Don DeLillo cominciò a lavorare ad Americana nel 1966 e continuò per quattro anni, “scagliando le parole sulle pagine”, come ha detto lo stesso autore. Pubblicato per la prima volta nel 1971 e in seguito in un'edizione rivista (e tagliata da Don DeLillo in persona di una decina di pagine) Americana è un viaggio on the road che non ha nulla da spartire né con gli storici precedenti né con le cicliche e successive imitazioni. La trama è esigua: Dave Bell è un giovane produttore televisivo con base a New York a cui la propria vita comincia a dare la nausea. Le voci di corridoio, il rumore di fondo delle feste (“Eravamo lì per incontrare gente interessante con cui chiacchierare, quindi rivederci alla fine della serata e dirci quanto ci eravamo annoiati e com'era bello ritrovarsi. E' questa l'essenza della civiltà occidentale”), le sbrigative pratiche sentimentali, il sottofondo impersonale ed insistente della televisione lo spingono a compiere “il grande balzo nelle profondità d'America”. Con pochissima olografia e senza retorica: l'umanità e il paesaggio visti da Dave Bell passano attraverso l'obiettivo della sua cinepresa portatile, nel tentativo di ricreare qualcosa di irrimediabilmente perduto. Lui e i suoi compagni di viaggio ammettono candidamente: “Non avevamo tempo per ricordare niente”, e forse anche un film può contribuire a costruirsi un bagaglio di memoria, di storia, utile a capirsi trent'anni dopo. L'interpretazione è stata suggerita dallo stesso Don DeLillo in un articolo uscito un anno dopo la pubblicazione di Americana, romanzo talmente proiettato nel futuro che ritorna costantemente nelle sue riflessioni. In un'intervista del 1993 ha provato a darne una definizione più completa: “Non è un caso che il mio primo romanzo si chiami Americana. Era una personale dichiarazione d'indipendenza, la dichiarazione ufficiale della mia intenzione di usare l’intera immagine, l’intera cultura. L’America era ed è un sogno di immigranti, e come figlio di due immigranti ero attratto dal senso di possibilità che ha trascinato i miei nonni e i miei genitori”. Per capire dove quel sogno è diventato paranoia bisogna seguire David Bell fino in fondo, nelle ultime righe, quando, così vuole la coincidenza, si sta muovendo nel centro di Dallas: un percorso destinato a diventare un enigma e un luogo da cui ha preso forma il successivo romanzo di Don DeLillo, Libra, ma questa, come si dice sempre, è tutta un'altra storia. In apparenza Dave Bell è concentrato sul suo viaggio (“Giorno dopo giorno, mi sento sempre più profondo. Spesso mi sento alle soglie di grandi rivelazioni filosofiche. Sull’uomo. La guerra. La verità. Il tempo. Per fortuna, finisco sempre per tornare a me stesso”) almeno quanto DonDeLillo, attraverso il suo protagonista, è teso a capire e spiegare una nazione spaccata tra un passato tutto da costruire e una modernità fin troppo evanescente che gli fa scrivere “l’America può essere salvata solo da ciò che cerca di distruggere” e il senso di Americana (sia il romanzo, sia, nello specifico, il termine) forse sta tutto lì.
lunedì 29 novembre 2010
Don DeLillo
venerdì 26 novembre 2010
Richard Yates
James Agee
Il giovane Richard, adolescente portato all’introspezione, deve misurarsi con l'intenzione di vegliare tutto il venerdì di Pasqua. Il proposito nasce anche “dalla paura e dall’orrore che gli procurava la sola idea che altri, qualunque altro al mondo, potesse conoscere le assurde fantasie del suo cuore”. Nell’atmosfera di ombre e silenzi della notte, Richard si scopre a dialogare su una linea metafisica che separa maledizione e innocenza con toni tutt’altro che infantili. “Nessuna cosa ne compensa un’altra. Confessa che tu invece lo avevi creduto. Cercò d’immaginare come confessarlo. Sono caduto nel peccato d’orgoglio e in qualche altro peccato che ignoro” dice mentre si avvia ad affrontare il crepuscolo della sua ingenuità. Una specie di atto di fede che si sviluppa in tre capitoli, durante i quali Richard diviene sempre più “consapevole del proprio fallimento e della notte”. La storia funziona benissimo (e sembra di vedere le radici più antiche di Stand by Me ) e ha un ottimo finale, ma come annota William Rewak nella postfazione, ogni paragone con Sia lode ora a uomini di fama è controproducente perché La veglia all’alba “non ha la stessa ampiezza, gli stessi tratti audaci, le stesse aspre contrapposizioni di colori, ma esteticamente è più maturo con le sue tinte tranquille, con l'uso attento delle immagini che mirano a suggerire più che a evidenziare le opposte realtà, con le sue pennellate delicate, quasi tenere, e con sua consapevole intenzione di costituire un'opera d'arte, ordinata e formale”. Molto curiose anche le reazioni che seguirono all'apparizione di un nuovo e scomodo adolescente americano, pronto a far compagni ai vari Holden o Huck Finn: qualcuno ci vide una sorta di rifiuto dell'american dream, altri un'addio all'innocenza, che non guasta mai. E' forse più probabile invece che il senso elegiaco de La veglia all’alba e quel continuo tentativo di confrontarsi con la morte siano dipesi dalle tensioni vissute da James Agee. “L'umanità in generale è ancora largamente inconsapevole della situazione in cui si è venuta a trovare. Si parla molto di come rinchiudere il nuovo mostro in una gabbia indistruttibile, ma pochi ammettono che il vero mostro è la razza umana” scriveva nel novembre 1945, e il mostro in questione è la bomba atomica che, soltanto un paio di mesi prima aveva cambiato completamente la percezione della vita e della morte. E’ anche per questo che dietro al breve e classico romanzo d'iniziazione, che suonerà un po’ strano per chi ha conosce James Agee solo attraverso Sia lode ora a uomini di fama, La veglia all’alba è anche il caso raro e atipico di uno scrittore dichiaratamente comunista e pieno di domande, come è giusto che sia (“In che modo siamo rimasti intrappolati? dove, lo sbaglio che abbiam fatto? cosa, come, dove quando, in che modo, tutte queste cose avrebbero potuto essere diverse, se solo avessimo agito? se solo avessimo saputo” scriveva in Sia lode ora a uomini di fama.) che affronta un tema di fede, con tatto indiscutibile e grande lirismo.
Edward Bunker
giovedì 25 novembre 2010
James Lee Burke
È difficile invecchiare, anche per un duro come Dave Robicheaux, il personaggio di tanti romanzi di James Lee Burke che in Ti ricordi di Ira Durbin? è più crepuscolare e contradditorio che mai. È solo con il suo gatto e il suo procione e si sposa una suora. Dovrebbe avere l’età per andare in pensione, ma attira più guai di un parafulmine in una tempesta del Golfo. Sostiene che il passato è alle spalle (“Ho imparato per esperienza personale che l’età non porta molti doni, ma uno di questi è la consapevolezza che il passato è passato”) e, giusto per completare l’opera, va a riesumare la storia di Ira Durbin, una ragazza di cui si era perdutamente innamorato il fratellastro, Jimmie. Il flashback riporta tutti all’ultimo scorcio degli anni Cinquanta, “la fine di un’epoca che, credo, gli storici potrebbero considerare l’ultimo decennio dell’innocenza americana”, come scrive nell’incipit.
Dave e Jimmie sono a mollo nell’oceano e non si accorgono della tempesta e degli squali in arrivo. Una bellissima ragazza li avvicina con un’imbarcazione di fortuna e li aiuta a raggiungere alla riva. Colpo di fulmine, e dato che nei romanzi di James Lee Burke tutti vivono due o tre vite contemporaneamente, si scopre che Ira Durbin suona il mandolino (in verità avrebbe sempre desiderato una chitarra, una Martin, per la precisione, ma questa è un’altra storia) e canta straordinariamente bene, ma è anche una prostituta. L’innamoratissimo Jimmie farebbe qualsiasi cosa per lei. Le paga persino delle incisioni delle sue canzoni e le spedisce alla Sun Records, a Memphis perché “è lì che hanno cominciato Johnny Cash e Elvis Presley. Anche Jerry Lee Lewis”. La love story finisce subito in rissa perché una prostituta è un investimento redditizio e a lungo termine e due sbarbati non hanno molte possibilità di cambiare le regole del gioco e della strada. Ida Durbin sparisce nel nulla, ma ci sarà sempre il suo nome al centro di un vortice promiscuo e ambiguo in cui si intersecano gli efferati omicidi di un serial killer, i contorti legami famigliari di una casta che crede di vivere ancora gli ultimi giorni della guerra di secessione, l’intreccio sordido tra politica, informazione e inconfessabili business criminali che rende irrespirabile l’aria del bayou, di New Orleans, della Louisiana e dell’America tutta. Dave Robicheaux, per quanto confuso e disordinato (nonché seguendo le convinzioni sbagliate, le sue) se ne va contro i mulini a vento con un moralità scricchiolante, viene preso a legnate, non fa mai quello che pensa e pensa troppo a quello che ha già fatto (dei bei disastri, solitamente) ma in fondo, se proprio non aveva visto giusto fin dall’inizio, almeno è l’unico ad avere una visione d’insieme.
Niente di nuovo, si dirà: il paesaggio e i personaggi (compreso il folle socio di Dave Robicheaux, Clete Purcel, che arriva in scena con la forza di un ciclone tropicale) non sono cambiati, ma va bene così. James Lee Burke è come il tabasco: è sempre lo stesso, ma è bello saporito e in Ti ricordi di Ira Durbin? è anche molto ispirato perché, per citare una delle letture preferite di Dave Robicheaux (Sant’Agostino) “il presente del passato è la memoria, il presente del presente è l’intuito, il presente del futuro è l’aspettazione”, e tutto quello che succede in quel particolarissimo angolo d’America attorno al Delta e davanti all’Africa è sempre un viaggio nel tempo.
John Steinbeck
mercoledì 24 novembre 2010
Harry Crews
Ognuno ha i suoi santi protettori e i suoi patroni. Se gli abitanti di Mystic, Georgia hanno scelto di identificarsi con i crotali, e altri serprenti non del tutto innocui, qualche motivo ci sarà. Forse non è nemmeno importante saperlo, forse è anche meglio non saperlo perché la passione cittadina diventa un vero e proprio delirio collettivo quando, una volta all’anno, a Mystic si danno convegno tutti gli appassionati d’America (con i rettili al seguito, naturalmente). La fiera dei serpenti, ecco il perché del titolo, oltre a prevedere la caccia ai crotali, fiumi di birra e whiskey (con le relative sbronze e le altrettanto inevitabili risse), duelli tra cani e altre raffinatezze, è la migliore occasione perché i cittadini di Mystic e i loro ospiti offrano il meglio, che poi è anche il peggio, delle loro vite. Tutti insieme appartengono a un grande coro tragico che celebra la follia, gli orrori e la disperazione che aleggia su Mystic. C’è qualcosa di gotico e di “sudista” in modo palpabile nella ricostruzine della vita senza troppi orizzonti in una “smalltown” della provincia, giusto nel bel mezzo del nulla. Le parole di Harry Crews, lapidario come sempre, non lasciano dubbi sul tenore di vita a Mystic: “Per alcuni le cose cambiavano. Ma per altri no. In ogni caso, rimanevano aperte molte possibilità. Per esempio impazzire, rincorrendo l’illusione che un giorno sarebbe stato diverso”. Ogni personaggio è una storia a parte. Lo sceriffo, tanto per cominciare, è un reduce del Vietnam che ha lasciato laggiù una delle sue gambe e ha un concetto della legge e della giustizia tutto suo, soprattutto nei confronti dell’altro sesso, specie se giovane e di colore. Joe Lon Mackey che dovrebbe essere il protagonista della Fiera dei serpenti (il condizionale è d’obbligo perché l’insieme dei volti è una massa deforme che sembra muoversi all’unisono) alleva crotali (sono un’ossessione, in questo romanzo), smercia whiskey illegale a tutte le ore e coltiva un buco nero nella sua anima perché è marito e padre senza riuscire a essere né l’uno né l’altro. Essendo anche il figlio di un allevatore di cani da duello abituato ad ammazzarli a calci se non vincono (dopo averli cresciuti con un particolare gusto sadico), il quadro famigliare dovrebbe essere completo, e va detto che loro non sono nemmeno i peggiori, tra gli abitanti di Mystic. Quando si entra nel vivo della festa, con bestie che strisciano ovunque, gran rumore di “rattlesnake” e un’alluvione di alcool che sfocia in un generale delirio, l’affresco di Harry Crews si completa e diventa una cruda, spietata e nello stesso tempo imponente rappresentazione delle miserie umane. Si capisce fin da qui che La fiera dei serpenti non è un romanzo accomodante e come Harry Crews fugge qualsiasi accento consolatorio: è eccessivo, rocambolesco e tagliente. Punta all’abisso e, con un ritmo travolgente e una precisione martellante, arriva a toccare il fondo. Dove i crotali, al confronto delle tragedie umane, non fanno più nemmeno paura.
Thomas McGuane
James Reasoner
Una ragazza scompare nell’arida aria del Texas. Si chiama Mandy, è ricca (di famiglia), canta (in un trio) e l’ultima volta che è stata vista era in compagnia del chitarrista (ma non del suo fidanzato). Le triangolazioni non finiscono qui perché l’incarico per ritrovarla viene affidato a Cody, un private eye solido e disilluso con la passione per l’arte e per i dubbi che se la cava con una visione filosofica tutta sua: “La maggior parte degli investigatori privati, me incluso, spendono più tempo aspettando che facendo qualunque altra cosa. E’ la parte principale del lavoro, e non può essere evitata. Ma non ci si abitua mai. Il tempo trascorso nell’attesa passa lentamente come quando eri bambino e non riuscivi a capire perché per tutto quello che facevano gli adulti ci voleva così tanto”. Mentre il “vento del Texas” sfoglia le pagine di una storia che, si intuisce fin dalle prime battute, è chiusa su se stessa (per quanto ci proviamo a considerarli estranei, forse nel tentativo di autodifenderci, i mostri e le mostruosità sono sempre più vicini), con il suo quotidiano tran tran e pur sconfitto a più riprese dalle evidenze Cody riesce ancora a suggerire una scintilla di salvezza e/o di giustizia. Anche nel duro Texas che, parole sue, una volta “era un bel posto dove vivere, prima che cercasse di diventare un’altra California o un’altra New York. Adesso basta l’ultima novità o trovata di moda e tirano fuori i longhorn di cartapesta. Forse è più furbo, ma di certo così è molto meno reale”. James Reasoner scrive un noir asciutto, essenziale, dove conta moltissimo il silenzio, lo spazio tra una parola e l’altra, l’insinuazione di un dubbio, un’ombra, un linea oscura. L’azione è limitata (in sostanza comprende un pestaggio e l’inevitabile resa dei conti finale, fine dello spettacolo) e lo svolgimento è insolito perché la trama cresce attraverso la natura delle supposizioni e delle ipotesi di Cody, un detective che davanti a un caso senza indizi o moventi apparenti deve frugare nel nulla o nel “vento del Texas” affidandosi più all’intuito che all’intelligenza. E’ un detective abbastanza originale perché pur essendo coinvolto notte e giorno nelle ricerche di Mandy non trascura la sua vita privata che si divide nella fattispecie tra la passione per i tratti pittorici di Frederic Remington e la crescente love story che s’insinua parallela al principale flusso noir del romanzo. Sarà anche per questo che Cody è un investigatore che si ritrova nel cuore dell’azione senza volerlo: il più delle volte collega soltanto piccoli punti, mette sul piatto un sacco di domande, si segna nomi e passaggi e anche se riesce a vedere e a sentire nello spazio tra bianco e nero, sembra assistere agli eventi come un testimone qualsiasi e inconsapevole deus ex machina. Almeno fino al decisivo showdown, quando il quadro è completo e pronto a staccarsi dalla cornice. Alla storia manca solo un dettaglio, visto che, private eye innamorato a parte, i protagonisti sono tre musicisti: non si capisce qual è il loro repertorio. Essendo pure texani (quindi con un’ampia, a dir poco, possibilità di scelta) il particolare sarebbe stato molto a utile (tanto a Cody quanto a noi lettori).
venerdì 19 novembre 2010
Annie Proulx
mercoledì 17 novembre 2010
Nick Tosches
La ricostruzione di una figura come quella di Michele Sindona è un esercizio che mette a dura prova l’equilibrio del narratore e anche quello del lettore. Il travaso da una realtà misteriosa a una biografia tutto sommato lineare è un’impresa perché di lineare nella vita di Sindona non c’è stato nulla. La sfida, che insieme era giornalistica e narrativa, non riguardava tanto le rivelazioni, le indiscrezioni, le omissioni di un uomo che per un quarto di secolo ha avuto nelle mani una ragnatela economica e finanziaria in grado di influenzare le decisioni di un’ampia percentuale della civiltà occidentale. Non che Nick Tosches, pur con tutte le precauzioni che usa, sia inconsapevole di chi ha davanti e basta sapere leggere un minimo (ma davvero un minimo) tra le righe per comprendere la collocazione storica, politica e umana di Michele Sindona e snocciolarsi una propria verità. Lo stesso banchiere siciliano, ormai incarcerato a Voghera, nel confessarsi a Nick Tosches è lapidario: “Ho comprato e venduto la mia parte di mondo”, e la sua autobiografia in nove parole suona come l’ammissione di colpevolezza di chi ha messo gli affari sopra e davanti a tutto. Per cui inchieste, processi, legami pericolosi, omicidi (compreso il suo) sono una congrua parte della storia, ma il nodo che affronta Nick Tosches è un altro ed è un nodo narrativo, ovvero far sentire la voce del personaggio e, in questo caso, del vero e proprio protagonista. Un’arma a doppio taglio visto che a parlare è un uomo che ormi ha perso tutto il potere e teme, essendo rinchiuso in una cella, di non potersi più difendere. “Ciò che era cominciato nelle tenebre, nelle tenebre finiva” e il “mistero” è tutto lì: nel raccontare una storia che non è per niente simmetrica e che ha molti spigoli, primo fra tutti perché è vera cercando di rendere credibile la voce di un uomo che ormai è ex. Quando Michele Sindona, ormai travolto dai suoi nemici all’interno dell’establishment, si accorge di essere stato abbandonato dai suoi amici e clienti di sempre, reagisce con questi toni: “Così in definitiva, scoprii quanto valeva essere un buon cristiano. Ora so che la potenza del Vaticano risiede nei tempi lunghissimi coi quali opera. Noi moriamo, quello no. Una vita è nulla in confronto ai secoli che sono il lento battito del polso del Vaticano. Condannano Galileo e poi ne fanno ancora il processo 300 anni dopo”. Nick Tosches lo segue sul terreno degli studi classici, rendendo drammatica una storia che aveva in sé i tratti dell’epica e svelandone senza reticente il fragile lato umano: “E’ di nuovo Macchiavelli a dire che gli uomini vi feriscono o perché vi temono o perché vi odiano. Come ticchettio di pioggia primaverile su oro cesellato, la chiara, semplice, meravigliosa verità di queste parole riecheggiava nelle mille e mille notti di prigione di Michele Sindona. Anche il giovane che aveva conseguito la laurea con una dissertazione su Il principe era diventato un principe del potere mondiale; ma anche quella semplice verità come pioggia su oro era stata oscurata da ben altri temporali”. La parola fine è (appena) sufficiente alla storia. Cala il sipario, restano molte ombre.
martedì 9 novembre 2010
Bob Dylan
Un mosaico di stati di allucinazione connessi e sconnessi tra loro in perfetta simbiosi con le radici e i collegamenti sotterranei e le amicizie di Bob Dylan con e per la Beat Generation. Un lungo e intricato monologo, frutto di un personalissimo flusso di coscienza come della scrittura dell’uomo “della strada”, che usa le parole dei menù, delle insegne, dei titoli, dei cartelli stradali e dei suoi stralunati appunti per giocare con il linguaggio, per inventarne uno nuovo. Tarantula va preso per quello che era ed è ancora: un esperimento, l’alchimia impossibile di una forma in via di evoluzione, un’onda irregolare, un segmento relativo in un contesto, la storia di Dylan, dove nulla è relativo. Per la sua contorta realtà, Tarantula rende bene lo spirito e le logiche di un’epoca in cui la creatività aveva una valenza assoluta, persino politica ed è un fenomeno misterioso perché è denso di una passione per il linguaggio e per le idee che il linguaggio esprime che si fa musica, ma come ben sappiamo “il mondo è gestito da coloro che non ascoltano mai musica”, e allora meglio confinare certi exploit nelle riserve dell’ignoto, dell’eccentrico e del bizzarro, se non proprio del freak. Dylan che qui interpreta Dylan & Dylan & Dylan procede senza esitazioni con le sue “associazioni da drogato” (così nell’affettuosa definizione di Fernanda Pivano) con l’ingenuo entusiamo di uno che si è “svegliato con la fissa della libertà in testa”. Più che una trama, per comprendere a fondo Tarantula serve la cassetta del pronto soccorso di William Burroughs perché è con una sorta di evoluzione del “cut & fold-in” che Dylan tiene insieme illusioni (“Mi piacerebbe fare qualcosa che valga la pena, come ad esempio piantare un albero in mezzo all’oceano ma sono soltanto un chitarrista”), precisazioni (“Io qui presente non voglio aver niente a che fare con le tue fissazioni. Non m’importa quel che pensi del mio lavoro dato che ora so che comunque non lo capisci”), ossessioni (“Se hai intenzione di mandarmi qualcosa, mandami una chiave, troverò la porta in cui entrare, dovessi provarci vita natural durante”). Tarantula sembra fatto apposta per sviare, distorcere, confondere e provocare, ma nella sua folle autonomia riesce a indirizzare un paio di messaggi che, anche a distanza di mezzo secolo, suonano logici e lucidi. Il primo è una “risposta che soffia nel vento” piuttosto convincente e senza controindicazioni: “Non farti le tue idee, quelle ce le hanno tutti, fa’ che siano le idee a farti e parla con melodia”. Il secondo è una linea di demarcazione netta perché, diceva Dylan, non ho niente da “prendere da voi tranne che una coscienza sporca”, e tanto basta. Tarantula non è solo una grande apologia della Beat Generation, è un mosaico folle & intenso di voci, una cacofonia che diventa orchestra. E’ un’accozzaglia di esortazioni & ritagli & epitaffi & scongiuri, una forma che non è poesia e nemmeno prosa, non è nemmeno una forma, in fondo perché Tarantula “ti costringe a imparare cose che non hanno niente a che fare col mondo esterno e poi ti butta fuori a calci”. Ancora meglio dell’anarchia, è la bellezza del caos.
venerdì 5 novembre 2010
James Lee Burke
Sam Shepard
E' difficile, se non proprio impossibile, decifrare cosa sia quel paradiso che evoca il titolo di questa raccolta di racconti di Sam Shepard. Sembra un posto dove “tanto per incominciare, non c'era nessuna città” e dove tutto, più o meno, è stato abbandonato al proprio destino. Un paesaggio desertico, bucolico che strani personaggi, uomini e donne, attraversano quasi per inerzia: gli basta pochissimo, un niente, per dare, fosse solo per un'ultima volta, un senso alle proprie vite. Una notte d’amore in albergo, una canzone di rock’n’roll, un cane randagio, un materasso buttato in una discarica, un gallo da combattimento, un pugno di serpenti intagliati nel legno, una vecchia leggenda messicana: l'inventario potrebbe continuare lungo tutti i quaranta racconti di Attraverso il paradiso perché cominciano e finiscono proprio con questi minuscoli dettagli o frammenti di dialoghi lasciati a metà o lettere mai spedite o rimaste senza risposta. Visti tutti insieme sembrano relitti di un naufragio di cui Sam Shepard, con David Mamet il più grande drammaturgo contemporaneo americano, è testimone consapevole e osservatore minuzioso. Per certi versi si ritorna, ed è inevitabile, alle atmosfere di Motel Chronicles, ma ci sono luoghi e situazioni che rimandano ancora a Paris, Texas o alle tante sceneggiature di Sam Shepard. Con un taglio finale più personale e probabilmente autobiografico quando racconta del set cinematografico in Messico: è facile immaginare nel regista tedesco un Wim Wenders ed è altrettanto naturale scivolare nella lettura di Colorado non è un vigliacco, uno dei racconti più belli (e anche divertente) di Attraverso il paradiso. Conferma, dove ce ne fosse bisogno, del talento narrativo di Sam Shepard anche per via di: 1) Nuevo Mundo, perché è un bellissimo racconto che sembra uscire dalla penna di Cormac McCarthy; 2) La natura alla natura, che ricorda i ragazzi di Stand By Me cresciuti abbastanza da impegnarsi in una rock’n’roll band, ma non ancora capaci di stare lontano dai guai; 3) Spencer Tracy non è Morto vista l'esilarante (per chi legge) situazione on the road dove il protagonista principale potrebbe benissimo essere Hunter S. Thompson; 4) Omaggio a Céline, e non c'è bisogno di spiegare perché; 5) Emergenze più urgenti, un esercizio di scrittura in puro stile Raymond Carver; 6) Un gruppetto di amici, un racconto che non sfigurerebbe una volta incastrato in Solo un cielo blu di Thomas McGuane. Sarà un caso, ma i nomi che Attraverso il paradiso ricorda appartengono a scrittori americani che non vanno molto per il sottile quando devono raccontare il proprio paese. Forse è proprio quello, l'America, il paradiso che non c'è e che i personaggi di Sam Shepard cercano di attraversare indenni ascoltando o sognando Elvis, Frank Sinatra, Willie Nelson, Merle Haggard, i Kinks o Duke Ellington. O forse quel “paradiso” è solo una menzogna della mente, un'immagine sullo sfondo, il ricordo di un sogno, ma con Sam Shepard è facile credere che sia tutto vero.