità, riso, calma come anche
distruzione e morte, quindi fate attenzione al modo in cui le usate. In navajo
diciamo che il sacro ha inizio sulla punta della lingua”. Sáanii Dahataał che è il modo migliore per aprire una
porta a Luci Tapahonso parte proprio da lì, votato a “ordinare e riordinare con
cura parole e pause che erompono come ricordi dal pieno respiro”, come scrive
in Fuori da una piccola casa.
E’ “un’irrequietezza innominabile”, quella che spinge con insistenza verso la
memoria, una vocazione a collocare “un senso di eredità culturale come un senso
della storia”, quasi a costruire un rifugio con le parole stesse. Succede in E’
notte in Oklahoma, una
toccante poesia in cui i due protagonisti, in fuga dal dolore e dal gelo di
avvolgono uno nell’altra e dicono: “qui dentro, noi respiriamo la pelle
dell’altro, ci muoviamo per sentire il battito dei nostri polsi, e questa è
l’unica rassicurazione delle nostre fragili vite”. Questo sfuggente equilibrio
permea tutto Sáanii Dahataał,
senza distinzione tra poesie, canzoni o racconti, ed è tra i motivi principali
che rendono la scrittura di Luci Tapahonso così vivida e magnetica. Il
confronto con un altro idioma, usato come uno strumento per saldare tante,
diverse visioni non intacca la scintilla originale, che è evocata, fin dal
titolo, in Ricorda le cose che ci hanno detto: “Ogni suono che facciamo evoca la
potenza di questi venti e noi siamo, allo stesso tempo, miti e forti”. Il
cuore, l’epicentro e la stella polare di Sáanii Dahataał sono proprio lì, e sembrano prodotti
dall’eco tramandato nel tempo di un antico canto navajo: “Tutto quello che hai
visto ricordalo, perché tutto quello che dimentichi torna a volare nel vento”.
lunedì 10 novembre 2014
Dennis Cooper
“La
verità è arida. La verità si capisce solo quando tutto il proprio mondo appare
come soffritto a fuoco lento finché non ne rimangono solo le informazioni
strettamente necessarie a separarlo dal mondo altrui” confessa Dennis Cooper in
uno dei passaggi fondamentali di Idoli. La verità è che ha visto l’inferno, ci è passato dentro,
“sembrava quasi amore”, e, ora, è qui a raccontarlo. Dennis Cooper è un autore
che non ha misure: il suo meccanico narrare di violenza e sesso, sesso e
violenza (che per lui sono indissolubilmente legati) scuote più di una
coscienza e, in effetti, l’abulia morale dei suoi romanzi, le assurdità
spiegate con una freddezza vicina al cinismo sono sufficienti a spiegare tanta
tensione e a concordare con lui sul fatto che “la realtà è troppo complessa per
lasciarsi decodificare da uno qualsiasi di noi”. Dal punto di vista narrativo,
monotonia e ripetività sono, nello stesso tempo, le sue armi e i suoi punti
deboli, tali da lasciar supporre una voglia di shock a tutti i costi e per tutti
i bisogni dello spettacolo. Un dubbio lecito visto il proliferare di scrittori
che non raccontano più di quello che ha già spiegato Vladimir Nabokov. Magari
aggiungono qualche particolare, d’accordo, un po’ di violenza in più, ma non è
questo il punto perché Dennis Cooper, almeno da quello che si riesce a capire
in Idoli, va oltre.
Affiorano dubbi: è vero che il paesaggio umano è sempre degradato ai minimi
livelli (anche peggio), ma a differenza di tanti altri votati a un approccio
superficiale, Dennis Cooper sembra accorgersi che sta raccontando e che, in
qualche modo, la sua è già una presa di posizione, un definirsi, probabilmente
un tentativo di venirne fuori. Con il contorno sonoro di Guided by Voices
(un’ossessione), Smear, Sebadoh, Lemonheads, Blur che già evocano un paesaggio
fluttuante ed evanescente, le realtà formate dagli acidi e dalla noia assumono
il centro di gravità, lasciando a “qualsiasi potenziale problema insito
nell’avere rapporti con gli altri” il ruolo di “effetti collaterali irrilevanti”.
Gli Idoli si formano
in quelle particolari orbite e in modo altrettanto repentino scompaiono perché
l’alter ego di Dennis Cooper dice: “Chi distruggo nel corso della narrazione
per me non ha importanza. Vorrei solo essere in grado di fare lo stesso in questa
vita molto meno plasmabile che stiamo iniziando a vivere insieme”. Questa è la
frattura, la ferita dentro Idoli
e sembra confessarlo lo stesso Dennis Cooper un passo più in là: “Scrivo
romanzi che sostanzialmente sono soltanto descrizioni prolisse e involute dei
mondi dei miei desideri, insoliti e utopici, in cui realisticamente non sono in
grado di entrare”. Idoli,
pur non spiegando nulla, mostra che l’inferno di Dennis Cooper, per folle e
arido che sia, è soltanto una cellula e che tutto intorno c’è qualcosa che non
funziona perché ammette: “Tutta la bellezza del mio mondo è addormentata, priva
di sensi o cadavere”. Durissimo, sincero: Idoli è un libro da prendere con le pinze e
con i guanti, ma che affronta la realtà con gli occhi spalancati e senza paura
di niente.
mercoledì 5 novembre 2014
A. M. Homes
Il
primo edificio dell’evanescente architettura di Los Angeles a diventare
protagonista del reportage di A. M. Homes è lo Château Marmont, albergo che è
l’equivalente del Chelsea Hotel di NYC, con tutto il suo bagaglio di storie e
drammi, a partire dalla folle notte in cui se ne è andato (in un sacco nero)
John Belushi. E’ anche l’ultimo perché la sua “antropologia del quotidiano” è
un cocktail leggero ed effervescente di ironia, ipocondria, osservazioni e
divagazioni in misure uguali per cercare di capire e spiegare: a) “una delle
città più americane d’America”; b) “forse il luogo più surreale d’America”; c)
una città specializzata nell’eliminazione dell’incredulità, nella sospensione
del tempo, della realtà, della storia e della memoria”. Le premesse sono altisonanti,
i punti di domanda rimangono lì perché quando A. M. Homes si avventura in
territori che non gli appartengono (l’analisi, la critica, il conflitto), non
riesce a sfuggire alla trappola dell’ovvietà: “Per quanto riguarda
l’architettura di Los Angeles è sempre stata un avamposto progressista. Dal
punto di vista estetico, è eccezionalmente democratica: un ambiente urbano che
accetta quasi di tutto, cosa che ne costituisce la bellezza, ma anche
l’orrore”. In realtà, A. M. Homes sfiora appena e/o sorvola la complessità di
Los Angeles: lascia cadere con un certo aplomb l’idea che, per scoprirla, serve
leggere Mike Davis (questo è poco, ma sicuro), poi trotterella tra una centrale
eolica e una beauty farm, tra un hotel e l’altro. C’è qualcosa di attraente
nell’incidentalità delle sue tappe attraverso una “città di frontiera” ed è una
leggerezza che, non a caso, scivola meglio in superficie quando A. M. Homes
scrive: “Los Angeles è la patria di Hollywood, l’industria che ha creato il
sogno americano: è il luogo dove si fabbricano speranze e desideri che poi ti
vengono consegnati come se fossero tuoi, dove donne e uomini fortunati sono
elevati al rango di star, di eroi, almeno fino a quando non arriva qualcosa di
meglio”. Quando torna nell’ambito che gli è proprio, sé stessa, A. M. Homes è
molto più convincente e riesce a delimitare un legame con Los Angeles in modo
preciso: “E’ facile e pericoloso fingere che non ci sia alcun mondo al di fuori
del proprio. In questa città ognuno fa per sé; ogni persona crea la propria
realtà. Ci sono poche esperienze collettive: le condizioni meteorologiche, il
traffico e la terra”. Per qualcosa di più specifico deve parafrasare Gertrude
Stein, quando diceva (a proposito di un altro luogo, di un’altra città): “Là
non esiste alcun là”. E’ proprio così e lo spirito eccentrico, quasi incantato,
con cui A. M. Homes si lascia trascinare nella multiforme geografia di Los
Angeles non è sufficiente a risolvere i limiti nell’impostazione e
nell’ampiezza di una ricerca che, alla fine, ha prodotto una cartolina,
curiosa, firmata e di classe, ma pur sempre una cartolina. Basta non chiederle
di più, potrebbe rintanarsi nella sua stanza preferita allo Château Marmont e
scrivere un altro romanzo.
sabato 1 novembre 2014
Jack London
L’attualità
di Preparare un fuoco,
scritto tra il 1902 e il 1910 rimane sorprendente, per non dire profetica, a
distanza di un secolo. Le condizioni assolute, più che estreme, in cui cammina
Tom Vincent o Tom Collins (così è variato il nome del protagonista di Preparare
un fuoco nel corso delle
diverse versioni) è la sua lampante incomprensione della stessa realtà della
wilderness, che permette a Jack London di evidenziare e acuire la distanza tra
l’uomo, e per estensione il genere umano, e la natura che incombe sopra di lui.
Preparare un fuoco sarebbe
un’attività che rientra nella routine delle normali procedure quotidiane, ma
nella rigidità dell’inverno dello Yukon diventa una questione di vita o di
morte, senza eccezioni. Le due versioni di Preparare un fuoco, pur nella differenza dell’evoluzione
finale, mostrano l’incapacità dell’uomo di assoggettarsi ai propri limiti e di
comprendere quelli imposti dalla natura. Anche i bizzarri tentativi di
antropomorfizzare i fenomeni naturali sembrano un frutto dell’arroganza e
dell’euforia, almeno alla partenza, come scrive Jack London: “Nonostante tutto
si sentiva presente, aveva la percezione di una gioiosa ebbrezza, una vera
esultanza; stava facendo qualcosa, stava raggiungendo un obbiettivo, dominava
gli elementi”. E’ proprio quella l’esca che attira l’uomo nella sua stessa
trappola perché la natura, l’inverno, il ghiaccio e la neve sono lì e non si
inventano niente. L’idea di sfidarli e il tentativo di controllarli è insito
nell’esigenza dell’uomo di provare la sua stessa esistenza. La fatica di
comprenderli rimane esclusa, ed è questa la morale, perché c’è una morale, in Preparare
un fuoco. La sua
sconfitta non è la vittoria della wilderness che è indifferente al destino
umano. E’ un fallimento, dovuto alla negazione dell’istinto primordiale e
all’azzeramento dell’esperienza, più percepibile nell’ultima versione del
racconto, dove interviene un terzo elemento, quello animale. Lo precisava
meglio George R. Adams: “Attraverso il parallelo tra uomo e cane, London suggerisce
una sorta di perverso e ironico processo evolutivo: gli esseri umani finiranno
per snaturare il cane, rendendolo talmente dipendente e oggettivato che non
sarà più in grado di sopravvivere nel proprio ambiente: quindi non sarà nemmeno
più utile per servire o salvare gli esseri umani”. Sull’ereditarietà dei
caratteri il dibattito resta aperto, ma Preparare un fuoco resta un tassello importante nella
variegata bigliografia di Jack London perché traduce in uno splendido frammento
narrativo, quello che Charles Darwin aveva già intuito in Diario di un
naturalista intorno al mondo:
“Noi non teniamo sempre presente alla mente la profonda ignoranza in cui siamo
delle condizioni di vita di ogni animale”. Nella categoria è compreso anche in
genere umano e “mai viaggiare da soli”, l’imperativo da rispettare nel gelo
dello Yukon, vale anche in senso lato perché dice che bisognerebbe condividere
e restare vicini alla sostanza degli elementi e dei fenomeni naturali. Sfidarli
rimane molto pericoloso, oltre che inutile.