martedì 14 dicembre 2010

Neal Cassady

Nella sua vita errante e apparentemente inconcludente, Neal Cassady ha ribaltato il concetto di eroe americano. Con lui, costantemente nascosto tra le pieghe di romanzi, poesie e vite altrui (a partire da Jack Kerouac), l’eroe non è chi persegue uno scopo, quale che esso sia, fronteggiando tutte le difficoltà a testa alta fino ad arrivare alla fine. E’ piuttosto chi sceglie di vivere la vita, di seguirla negli anfratti più strani, per scoprirla e per scoprirsi in luoghi impensabili, come racconta uno dei passaggi migliori dei vagabondi: “Ero tutto preso nel leggere le lunghe colonne che elencavano città e stati, nel confrontare la loro posizione geografica sulla grossa mappa, e in modo particolare mi interrogavo sui diversi cognomi e la loro origine: i destini di quegli uomini mi erano tutti sconosciuti e sognando a occhi aperti la diversità delle sorti possibili per la prima volta mi sorpresi della vita”. Composto, più che scritto, tra il 1948 e il 1954, I vagabondi racconta l’inseguimento di una libertà assoluta che è prima linguistica e letteraria e poi esistenziale, e non il contrario. Perché Neal Cassady, “rapirto dalle parole e dai pensieri”, gioca con le frasi, le immagini, i resoconti giornalieri del suo diario, le lettere agli amici (lo stesso Kerouac e Ken Kesey), con la scrittura vera e propria nello stesso modo in cui amava guidare: senza mai toccare i freni. Ha assolutamente ragione Lawrence Ferlinghetti a definirla “una saga americana”, termine che con ogni probabilità non comprende soltanto l’autobiografia e il romanzo, ma la vita reale di Neal Cassady, nato in viaggio, innamorato mille volte, sposato tre, tentato suicida molte altre di più, fino a quando non ce l’ha fatta. Era già oltre il confine in Messico, nel 1968, quando Allen Ginsberg lo salutava così: “O.K., Neal, spirito etereo, lucente come l'aria che muove azzurro, come alba di città, felice come la luce, emanato dal giorno, sulle nuove case della città”. E’ proprio ad Allen Ginsberg che Neal Cassady confessa nell’autunno del 1963 la sua vera vocazione, la velocità: “Be’, mettiamolo nero su bianco. Voglio ancora fare il corridore automobilistico. Non è una cosa simbolica di questo secolo e dell’altro?”, e la domanda nella sua espressione retorica è fondamentale. Contiene il soffio vitale di Neal Cassady, declamato “in modo molto sicuro, del tutto soggettivo, personale” perché poteva essere soltanto così, usando le pagine dei suoi diari e le lettere all’amico e alter ego Jack Kerouac per dare forma ad na convulsione in prosa che sembra non avere fine, un rito che toglie il fiato, come se fosse un assolo di Coleman Hawkins. Alla velocità serviva spazio e quindi la strada, il viaggio, i treni presi al volo, gli autobus e un cielo che sembra inseguirlo ovunque mentre cerca la sua folle beatitudine: con I vagabondi si rende giustamente omaggio ad un outisider della letteratura americana che però ha lasciato tracce indelebili di quel sogno che continuiamo a chiamare Beat Generation. 

1 commento:

  1. e c'e qualcuno che me lo può vendere 'sto libro?
    (se si contattatemi matteo_m@hotmail.it)

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