venerdì 31 dicembre 2010
Cormac McCarthy
William Least Heat-Moon
Prateria di William Least Heat-Moon somiglia a uno di quei manuali per pionieri che venivano distribuiti con generosità per popolare i trasferimenti verso il selvaggio West, con la differenza che in questo “reticolo” non si nasconde niente e non si vende nulla, non c’è alcun paesaggio “fantastico” in offerta speciale perché si tratta di una “topografia manuale della zona”. L’idea del reticolo e della profondità cercata in un quadrilatero del Kansas “è un bel modo di viaggiare: basta iniziare con una meta molto vicina, seguirla fino alla successiva rivelazione e continuare così finché le cose stesse non traccino una mappa, ovvero una sequenza di eventi che, invece di essere ben chiari davanti a sé prima di cominciare, si vedono solo a posteriori, ben ordinati in fila indiana dietro le spalle”. Si può credere che nasca da quella che Stephen Jay Gould definisce “curiosità minuziosa e infinita”, ma è lo stesso William Least Heat-Moon a rivelare, in fondo a Prateria, la sua genesi, che si è sviluppata più per istinto che con metodo, con un’idea semplice, breve e naturale: “Fa’ un piccolo viaggio di congiunzioni, di coincidenze, passa il tempo ad attraversare, o perlomeno a sfiorare, le latitudini e le longitudini altrui; e dal momento che non puoi occupare lo stesso posto degli altri nello stesso tempo, cerca di occupare lo stesso tempo nello stesso tempo”. L’appunto rivelatorio può apparire criptico una volta estrapolato dal contesto di Prateria ed è utile allora per comprenderne il “folklore” una definizione di un altro “compagno di viaggio” di William Least Heat-Moon, Joseph Brodsky: “La geografia combinata al tempo equivale al destino”. La sua essenza è anche in una domanda (e nella sua risposta) di Robert Penn Warren: “Che cos’è l’amore? Un altro nome per definirlo è conoscenza”. L’idealismo di William Least Heat-Moon dipende dalla stessa materia con cui sono fatti i miti americani della frontiera, del West, della strada, del territori, degli spazi che ricrea attraverso un diario di viaggio, una moltitudine di appunti in sequenze ravvicinate e riordinati con la grazia di un romanzo. Lo spirito di Prateria è racchiuso inoltre in una (bella) citazione di Ralph Waldo Emerson: “Noi viviamo in successioni, in divisioni, in parti, in particelle”. Ed è così che nasce un modello, uno stile, una forma, un vademecum per l’osservazione, il viaggio e la lettura che è stato in un certo senso, la nemesi di Strade blu: il vero racconto delle radici. La sua ricognizione è meticolosa e le citazioni letterarie, poste in epigrafe ai singoli capitoli, sono preziose e utili per sottolineare la natura delle fonti primarie a cui attinge William Least Heat-Moon, che ne riconosce anche i limiti perché, come scrive in uno dei passaggi centrali di Prateria “le biografie, la storia, la letteratura e tutte le arti sono, ancor più dell’autobiografia, pezzetti sparsi che, accostati, danno l’illusione della completezza: ne consegue che noi conosciamo le cose solo a brandelli”. Provare a metterli insieme, è la meta di Prateria.
Jason Starr
giovedì 30 dicembre 2010
Alistair MacLeod
lunedì 27 dicembre 2010
Sam Shepard
martedì 21 dicembre 2010
Jack Kerouac
Henry Miller
lunedì 20 dicembre 2010
Raymond Carver
E’ stato il narratore blue collar per eccellenza, se non altro perché ha sempre dichiarato di essere un fan di Tom Waits e Bruce Springsteen: biglietto da visita relativo, ma sono pochi gli scrittori che confessano la passione per il rock’n’roll e Raymond Carver, tra questi, è stato quello più vicino alla poesia e alla scrittura intesa come mezzo per scoprire qualcosa in più di una bella prosa, qualche short story toccante, un modo elegante per rappresentare la vita. Già, la vita. Durante il suo ultimo discorso pubblico, il 15 maggio 1988, Raymond Carver spiegò con la consueta coincisione e chiarezza quale fosse il rapporto che intendeva tra vita e scrittura, offrendo una delle regole fondamentali (e indispensabile) per sviscerarlo: “Fate attenzione allo spirito delle vostre parole, delle vostre azioni. E’ una preparazione sufficiente. Non c’è bisogno di altre parole”. Forse è per questo che i suoi racconti sono condensati fino all’osso (anzi “al midollo”) e che più andava avanti, più somigliavano a poesie, come la stupenda Bretelle in Il nuovo sentiero per la cascata o tutto Blu oltremare e sono soltanto due tra le dozzine di esempi possibili: la sua scrittura sembra la ricerca di una luce, di una verità, con un’attenzione religiosa, ma che a tutti gli effetti è un solido, logico attaccamento alla realtà. Introducendo con Tom Jenks, American Short Story Masterpieces, diceva infatti: “Vorremmo avanzare l’ipotesi che il talento, il genio, addirittura, sia anche il dono di vedere quello che tutti hanno visto, ma vederlo in modo più chiaro, da ogni lato”. C’è tutto Raymond Carver in quest’idea di arte: né fiction, né interpretazione della realtà, ma soltanto una visione più nitida, più chiara o, soltanto, diversa. Dentro questa luce (blue) vive e resiste la miriade di personaggi sempre in lotta per la sopravvivenza, con un dramma alla porta, con vite che sembrano non risolversi mai. Non c’è traccia di consolazione, non c’è alcun happy end, non ci sono eroi memorabili: i racconti di Raymond Carver vivono e si nutrono soltanto di parole che sono l’inizio, la fine e il mezzo con cui si può salvare qualcosa. Nessuno come lui ha raccontato la vita blue collar, il linguaggio monocorde e scarno della provincia americana (come di tutte le province), i piccoli e infinitesimi drammi di uomini e donne che non sanno più cos’è quella piccola cosa chiamata amore, centellinando le parole perché “in definitiva, le parole sono tutto che abbiamo, perciò è meglio che siano quelle giuste, con la punteggiatura nei posti giusti in modo che possano dire quello che devono dire nel modo migliore”. Sarebbe da spiegare a tutti quei pseudoscrittori che si dicono posseduti dal linguaggio (neanche fosse un demonio) e riempiono pagine su pagine, romanzi su romanzi, libri su libri, di un vuoto che è, appunto, un vuoto. Dovrebbero seguire la lezione di Raymond Carver perché c’è un mondo là fuori (o qui dentro) che nel suo quotidiano tirare avanti offre una storia più bella dell’altra: “Presto dentro, presto fuori. Niente indugi. Avanti”. Indimenticabile.
venerdì 17 dicembre 2010
Jonathan Dee
mercoledì 15 dicembre 2010
Larry McMurtry
Lonnie, giovane cowboy che sta rapidamente crescendo, vede svolgersi tutta la vita e la morte e il tempo che le collega nel ranch del nonno: piccole incombenze quotidiane e grandi tragedie, a partire dallo sterminio del bestiame, si susseguono nello scenario intenso e crudele del Texas, incrociando i passi degli uomini, che non sempre vanno nel verso giusto. Una voce di Hud il selvaggio lo dice in modo più prosaico e senza usare mezzi termini: “Le cose non vanno come dovrebbero, ecco tutto. C'è tanta di quella merda in questo mondo che uno prima o poi ci finisce in mezzo per forza, che faccia attenzione o meno”. Solo un grande scrittore, un narratore con la sensibilità e il gusto per le immagini, per i dialoghi e per l'ambiente, uno storyteller che è sempre molto vicino ai suoi personaggi, come se fossero vivi, come se fossero reali, poteva immaginarsi la vita in un ranch del Panhandle, ovvero il Texas più profondo, come un sistema solare. Sostituendo i pianeti con gli uomini e le donne che ruotano attorno ad un sole effimero chiamato di volta in volta felicità, prosperità, amore, si avrà lo schema alla base dello scenario di Hud il selvaggio, romanzo d'esordio di Larry McMurtry, datato 1961, che inaugurò la fortunata carriera di uno scrittore amatissimo dal cinema (a partire da L’ultimo spettacolo, da cui Peter Bogdanovich trasse uno dei suoi film migliori). La trama è un intreccio di passioni, iniziazioni, deviazioni che Larry McMurtry annoda con un gusto certosino, quasi macchiavellico, ma che poi snocciola con una scrittura florida, ritmata piena di odori, di sapori e di tutto ciò che Lonnie, il giovane protagonista, riesce a vedere e a sentire. Comprese ovviamente le malefatte di Hud, un ribelle fuori posto, e il crepuscolo del nonno, il proprietario del ranch, che se ne va insieme a tutto il suo piccolo mondo antico. Larry McMurtry cesella una storia dentro l’altra con un linguaggio molto lineare e immediato, ma che salda dialoghi, immagini e azione in un intreccio densissimo di cui si riescono a percepire tutti i particolari solo per l'innata propensione dello scrittore texano a vedere e a mostrare, quasi che la scrittura fosse lo strumento per decifrare una visione. Un peso specifico non relativo l’hanno anche le canzoni di Hank Williams che sembrano onnipresenti nell’aria del Texas. Quando al gran ballo del villaggio, l’orchestra suona Ghost Rider In The Sky, la canzone s’intona “con tutto meglio, di qualunque altra cosa. Le poche storie che la gente sulla pista da ballo poteva raccontarsi erano già state raccontate nelle canzoni come quella, e la loro vita, e le cose che sapevano e per le quali viveavno era già descritte in quella triste, antica melodia”. Per Hud il selvaggio, qualcosa in più di un colonna sonora: un grande romanzo, invecchiato come si concede ad un vino speciale, perché ancora a distanza di più di quarant’anni Hud il selvaggio riporta in un libro sapori forti e pungenti, rimasti tutti intatti e che ormai hanno anche il gusto della rarità.
martedì 14 dicembre 2010
Neal Cassady
lunedì 13 dicembre 2010
John Cage
Se uno scrittore si misura dalla proprietà del linguaggio, dall’essenza con cui articola le idee, dal grado di creatività e di coraggio con cui si inventa uno stile, John Cage è un grande scrittore. Va da sé che in una normale biografia sarebbe conosciuto (solo) come musicista, ma Silenzio rivela un pensatore capace di alternare i piani di lettura e di influire in modo molto incisivo sulla scrittura. Lo scompaginamento, il disorientamento e le provocazioni sono continue, eppure legate tra loro da un’anedottica degna dei migliori storyteller, ma non è questo lo snodo principale, anche se molte, se non tutte, delle storie che racconta a pié di pagina sono pregevoli. E’ la coscienza di una sintesi tra le forme e la loro evoluzione che John Cage spiega con l’associazione tra grazia e chiarezza: “La grazia forma un binomio inscindibile con la chiarezza della struttura ritmica. Insieme intrattengono un rapporto simile a quello di anima e corpo. La chiarezza è fredda, matematica, disumana. La grazia è calda, incalcolabile, umana opposta alla chiarezza e simile all’aria”. Tenendo fede a questo limpido mandato, John Cage riesce a trasmettere con rara chiarezza e altrettante grazia anche idee, concetti, provocazioni piuttosto complessi, senza perdere il gusto del nonsense, degli haiku (“Possiamo volare soltanto se siamo disposti a smettere di camminare”), dell’ironia. Con tutta una sua concezione della prosa e della poesia che teorizza così: “La poesia non si differenzia dalla prosa soltanto perché è formalizzata in un modo o nell’altro. Non è poesia a causa del contenuto o per la sua ambiguità, bensì perché permette agli elementi musicali (il tempo, la sonorità) di entrare nel mondo delle parole”. Anche l’uso delle pagine, delle righe e delle colonne, della punteggiatura è uno stimolo, ed è uno stile. Sulle conferenze, i suggerimenti e le lezioni ci si può ragionare altrove (qui siamo più prosaici e meno rigorosi rispetto alle vibrazioni musicali, anche se condividiamo il suo pensiero quando dice: “La musica è edificante perché di tanto in tanto fa lavorare l’anima. L’anima è l’agglutinante di elementi disparati e il suo lavorio di riempie di pace e amore”) ma anche nelle dissertazioni più avant-garde John Cage ha tutto un suo modo di spiegare e raccontare. Superando anche i luoghi comuni della sperimentazione e delle estrapolazioni (linguistiche o musicali) perché “una persona non fa solo un esperimento, ma quanto va fatto. Con questo intendo dire che uno con le sue azioni non cerca soldi ma quanto va fatto, non cerca con le se azioni di ottenere la fama (il successo) ma quanto va fatto, non cerca il piacere dei sensi (la bellezza) ma quanto va fatto, non cerca con le sue azioni di fondare una scuola (la verità) ma quanto va fatto”. Nelle sue pagine sghembe, curiose, divertite e Silenzio racchiude l’autobiografia di un genio musicale (“Abbiamo occhi quanto orecchie, e finché siamo vivi siamo tenuti ad adoperarli”) così come di un brillante filosofo (“E’ per questo che amo la filosofia: non vince mai nessuno”) che solo un grande scrittore poteva tenere insieme.
venerdì 3 dicembre 2010
Walker Percy
giovedì 2 dicembre 2010
Victor Gischler
Nelle paludi dove i Mudcrutch si sono formati, poi sciolti e poi ricostruiti, non c’è margine di trattativa. Un ambiente suburbano fatto di locali di infima categoria, (pessimi e pericolosi) rock’n’roll show (Tom Petty, appunto, si è costruito una reputazione laggiù), quartieri anonimi, bar dove la vita si ripete all’infinito. La distanza tra Gainesville e Orlando, Florida dove modelli diversi di bande (quelle di Victor Gischler) affilano ben altra esperienza si misura in un paio di centinaia di chilometri, ma si tratta pur sempre della stessa, disperata geografia. L’humus ideale in cui Charlie Swift, protagonista della Gabbia delle scimmie, deve far fronte ad un travolgente susseguirsi di inganni, errori e altri misfatti che portano, neanche a dirlo, lui e tutti i disperati come lui a trovarsi dalla parte sbagliata di una pistola. In realtà non è nemmeno facile capire quale sia quella giusta anche se Charlie Swift detto anche il Sarto rimane fedele fino in fondo al suo boss e alla sua limitatissima visione dell’esistenza e del “lavoro”: “Ero abituato a lavorare con una certa professionalità, io. Forse per questo preferivo lavorare da solo. O forse era perché non mi piaceva la gente”. È il capitano che affonda con la nave e rimane in prima linea fino all’ultimo cadavere, sempre nella speranza che non sia il suo, ma la sua coerenza è unica e, agli occhi di tutti gli altri, anche fuori posto. La trama è spessa e contorta proprio perché tra doppi e tripli giochi, agenti infiltrati e traditori, pasticci e impiastri vari (come ricorda qualcuno: “il marcio è dappertutto”) è difficile tenere il conto, ma a tutti gli effetti non è neanche necessario. Charlie Swift deve far sparire una persona e per un veterano del suo calibro dovrebbe essere ordinaria amministrazione. Però si dimentica qualcosa, o forse è troppo tempo che fa lo stesso lavoro e la storia comincia a prendere una piega imprevedibile e piena di incognite: le armi si accendono e non si spengono più. Già dopo le prime pagine ci si trova invischiati in una lunga teoria di omicidi, sparatorie, torture, tutto il vocabolario più efferato delle gang malavitose e quindi si va giù duro con pistole e fucili sempre caldi e abbondanti, che Victor Gischler descrive e maneggia con cognizione di causa in calibri, manovre e (devastanti) effetti finali. Non si tratta di un elemento secondario perché come ama dire Charlie Swift, se c’è qualcosa di importante sono “i dettagli. Questo distingue i professionisti dai coglioni qualunque. I dettagli”. Nella Gabbia delle scimmie è difficile trovarne uno fuori posto, tanto che, più che un romanzo, sembra già un film: frulla fotogrammi di Sam Peckinpah, Martin Scorsese e Quentin Tarantino in un’ipotetica e passionale carrellata sulla storia dei gangster movie. Univoco in questo senso perché il ritmo forsennato non risparmia nessuno, inchioda il lettore alle pagine dall'inizio alla fine non concede lo spazio per altre considerazioni, nemmeno per rifiniture di stile o deviazioni di percorso. Una macchina infernale che stritola tutti i cliché e i luoghi comuni delle storie noir e/o hard boiled in una centrifuga che funziona a pura adrenalina. Come se già fosse un film.
mercoledì 1 dicembre 2010
Jim Harrison
lunedì 29 novembre 2010
Don DeLillo
Don DeLillo cominciò a lavorare ad Americana nel 1966 e continuò per quattro anni, “scagliando le parole sulle pagine”, come ha detto lo stesso autore. Pubblicato per la prima volta nel 1971 e in seguito in un'edizione rivista (e tagliata da Don DeLillo in persona di una decina di pagine) Americana è un viaggio on the road che non ha nulla da spartire né con gli storici precedenti né con le cicliche e successive imitazioni. La trama è esigua: Dave Bell è un giovane produttore televisivo con base a New York a cui la propria vita comincia a dare la nausea. Le voci di corridoio, il rumore di fondo delle feste (“Eravamo lì per incontrare gente interessante con cui chiacchierare, quindi rivederci alla fine della serata e dirci quanto ci eravamo annoiati e com'era bello ritrovarsi. E' questa l'essenza della civiltà occidentale”), le sbrigative pratiche sentimentali, il sottofondo impersonale ed insistente della televisione lo spingono a compiere “il grande balzo nelle profondità d'America”. Con pochissima olografia e senza retorica: l'umanità e il paesaggio visti da Dave Bell passano attraverso l'obiettivo della sua cinepresa portatile, nel tentativo di ricreare qualcosa di irrimediabilmente perduto. Lui e i suoi compagni di viaggio ammettono candidamente: “Non avevamo tempo per ricordare niente”, e forse anche un film può contribuire a costruirsi un bagaglio di memoria, di storia, utile a capirsi trent'anni dopo. L'interpretazione è stata suggerita dallo stesso Don DeLillo in un articolo uscito un anno dopo la pubblicazione di Americana, romanzo talmente proiettato nel futuro che ritorna costantemente nelle sue riflessioni. In un'intervista del 1993 ha provato a darne una definizione più completa: “Non è un caso che il mio primo romanzo si chiami Americana. Era una personale dichiarazione d'indipendenza, la dichiarazione ufficiale della mia intenzione di usare l’intera immagine, l’intera cultura. L’America era ed è un sogno di immigranti, e come figlio di due immigranti ero attratto dal senso di possibilità che ha trascinato i miei nonni e i miei genitori”. Per capire dove quel sogno è diventato paranoia bisogna seguire David Bell fino in fondo, nelle ultime righe, quando, così vuole la coincidenza, si sta muovendo nel centro di Dallas: un percorso destinato a diventare un enigma e un luogo da cui ha preso forma il successivo romanzo di Don DeLillo, Libra, ma questa, come si dice sempre, è tutta un'altra storia. In apparenza Dave Bell è concentrato sul suo viaggio (“Giorno dopo giorno, mi sento sempre più profondo. Spesso mi sento alle soglie di grandi rivelazioni filosofiche. Sull’uomo. La guerra. La verità. Il tempo. Per fortuna, finisco sempre per tornare a me stesso”) almeno quanto DonDeLillo, attraverso il suo protagonista, è teso a capire e spiegare una nazione spaccata tra un passato tutto da costruire e una modernità fin troppo evanescente che gli fa scrivere “l’America può essere salvata solo da ciò che cerca di distruggere” e il senso di Americana (sia il romanzo, sia, nello specifico, il termine) forse sta tutto lì.
venerdì 26 novembre 2010
Richard Yates
James Agee
Il giovane Richard, adolescente portato all’introspezione, deve misurarsi con l'intenzione di vegliare tutto il venerdì di Pasqua. Il proposito nasce anche “dalla paura e dall’orrore che gli procurava la sola idea che altri, qualunque altro al mondo, potesse conoscere le assurde fantasie del suo cuore”. Nell’atmosfera di ombre e silenzi della notte, Richard si scopre a dialogare su una linea metafisica che separa maledizione e innocenza con toni tutt’altro che infantili. “Nessuna cosa ne compensa un’altra. Confessa che tu invece lo avevi creduto. Cercò d’immaginare come confessarlo. Sono caduto nel peccato d’orgoglio e in qualche altro peccato che ignoro” dice mentre si avvia ad affrontare il crepuscolo della sua ingenuità. Una specie di atto di fede che si sviluppa in tre capitoli, durante i quali Richard diviene sempre più “consapevole del proprio fallimento e della notte”. La storia funziona benissimo (e sembra di vedere le radici più antiche di Stand by Me ) e ha un ottimo finale, ma come annota William Rewak nella postfazione, ogni paragone con Sia lode ora a uomini di fama è controproducente perché La veglia all’alba “non ha la stessa ampiezza, gli stessi tratti audaci, le stesse aspre contrapposizioni di colori, ma esteticamente è più maturo con le sue tinte tranquille, con l'uso attento delle immagini che mirano a suggerire più che a evidenziare le opposte realtà, con le sue pennellate delicate, quasi tenere, e con sua consapevole intenzione di costituire un'opera d'arte, ordinata e formale”. Molto curiose anche le reazioni che seguirono all'apparizione di un nuovo e scomodo adolescente americano, pronto a far compagni ai vari Holden o Huck Finn: qualcuno ci vide una sorta di rifiuto dell'american dream, altri un'addio all'innocenza, che non guasta mai. E' forse più probabile invece che il senso elegiaco de La veglia all’alba e quel continuo tentativo di confrontarsi con la morte siano dipesi dalle tensioni vissute da James Agee. “L'umanità in generale è ancora largamente inconsapevole della situazione in cui si è venuta a trovare. Si parla molto di come rinchiudere il nuovo mostro in una gabbia indistruttibile, ma pochi ammettono che il vero mostro è la razza umana” scriveva nel novembre 1945, e il mostro in questione è la bomba atomica che, soltanto un paio di mesi prima aveva cambiato completamente la percezione della vita e della morte. E’ anche per questo che dietro al breve e classico romanzo d'iniziazione, che suonerà un po’ strano per chi ha conosce James Agee solo attraverso Sia lode ora a uomini di fama, La veglia all’alba è anche il caso raro e atipico di uno scrittore dichiaratamente comunista e pieno di domande, come è giusto che sia (“In che modo siamo rimasti intrappolati? dove, lo sbaglio che abbiam fatto? cosa, come, dove quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo agito? se solo avessimo saputo” scriveva in Sia lode ora a uomini di fama.) che affronta un tema di fede, con tatto indiscutibile e grande lirismo.
Edward Bunker
giovedì 25 novembre 2010
James Lee Burke
È difficile invecchiare, anche per un duro come Dave Robicheaux, il personaggio di tanti romanzi di James Lee Burke che in Ti ricordi di Ira Durbin? è più crepuscolare e contradditorio che mai. È solo con il suo gatto e il suo procione e si sposa una suora. Dovrebbe avere l’età per andare in pensione, ma attira più guai di un parafulmine in una tempesta del Golfo. Sostiene che il passato è alle spalle (“Ho imparato per esperienza personale che l’età non porta molti doni, ma uno di questi è la consapevolezza che il passato è passato”) e, giusto per completare l’opera, va a riesumare la storia di Ira Durbin, una ragazza di cui si era perdutamente innamorato il fratellastro, Jimmie. Il flashback riporta tutti all’ultimo scorcio degli anni Cinquanta, “la fine di un’epoca che, credo, gli storici potrebbero considerare l’ultimo decennio dell’innocenza americana”, come scrive nell’incipit.
Dave e Jimmie sono a mollo nell’oceano e non si accorgono della tempesta e degli squali in arrivo. Una bellissima ragazza li avvicina con un’imbarcazione di fortuna e li aiuta a raggiungere alla riva. Colpo di fulmine, e dato che nei romanzi di James Lee Burke tutti vivono due o tre vite contemporaneamente, si scopre che Ira Durbin suona il mandolino (in verità avrebbe sempre desiderato una chitarra, una Martin, per la precisione, ma questa è un’altra storia) e canta straordinariamente bene, ma è anche una prostituta. L’innamoratissimo Jimmie farebbe qualsiasi cosa per lei. Le paga persino delle incisioni delle sue canzoni e le spedisce alla Sun Records, a Memphis perché “è lì che hanno cominciato Johnny Cash e Elvis Presley. Anche Jerry Lee Lewis”. La love story finisce subito in rissa perché una prostituta è un investimento redditizio e a lungo termine e due sbarbati non hanno molte possibilità di cambiare le regole del gioco e della strada. Ida Durbin sparisce nel nulla, ma ci sarà sempre il suo nome al centro di un vortice promiscuo e ambiguo in cui si intersecano gli efferati omicidi di un serial killer, i contorti legami famigliari di una casta che crede di vivere ancora gli ultimi giorni della guerra di secessione, l’intreccio sordido tra politica, informazione e inconfessabili business criminali che rende irrespirabile l’aria del bayou, di New Orleans, della Louisiana e dell’America tutta. Dave Robicheaux, per quanto confuso e disordinato (nonché seguendo le convinzioni sbagliate, le sue) se ne va contro i mulini a vento con un moralità scricchiolante, viene preso a legnate, non fa mai quello che pensa e pensa troppo a quello che ha già fatto (dei bei disastri, solitamente) ma in fondo, se proprio non aveva visto giusto fin dall’inizio, almeno è l’unico ad avere una visione d’insieme.
Niente di nuovo, si dirà: il paesaggio e i personaggi (compreso il folle socio di Dave Robicheaux, Clete Purcel, che arriva in scena con la forza di un ciclone tropicale) non sono cambiati, ma va bene così. James Lee Burke è come il tabasco: è sempre lo stesso, ma è bello saporito e in Ti ricordi di Ira Durbin? è anche molto ispirato perché, per citare una delle letture preferite di Dave Robicheaux (Sant’Agostino) “il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuito, il presente del futuro è l’aspettazione”, e tutto quello che succede in quel particolarissimo angolo d’America attorno al Delta e davanti all’Africa è sempre un viaggio nel tempo.
John Steinbeck
mercoledì 24 novembre 2010
Harry Crews
Ognuno ha i suoi santi protettori e i suoi patroni. Se gli abitanti di Mystic, Georgia hanno scelto di identificarsi con i crotali, e altri serprenti non del tutto innocui, qualche motivo ci sarà. Forse non è nemmeno importante saperlo, forse è anche meglio non saperlo perché la passione cittadina diventa un vero e proprio delirio collettivo quando, una volta all’anno, a Mystic si danno convegno tutti gli appassionati d’America (con i rettili al seguito, naturalmente). La fiera dei serpenti, ecco il perché del titolo, oltre a prevedere la caccia ai crotali, fiumi di birra e whiskey (con le relative sbronze e le altrettanto inevitabili risse), duelli tra cani e altre raffinatezze, è la migliore occasione perché i cittadini di Mystic e i loro ospiti offrano il meglio, che poi è anche il peggio, delle loro vite. Tutti insieme appartengono a un grande coro tragico che celebra la follia, gli orrori e la disperazione che aleggia su Mystic. C’è qualcosa di gotico e di “sudista” in modo palpabile nella ricostruzine della vita senza troppi orizzonti in una “smalltown” della provincia, giusto nel bel mezzo del nulla. Le parole di Harry Crews, lapidario come sempre, non lasciano dubbi sul tenore di vita a Mystic: “Per alcuni le cose cambiavano. Ma per altri no. In ogni caso, rimanevano aperte molte possibilità. Per esempio impazzire, rincorrendo l’illusione che un giorno sarebbe stato diverso”. Ogni personaggio è una storia a parte. Lo sceriffo, tanto per cominciare, è un reduce del Vietnam che ha lasciato laggiù una delle sue gambe e ha un concetto della legge e della giustizia tutto suo, soprattutto nei confronti dell’altro sesso, specie se giovane e di colore. Joe Lon Mackey che dovrebbe essere il protagonista della Fiera dei serpenti (il condizionale è d’obbligo perché l’insieme dei volti è una massa deforme che sembra muoversi all’unisono) alleva crotali (sono un’ossessione, in questo romanzo), smercia whiskey illegale a tutte le ore e coltiva un buco nero nella sua anima perché è marito e padre senza riuscire a essere né l’uno né l’altro. Essendo anche il figlio di un allevatore di cani da duello abituato ad ammazzarli a calci se non vincono (dopo averli cresciuti con un particolare gusto sadico), il quadro famigliare dovrebbe essere completo, e va detto che loro non sono nemmeno i peggiori, tra gli abitanti di Mystic. Quando si entra nel vivo della festa, con bestie che strisciano ovunque, gran rumore di “rattlesnake” e un’alluvione di alcool che sfocia in un generale delirio, l’affresco di Harry Crews si completa e diventa una cruda, spietata e nello stesso tempo imponente rappresentazione delle miserie umane. Si capisce fin da qui che La fiera dei serpenti non è un romanzo accomodante e come Harry Crews fugge qualsiasi accento consolatorio: è eccessivo, rocambolesco e tagliente. Punta all’abisso e, con un ritmo travolgente e una precisione martellante, arriva a toccare il fondo. Dove i crotali, al confronto delle tragedie umane, non fanno più nemmeno paura.