Dal jukebox di una Notte al neon arriva la voce di Johnny Cash, un fantasma, uno dei tanti, e non sapresti dire se sono brutti sogni o ricordi. La distinzione è esile: le luci bluastre introducono in una dimensione parallela, dove l’imprevisto genera una condizione di inquietudine, paura, morte. È così fin da Deviazione, un racconto kafkiano dove un’innocua variazione della viabilità porta la protagonista, Abigail, ad addentrarsi in un incubo molto simile alla realtà. La cifra condivisa dai racconti di Notte al neon è proprio quella, sottolineata da connessioni casuali, o forse no, proprio calcolate: l’auto fuori strada in Deviazione si ritrova con Il flagellante che a sua volta si attiene alle stesse pieghe giudiziarie di Udienza per la libertà condizionata, California Institution for Women, Chino, California, un monologo che evoca ancora il fantasma di Charlie Manson. Nello stesso modo, le dipendenze dal fumo in Sigaretta elettronica e dall’alcol in Notte al neon sono la cornice degli incontri tra sconosciuti, ai margini della ghost town americane. Singoli dettagli riportano ai romanzi di Joyce Carol Oates, come il punteruolo da ghiaccio in Perché sono uomini che si rivede in Notte al neon, o nel caso più eclatante, “la bionda esplosiva che è anche la ragazza della porta accanto” al centro di Miss Golden Dreams 1949 e scampolo di un’ossessione a cui Joyce Carol Oates ha dedicato il voluminoso Blonde. La figura di Marilyn Monroe alias Norma Jean Baker è simbolo in sé dell’ambiguità del rapporto tra le vittime (donne) e i carnefici. L’obiettivo il più delle volte è il corpo femminile, quasi un’invidia per la bellezza, e il sesso è sbagliato, che sia consumato o meno resta in definitiva, inutile, o uno strumento per arrivare a qualcosa che non è né amore né felicità. L’elemento di disagio è costante, pervasivo, feroce e Joyce Carol Oates non fa niente per mitigarlo: destini terribili attendono le donne nelle decadenti città del Midwest ma come scrive in Voglia: “Ciò che viene definito caso magari è solo l’ignoto. Non si conoscono le connessioni tra le cose, proprio come una mosca intrappolata nella tela di un ragno non ha idea di dove sia finita. Per la mosca si tratta di caso. Per il ragno, di destino”. Una sensazione di continua allerta, snervante, a tratti insostenibile. Neanche le buone intenzioni di N, lo scrittore di successo protagonista di Curiosità (“Nessuna emozione mi coinvolge, a parte fossili di sensazioni vive, trasformate in linguaggio e, attraverso il linguaggio, in testi”) riescono a trovare uno sbocco. I rapporti tra uomo e donna restano monchi, tesi, fragili e comunque il risultato di una sottrazione più che di una somma. La scrittura di Joyce Carol Oates (resa alla perfezione nell’interpretazione di Claudia Durastanti) è una sfida continua, uno scintillante piano sequenza ininterrotto, continuo, martellante a dispetto dei tempi e delle modalità narrative. Passa con disinvoltura tra prima, seconda e terza persona (ce ne fossero altre, avrebbe usato anche quelle) dando voce a personaggi che fanno la cosa sbagliata dopo aver pensato a lungo a quella giusta (come il protagonista di Curiosità), ma alla fine è difficile anche una rudimentale cernita. Joyce Carol Oates è risoluta e tagliente, non concede nulla, nemmeno al lettore, che si trova davanti al fatto compiuto, a pensieri descritti fin nelle minuzie, a emozioni elencate una dopo l’altra con maniacale concentrazione. È così che i racconti di Notte al neon toccano corde sommerse e sensibili, emanando una scossa elettrica, conditi per contrasto dai continui richiami alla pittura, alla letteratura (in Intimità), alla musica come corollari che tendono a ricordare che “la vita non è estetica come l’arte”. Un discorso a parte merita il racconto o meglio l’embrione ormai sviluppato di un romanzo da cui prende il titolo la raccolta: le vicissitudini di Juliana con gli esseri subumani (maschi, particolarmente odiosi) con cui si incontra nei bar e poi con l’alcolismo, lasciano attoniti. La situazione è promiscua e snervante e Joyce Carol Oates non si lascia sfuggire l’occasione per celebrarla con una battuta singolare: “L’atmosfera era festosa come un ponte pericolante”. Livello superiore.
venerdì 23 dicembre 2022
lunedì 19 dicembre 2022
David Hajdu
Quando sale sul palco del Newport Folk Festival, la sera di venerdì 26 luglio 1963, Dylan è il rappresentante più giovane e in vista dell’intreccio tra il revival della musica tradizionale americana e il movimento dei diritti civili e, più in generale, di una rinnovata consapevolezza sociale e politica. Dylan è a Newport con Joan Baez e condividerà con la serata conclusiva, un momento simbolico che uno dei fondatori del festival, Theodore Bikel seppe cogliere in tutto il suo significato, così come lo riporta David Hajdu: “Non ci fu mai più un punto così intriso di speranza per il futuro”. In due anni, sarebbe cambiato tutto, a partire da Dylan, che in quel momento era parte di “quattro ragazzi” che stavano cambiando la musica, e il mondo. All’inizio tutto ruota intorno alle sorelle Baez. Entrambe vedono la luce a un concerto di Pete Seeger e scoprono la passione per il folk che è il leitmotiv di Positively 4th Street. Attorno a loro e su ambedue le coste americane, David Hajdu sa ricostruire il milieu in cui prolifera il revival, a partire dal Village e dalle sue coffee house, spesso locali di pochi metri quadrati destinati a diventare luoghi leggendari. Tra le tante testimoniane raccolte da David Hajdu, merita di essere ascoltata quella di Tom Rush: “Uscivamo, trovavamo questi vecchi dischi e li mettevamo, le chitarre sembravano scordate, le parole non si capivano. Ma era più potente di qualsiasi altra cosa che potevi sentire in giro”. L’arrivo di Richard Fariña, scrittore (compagno di università e di complotti di Thomas Pynchon), poeta, fomentatore di feste e guai, e sposo precoce della cantautrice Carolyn Hester prima e di Mimi Baez poi completa il quadro della doppia coppia (compresi Dylan e Joan Baez, naturalmente) che trascinò “un’estetica fatta apposta per essere largamente antitetica ai tempi e questo era un aspetto sostanziale per capire la presa che aveva la musica sui giovani in cerca di una propria identità all’ombra della generazione della seconda guerra mondiale”. David Hajdu tenta di ricollocare le diverse personalità in una prospettiva coerente. Tenendo conto che “Il folk era una musica storica per natura” e “glorificava l’unico e l’eccentrico, sfidava il conformismo e celebrava il regionalismo nel momento in cui stavano nascendo i mass media, le marche nazionali e i viaggi interstatali”, ricorda come Joan Baez fossa stata riconosciuta prima di tutti, come la protagonista di quell’effervescente momento storico. D’altra parte, come è in gran parte inevitabile, riconosce anche il merito a Dylan di aver deciso di “uscire allo scoperto”, liberandosi degli schemi, delle regole e delle tradizioni, nonché dei legami, come poi divenne chiaro, al di là degli episodi e degli aneddoti e della teorica accetta di Pete Seeger, al Newport Folk Festival del 1965, quando ormai il rock’n’roll aveva preso il sopravvento. Era una questione di combustione, come ebbe modo di notare in modo molto appropriato Richard Fariña: “Anni fa, gente come Dylan doveva accendere le candele da entrambi i lati, per farsi vedere. Oggi le accende direttamente al centro, con una fiamma ossidrica. Il rischio può essere mortale, ma più gente vede la fiamma”. È quasi un presagio: a lui e a Mimi Baez, David Hajdu riserva un ritratto più informale, tra le peripezie della scrittura e un matrimonio dai contorni bohémien, appassionato, tenero e turbolento fino al tragico epilogo.
lunedì 12 dicembre 2022
N. Scott Momaday
Il ritorno di Abele, un veterano della seconda guerra mondiale, apre uno scenario inedito tra i pueblo del New Mexico: “Di tutto, di tutto quanto aveva preceduto la partenza, si ricordava perfettamente, nei minimi particolari. Era il passato recente, quel susseguirsi di giorni e di anni senza significato, di terribile calma e di conflitto, tempo sempre istantaneo e confuso, che non riusciva a ordinare nella sua mente. C’era un frammento di ricordo preciso, ricorrente e distinto”. Spiegherà in seguito lo stesso Momaday: “Uno degli aspetti più tragici di Abele, così come lo intendo, è la sua incapacità di esprimersi. È in qualche modo un uomo senza voce. E nella sua situazione, nel contesto del mondo indiano, è una tragedia ben definita. È stato rimosso fisicamente. Ha perduto il suo posto nel mondo ed è perciò disperato e cerca di reinserirsi nel mondo naturale di appartenenza. Ma non vi riesce perché ha perduto la sua voce. Penso a lui come ad uno sradicato dalla tradizione orale. Questo caratterizza il suo dilemma”. Lo si vede nel passaggio forzato a Los Angeles, che è una frattura significativa. Disorientato dalla città, dai suoi rumori e dal movimento senza fine del traffico e dell’oceano, Abele non riesce a ritrovarsi, mentre si riaffaccia un antico terrore: “Aveva sempre avuto paura. Ai confini della sua mente c’era sempre qualcosa che faceva paura, qualcosa da temere. Non sapeva cosa fosse, ma era sempre lì, vera, imminente, inimmaginabile”. Alla mancanza di un luogo in cui riconoscersi, si associano parole (“Hanno tante parole, e tu sai che significano qualcosa, ma non sai cosa, e le tue parole non vanno bene, non sono le stesse, sono diverse, e sono le uniche che hai”) e immaginazione che hanno un valore diverso: “Devi stare attento dove cammini. C’è sempre un sacco di gente qua, soprattutto dopo la pioggia, e molto rumore. Senti le macchine sulle strade bagnate, che partono e si fermano. Senti un sacco di fischi e di clacson, e c’è un sacco di musica chiassosa tutto intorno”. L’identità indiana e americana collidono, si scontrano nella realtà ed emerge, alla radice, la disintegrazione delle culture native: “Se sei della riserva non ne parli molto: non so perché. Mi sa che pensi che non ti aiuterà molto, così cerchi di dimenticarla. Qualche volta però ci pensi; non puoi farne a meno, ma poi ti sforzi di dimenticarla. Devi pensare a un sacco di altre cose, e se non lo fai ti confondi. Se tutti venissimo dallo stesso posto, mi sa che sarebbe diverso: si potrebbe parlare, sai, e ci capiremmo”. Tosamah, che con le sue prediche, pare essere un contraltare di Abele, svela tutto il background indiano ricordando un aspetto importante che risale alla nonna: “Aveva compreso che nelle parole e nel linguaggio, e solo lì, poteva esistere in modo completo e perfetto”. Le parole sono soprattutto canti, da cui proviene lo stesso titolo di Casa fatta di alba, e di conseguenza “il semplice ascolto è fondamentale per il concetto di linguaggio, e ancora più fondamentale del leggere e dello scrivere”. I contrasti sono fortissimi dato che “una simile vastità favorisce l’illusione, una forma di illusione che comprende la realtà, e dove esiste nascono sempre stupore ed allegria”. Condensati nella fitta scrittura di N. Scott Momaday i serpenti a sonagli, i falchi, i lupi e i coyote, la vita dentro e sopra i canyon (memorabile la scena della caccia all’aquila), la wilderness in generale e gli esseri umani, servono a “vedere il nulla, il nulla assoluto. Vedere oltre il paesaggio, oltre ogni forma e ombra e colore, quello era vedere il nulla. Significava essere liberi e compiuti, completi, spirituali”. Da questa visione nascono le pagine più liriche di Casa fatta d’alba che prevede un secondo approdo alle mesas e al deserto: “Di primo mattino la terra giaceva enorme e pigra, riconoscibile soltanto come un tutto, senza alcun rilievo ad esclusione del proprio margine, puro e lucente, fin dove giungeva lo sguardo, e più oltre il nulla del cielo”. A quel punto di Casa fatta di alba, le invocazioni e le promesse si susseguono in cerca degli elementi primordiali, il silenzio e la memoria: “Tutto sarebbe andato bene di nuovo, sai. Ci saremmo ubriacati per l’ultima volta e avremmo cantato i vecchi canti. Avremmo cantato di com’era, di come non c’era nulla intorno, tranne le colline e il sorgere del sole e le nuvole. Saremmo stati ubriachi e, sai, in pace, belli. Dovevamo farlo in un certo modo, in quello giusto, perché sarebbe stato per l’ultima volta”. Quello che rimane è solo una speranza e, ancora una volta, è evocata cantando perché nella Casa fatta di alba più che le parole, conta il loro suono.
martedì 6 dicembre 2022
Tom Robbins
Nell’Indo-Tibetan Circus & Giant Panda Blues Band il cast animale e umano è ristretto, intimo e legatissimo. Tom Robbins li presenta così: “Avevano due tamnofidi o serpenti-giarrettiera. E la mosca tse-tse non era neppure viva. Non si poteva certo parlare di attrazione lungo l’autostrada”. C’è anche un babbuino, Mon Cul, ma i primati hanno i loro diritti e nessuno vuole considerarlo parte dello show. Quello che c’è da vedere non è un granché, ma è abbastanza da considerare l’ipotesi che “un individuo può essere libero e felice quanto vuole esserlo perché non c’è niente da perdere e niente da guadagnare”. È questa la teoria nel cuore del brillante esordio di Tom Robbins, frutto di una lunga coda psichedelica che nel 1971 gli permette di articolare attorno ai suoi variopinti personaggi una complessa composizione di discussioni filosofiche. La picaresca popolazione che affolla Uno zoo lungo la strada è uno dei diversivi cari a Tom Robbins, capace di stordirti a furia di iperboli. Per cui è vero che “la maggior parte degli attori si lasciava ormai trasportare da una propria estasi. Ballando. Cantando. Arrampicandosi sugli alberi. Contemplando la luna (di un arancione mango e sottile come una tortilla). Mangiando. Bevendo. Amoreggiando. Sognando. Ciondolando. Brancolando. Trapanando: rinfrescandosi le tonsille con pennelli alcolici”, ma d’altra parte il confronto tra Amanda (al centro di ogni discussione, anche quando non c’è), John Paul Ziller (con lei unito in matrimonio), Plucky Purcell e Marx Marvelous è senza sosta e travolgente. Detto questo, la ricchezza delle chiacchiere è sfuggente e intrigante: “È vero che Roland Kirk è l’intera orchestra di Count Basie vestita da donna?”, si chiedono ed è uno dei dilemmi che agita Uno zoo lungo la strada, ma bisogna fare attenzione perché “per un artista una metafora è reale quanto un dollaro”. Tom Robbins usa l’ironia per raccordare una moltitudine di divagazioni e l’apoteosi verbale che si spalanca in Uno zoo lungo la strada può ancora raccontare molto, pur tenendo conto dei limiti delle espressioni dell’epoca e degli svolazzi utopici: “In altre parole, l’appianamento di tutte le questioni, la soluzione di tutti i problemi, non sono determinati da quello che può rendere la gente più sana e più felice nel corpo e nella mente ma dall’economia. Dollari o rubli. Economia über alles. L’essenziale è che niente interferisca con la crescita dell’economia, anche se quella crescita sta castrando la verità, avvelenando la bellezza, trasformando un continente in un mucchio di letame e portando un’intera civiltà alla follia”. Come una folle riunione di condominio sulla Route 66 i protagonisti discutono di tutto, cercando di spiegare che l’anima è “una manifestazione elettrochimica, una sintesi di proteine, un baluginio di elettricità nervosa”, inseguendo i destini della farfalla monarca (e non solo: a tratti Lo zoo lungo la strada sembra un trattato entomologico), discernendo in allegria di un’epidemia di gonorrea o delle avventure discografiche degli Hoodoo Meat Bucket (l’accostamento con la malattia venerea non è casuale) o, ancora del senso dell’arte (“La funzione dell’artista è di fornire quello che non fornisce la vita”) fino ad arrivare alla lunga diatriba sulle religioni e sull’infinito. Un tema che serpeggia in lungo e in largo in Uno zoo lungo la strada e che comincia partendo dall’ipotesi che forse “la vita di Cristo era un esempio per i vivi e non una promessa di aldilà per i morti”. Nell’affollarsi di personaggi attorno allo strampalato convivio, ogni tanto si intrufola Tom Robbins in persona, ma senza infierire: “È evidente che sono lacerato dai dubbi. È tutto maledettamente sconcertante. Ma intendo perseverare, perciò consentitemi di andare avanti”. Alla fine si presenta persino Tarzan che, ça va sans dire, ha pure le sue opinioni. Il suo colloquio con Gesù Cristo in persona nel bel mezzo del deserto è impagabile ed è lo zenith di una trance letteraria, scoppiettante, caotica e geniale fino in fondo. Colonna sonora, inevitabile e obbligatoria, i Grateful Dead in tutte le loro incarnazioni.
mercoledì 30 novembre 2022
Raymond Carver
L’uscita di Vuoi star zitta per favore? era stata una svolta epocale. Leonard Gardner scrisse che i racconti di Carver “parlavano del tradimento degli affetti più cari, per debolezza o egoismo, per mancanza di soldi o per rabbia contro una situazione di povertà, o per altro. Gente che non si prende a botte, ma compie questi tradimenti che causano un dolore atroce”. Nel 1976 l’impronta di Vuoi star zitta per favore? aprì uno spiraglio fondamentale nella letteratura americana che sarebbe tornata a guardare da vicino alla realtà ed era frutto della complessa liaison tra Carver e Gordon Lish, l’editor che aveva limato, corretto, modificato in profondità la scrittura delle short story. Ricordava Carol Sklenicka: “Nella stessa maniera in cui, in una registrazione, un tecnico del suono sa mettere in risalto uno strumento rispetto agli altri, Lish eliminò dei dettagli che assegnavano ai personaggi una storia distintiva o vendevano un’ambientazione specifica e intima. A volte cambiava il peso di una frase e, con la sostituzione, sapeva rendere il racconto più esplicito e anche più chiassoso”. Gordon Lish interverrà ancora e con maggior decisione nella raccolta successiva, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore il cui titolo originale era, appunto, Principianti. I racconti passarono almeno tre drastiche revisioni (se non proprio riscritture) e Carver oscillò tra l’entusiasmo iniziale e momenti di totale disappunto (dove parlava di vere e proprie “amputazioni”) che lo portarono a più riprese a chiedere a Lish di sospendere la pubblicazione, come è documentato dal loro epistolario. La riproposizione in Principianti della versione non filtrata di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è un po’ ambivalente. Così come li abbiamo conosciuti, i racconti di Carver, tagliati “fino al midollo”, restano frutto del legame e dei contrasti con Gordon Lish e con ogni probabilità ha senso avere entrambe le versioni, quella passata attraverso le forche caudine di un editing feroce e quella originaria, ricostruita dal lavoro di ricerca di William L. Stull e Maureen P. Carroll. Il motivo è semplice: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore è uno snodo contorto e complicato nella biografia stessa di Raymond Carver, e un punto di non ritorno della saga con Gordon Lish, che è celebrata in tutte le sue contorsioni in Principianti. Da lì in poi maturerà lo sviluppo stilistico che porterà a Cattedrale, e alla definitiva consacrazione tra gli autori americani più importanti del ventesimo secolo. Detto questo Raymond Carver racconta essenzialmente una luce, una luce che è sempre tangenziale, obliqua, aurorale o crepuscolare. È sempre una scrittura in bilico, tra la percezione della realtà e la sua descrizione nei contorni di una “spettrale luminosità”, come ha scritto Clark Blaise. Le quinte sullo sfondo sono composte da una desolazione dove il blue è un tema dominante, e non è soltanto una sfumatura dei colori, ma anche un’espressione dell’atmosfera in cui si muovono i suoi personaggi. Aveva ragione Tim O’Brien ad avvertire il lettore che per cogliere il senso dei racconti di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore servono “atti d’immaginazione e deduzione”, e qui diventa chiaro dove ha portato tutto quel lavoro di sottrazione, perché come diceva Carver “in fondo tutto quello che abbiamo sono le parole”, e meritano la giusta attenzione, e anche un po’ di editing.
lunedì 28 novembre 2022
Barry Gifford
Scuoiare un coccodrillo, scrutare le ascelle di una supplente, fare attenzione a chi va in giro con un martello in tasca, schivare i mariti della madre, sopravvivere nella mappa di Chicago, scoprire Elvis: Il mondo di Roy è la celebrazione di una prospettiva unica, che poi è quella dell’infanzia e dell’adolescenza, una corda tesa all’infinito tra opposti ed estremi destinati a collidere. Le storie si susseguono velocissime, come dei flash sparati a raffica, e sono incastrate una nell’altra con un ritmo forsennato, senza una particolare coerenza cronologica, se non l’età di Roy. È un continuum inarrestabile e, a tratti, incontrollabile: la trama è costituita soltanto dalla loro successione e dalla personalità di Roy, che è un osservatore acuto, a cui non sfugge nessun dettaglio, ma è anche un soggetto capace di svolte repentine, motivo per cui Barry Gifford alterna con disinvoltura la prima e terza persona. Attorno a lui ruota un’intera galassia di personaggi: figure singolari e picaresche come quella del Sultano alias James Word, amici e nemici nelle strade, volti del cinema (Hedy Lamarr, Ava Gardner, Orson Welles), del jazz (Art Blakey, John Coltrane, Thelonious Monk, Ben Webster, Dizzy Gillespie) e del rock’n’roll (Buddy Holly ed Elvis, che “fa tutto meglio di chiunque altro”), ma soprattutto una moltitudine di ritratti da cogliere al volo, e in fretta, prima che svaniscano nel nulla. Sparire è uno dei refrain più insistenti che distinguono Il mondo di Roy: è scomparso suo padre, e poi c’è gente rapita dagli alieni, ammazzata per un niente, il più delle volte per un’arma di troppo in circolazione, partita per destinazioni sconosciute o diventata invisibile nei bassifondi o soltanto sbattuta fuori di casa, senza un destino a cui aggrapparsi, se non fuggire. Una panoramica che è un’ossessione americana, e non è così ovvio perché Barry Gifford intinge i dialoghi nelle forme del baseball, delle stazioni di servizio, dei bar, delle automobili, di interi paesaggi a Chicago come a Cuba, freddo e caldo, dentro e fuori, i contrasti che alimentano un vivaio di protagonisti (e un’infinita teoria di nomi snocciolati uno dopo l’altro) che durano meno della fiamma di un fiammifero. Eppure è da quell’effimera e diffusa condizione che Il mondo di Roy (a cui bisogna aggiungere Wyoming) genera un moto propulsivo capace di contenere tuareg e gangaceiro, la scoperta del sesso e la segregazione e le mille avventure assemblate da Barry Gifford in una folle e ipnotica catena di montaggio. Il mondo di Roy è l’America, un’America popolare colta sul fatto nelle sue difficoltà, negli eccessi e nei limiti e che, in gran parte, è svanita insieme ai suoi eroi. Come del resto ha suggerito lo stesso Barry Gifford, Il mondo di Roy è “un tentativo di evocare il ritratto di un tempo e di un luogo che non esistono più, un ritratto su cui ho lavorato per quasi mezzo secolo”. È proprio questa la natura “ellittica” delle storie che si inanellano dentro Il mondo di Roy, con l’atmosfera di tante Polaroid ritrovate e accostate secondo uno schema del tutto casuale, in cerca di un ordito che appartiene alla natura dei sogni e della memoria e che soltanto la scrittura può, infine, svelare.
giovedì 24 novembre 2022
Stephen Crane
Con tutti i limiti e gli eccessi degli esordi, lo Stephen Crane giovanile non va per il sottile e si immerge nella storia di Maggie. Ragazza di strada come se ci accompagnasse di persona nelle brutture di Devil’s Row o Rum Alley, angoli fatiscenti di una New York che, all’alba del 1983, è già una metropoli condizionata da attriti, tensioni e contrasti. Maggie, come ogni altro cittadino deve sopportare una famiglia devastata, le risse, gli scontri, un conflitto latente che esplode tra le persone incastrate in quartieri e in particolare in abitazioni dove “l’edificio tremava e scricchiolava sotto il peso di un’umanità che s’aggirava pesante nelle sue viscere”. La descrizione è puntuale, fin troppo. La violenza, verbale e non, è endemica, nello sfruttamento e in convivenze forzate e affondate più nella disperazione che nell’alcol, anche se è difficile capire quale è la causa e quale l’effetto. Stephen Crane sa già riportare in un linguaggio crudo, spietato e onesto l’afflato che anima Maggie, disposta a qualsiasi cosa pur di fuggire da una madre sventurata e dal clima opprimente della Bowery, motivo per cui rimane ammaliata dall’ambiguo Pete: “Ecco un uomo che non si curava della forza di un mondo ribollente di pugni. Ecco un uomo che aveva disprezzo per il potere, un uomo i cui pugni potevano risuonare con sfida contro il granito della legge. Era un cavaliere”. È uno dei tanti abbagli che distinguono la parabola di Maggie, un archetipo della ragazza e della sua immersione in una nebbia generata dalla città dalle condizioni invivibili, espressa dalla grezza natura del linguaggio, che Stephen Crane riesce a rendere in tutta la sua natura. Il risultato finale è la dissoluzione nelle strade di New York: anche la bellezza conclamata di Maggie viene compromessa. La sua storia è un tiro di dadi truccato, la fine è già dettata dalle premesse iniziali, che sono desolanti. Stephen Crane non lo dice, e non lo spiega: lo lascia fluire dalle voci dei personaggi, e questo si nota ancora di più nei racconti aggiunti per l’occasione a Maggie. Ragazza di strada. Come scrive alla fine di Quando cade qualcuno, si raduna una folla, è “quasi che fosse un’ingiustizia l’intromettersi improvviso in quel tessuto impenetrabile fra una creatura in sofferenza e la loro curiosità”. L’intruso, con ogni probabilità, è proprio Stephen Crane che cerca di rendere l’atmosfera lasciando fluire i rumori, per esempio, “il suono, nelle sue iniziali note lancinanti che via via calavano fino a trasformarsi in malinconici lamenti, rivelava la tragedia rossa e cupa delle insondabili possibilità dei sogni umani”, così descritto in Un esperimento in tema di miseria, o identificando nell’architettura verticale e brutale della città la feroce indifferenza, come scrive ancora nello stesso racconto: “La moltitudine di edifici dalle spietate sfumature e dalla mole altezzosa era ai suoi occhi emblematica di una nazione che spingeva la testa regale su fra le nuvole, senza mai gettare uno sguardo in basso; e che, intenta a sublimi aspirazioni, ignorava i disgraziati che annaspavano ai suoi piedi”. Come per Maggie. Ragazza di strada, c’è un prezzo da pagare per quelle “speranze cittadine che per lui non erano speranze”, e alle mille luci di New York corrispondono altrettante ombre, che Stephen Crane registra senza particolari aggiustamenti. Riportato nella ricca e esaustiva introduzione di Mario Maffi che traduce e cura la riscoperta di Maggie. Ragazza di strada, Frank Norris sostiene che “il quadro che ci dipinge l’autore non è un dipinto singolo, composto con cura, serio e finito, studiato scrupolosamente, ma piuttosto una serie di piccole fotografie al lampo di magnesio, colte per così dire di corsa. Di conseguenza, il movimento del racconto dev’essere rapido, breve molto incalzante, poco più di un’occhiata di sfuggita”. Il metodo è funzionale e ha un suo impatto visivo, capace di proiettarci in una dimensione parallela dove il tempo si è fermato, e non solo per Maggie.
mercoledì 16 novembre 2022
Bob Dylan
Da Johnny Cash a Hank Williams, da Little Richard a Edwin Starr, da Nina Simone a Elvis, il processo di scoperta del songwriting è un’avventura unica e se c’era qualcuno in grado di inoltrarsi tra i suoi misteri, quello è proprio Dylan, e nessuno più di lui. Detto questo, Filosofia della canzone moderna è comunque una gran bella sorpresa: le canzoni vengono trattate dentro short story brevi e brillanti, che declina a modo suo, con nonchalance, e mettendo in risalto momenti e sfumature, percorsi e intuizioni. Il racconto segue un modello binario abbastanza semplice (tenendo ben presente che la semplicità non è ingenuità): per ogni canzone c’è una prima parte legata a impressioni del tutto personali e quindi dylaniane all’ennesima potenza, e una seconda più descrittiva e documentale. L’ordine non è rigoroso, come si può immaginare, e le due prospettive sono annodate, senza nulla di accademico o scientifico: non ci sono teorie o tesi da dimostrare e le iperboli di Dylan sono una sorta di licenza artistica nel tentativo di ricreare “la magia che ha luogo quando le canzoni sono sposate alla musica”. Nelle crepe lasciate dalle strofe, dagli incisi e dai refrain, Dylan costruisce un discorso ininterrotto che segna un punto di non ritorno nell’arte del songwriting. Sapendo che “gran parte dello scrivere canzoni, come accade per tutto lo scrivere, consiste nell’editare, nel distillare il pensiero fino a lasciare solo l’essenziale”, le storie hanno la velocità e la leggerezza delle canzoni, ma a loro volta si riproducono senza sosta. Capita così di affrontare una pratica lezione di biologia che sfata il suicidio di massa dei lemming, di ritrovare James Dean o Lenny Bruce, di scoprire l’invenzione del velcro, di come è cambiato il cinema, o ancora dell’importanza della gestione delle vocali e delle consonanti perché “è importante ricordare che quelle parole sono state scritte per l’orecchio e non per l’occhio. Come con i comici, dove una frase apparentemente semplice si trasforma in una battuta grazie alla magia della performance, quando le parole vengono messe in musica accade una magia inesplicabile. Il miracolo è la loro unione”. Il tono è intimo e diretto, ricco di punteggiature e richiami, e spolverato d’ironia, ma sempre chiarissimo, come la voce di un uomo che non vuole ballare, ma che sa stare al bancone di un bar, e che ama la vita on the road. Un motivo c’è: a parte qualche notevole eccezione (comprese Mack The Knife di Kurt Weill, Pump It Up di Elvis Costello, London Calling dei Clash e Volare di Domenico Modugno), la Filosofia della canzone moderna è una costellazione essenzialmente americana ma si parla, come dice esplorando Truckin’ dei Grateful Dead, di “molto tempo prima che l’America si trasformasse in un uniforme, tentacolare centro commerciale”. C’è un afflato nostalgico per un tempo che è stato, e che resiste solo nelle canzoni, ed è quella la vena che insegue Dylan, ben consapevole che “la gente confonde la tradizione con la calcificazione. Ascoltiamo un vecchio disco e lo immaginiamo sigillato nell’ambra, un pezzo di nostalgia che esiste solo per i nostri bisogni, senza rivolgere un pensiero al sudore e alla fatica, alla rabbia e al sangue che ci sono voluti per realizzarlo, o alla cosa in cui si è trasformato. La registrazione non è altro che la semplice istantanea di quei musicisti in quel momento. Un’istantanea può essere avvincente e artistica, ma è l’aver scelto un singolo istante, pescato dal flusso dei momenti, a renderla immortale”. Dylan lo spiega molto bene, canzone per canzone: può essere un verso, un arrangiamento, un aneddoto, un’allusione (e ce ne sono parecchie) a sottolineare la distanza con il passato perché oggi “tutto è così saturo; tutto ci viene imboccato. Tutte le canzoni parlano di una cosa sola e di una cosa in particolare, non ci sono chiaroscuri né sfumature, non c’è mistero. Forse questa è la ragione per cui al momento il luogo dove la gente ripone i propri sogni non è la musica. I sogni soffocano in questi ambienti non aerati”. Ecco perché la Filosofia della canzone moderna è un frutto del puro desiderio di comprendere e spiegare quello che in effetti è “la musica, che appartiene a un tempo ma è anche senza tempo; una cosa con cui creare memorie, ma anche la memoria stessa”. Compresi nel prezzo: un apparato iconografico suggestivo e la dedica a Doc Pomus, un omaggio che è pura giustizia poetica.
martedì 8 novembre 2022
Mark Leyner
Quando Mark Leyner scrive al suo editor, Peter Guzzardi, è chiaro che ci si addentrerà in un luna park effervescente e caotico dove succederà di tutto. La corrispondenza comincia così: “La mia vita è stata un unico, lungo incubo ipercinetico e ultraviolento. Eppure sì, sono uno scrittore. (Ma anche un addestratore di cani: Peter, ho insegnato alla mia cucciola Carmella a bere caffè nero bollente dalla sua ciotola sul pavimento!)”, e siamo soltanto all’inizio. Mark Leyner e il famigerato Team Leyner che assiste e promuove la carriera dello scrittore verso l’infinito, e oltre, si adoperano con metodi non convenzionali, per usare un eufemismo, e comunque apertamente dichiarati: “Occasionalmente tengo dei workshop di scrittura creativa. Ci vado sempre accompagnato dalla mia attempata falange di guardie del corpo bioniche, alcune delle quali armate fino ai denti e piazzate in punti strategici all’interno dell’aula e dello stabile, altre iscritte invece in incognito e presenti al corso come normali partecipanti”. Gli studenti più bravi e promettenti vengono visti come una minaccia allo status di Mark Leyner e, una volta rapiti infilandogli la testa in un sacco, sono sottoposti a un programma di interrogatori e rieducazione che prevede “la soppressione delle ore di sonno, l’esposizione alle basse temperature, la falsa fucilazione e svariate altre tecniche psicologiche”, e non è finita qui. Con Mark Leyner le parole compiono capriole che disorientano: la formula fluttua irritante e indisponente, lui è il narratore e il protagonista, l’alter ego (smisurato) e il lettore di se stesso, in spregio a ogni bon ton letterario ed editoriale. Il ritmo è martellante e trascinante a patto di non volere per forza trovare un significato o decifrare ogni singola frase perché con simboli, metafore e ogni genere di strumento di distrazione, Mark Leyner ci va pesante e la sua scrittura diventa un frullatore psichedelico che macina di tutto: l’ossessione per il corpo (comprese le reminiscenze di Mio cugino, il mio gastroenterologo, richiamato a più riprese), scrittori, attori, rock’n’roll star e altri personaggi più o meno famosi convergono (non colpevoli, non responsabili) con il suo costante affondare nella storia. È come se nuotasse e fosse l’acqua nello stesso tempo: Mark Leyner giostra le parole con una nonchalance che stupisce ancora oggi. Per restare in tema del famoso “cugino” e della sua formazione ippocratica, è come se digerisse una massa piuttosto ingombrante di segnali per poi rigurgitarla in una forma sorprendente, giocosa e brutale. Lo stesso Mark Leyner, che non si fa troppi scrupoli di sorta dice che Ehi tu, baby! è “una superba e irresistibile miscela di umorismo e indeterminate traiettorie, brulicante di tossiche creatura da farsa”. Il pirotecnico svolgersi dello stile può apparire ingannevole: c’è zapping, ci sono Ballard e Burroughs in dosi cospicue e uno humour abrasivo. L’aneddoto di come comincia a scrivere le note di copertina dei dischi che coinvolge Julianne Phillips, Bruce Springsteen e Patti Scialfa è irresistibile, ma bisogna fare attenzione perché dietro l’angolo spuntano “microscopiche e rigide creature allo stato larvale sfrecciano nel tempo come cannoli bellici catapultati in cielo e pronti ad affondare a velocità supersonica nelle fauci spalancate del mondo”. Una follia verbale inarrestabile, impietosa e fine a se stessa: inutile cercare un senso appropriato dove non ci deve essere, anche se in filigrana è chiaro che c’è qualcosa di più, la trascrizione del folle bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti, che sia intenzionale, oppure no. Fidatevi di Tom Robbins, che all’epoca descriveva la scrittura di Ehi, tu baby! “sintetica, radioattiva, speziata, confezionata in serie di un verdolino accattivante, un vero frappé del nostro spirito dei tempi, baby, e gustosa da impazzire”. Prima, però, leggete attentamente le avvertenze, e usate con cautela, è roba forte.
giovedì 3 novembre 2022
Mark Seal
Di rivelazioni la “storia, epica, leggenda” del Padrino ne offre parecchie. Nella saga della famiglia Corleone, cominciata con il romanzo di Mario Puzo e arrivata ai tre film di Francis Ford Coppola si affollano moltitudini di personaggi e interpreti che legano e uniscono tutte le follie americane, dai set cinematografici di Hollywood alle strade di “quei bravi ragazzi” a New York. L’unico modo per affrontare “l’inverosimile fusione di forza bruta, scelte artistiche, esigenze di mercato, genio e fortuna sfacciata”, che ha distinto la produzione del Padrino, era “una profonda immersione in un pozzo senza fondo”. L’immagine inserita da Mark Seal nella prefazione è consona non solo all’enorme lavoro di ricerca e di assemblaggio delle fonti, ma alla natura stessa del Padrino in sé, che dalla sua apparizione sugli schermi, giusto cinquant’anni fa, è diventato un successo intramontabile, un classico e un fatto sociale. Ed è ancora più incredibile se si pensa un attimo che tutto è cominciato ed è rimasto a lungo sull’orlo del disastro. Quando scrisse Il Padrino, Mario Puzo era arrivato in fondo a un vicolo buio: aveva una famiglia da mantenere, un vizio (il gioco d’azzardo) che lo prosciugava e pochissime alternative. Grazie alla casuale indicazione di un editore, cominciò a riflettere sulla mafia e sui contenuti dei best seller che avevano “personaggi memorabili sopra le righe, linee di trama multiple e un po’ di sesso”. Nel Padrino c’è molto di più, perché, come scrive Mark Seal, “la storia che racconta è eclissata dalla storia di come è nato. Anni prima che i dialoghi venissero scritti su carta, tutto era iniziato con un corpo avvolto dalle fiamme, città atterrite dalla paura e veri criminali sopravvissuti per svelare un mondo di violenza e tradimenti al di là dell’immaginazione di qualsiasi scrittore”. Per la ricchezza delle immagini e del linguaggio, il romanzo era destinato al cinema, ma ci arrivò a sua volta dalla porta di servizio. La Paramount, che era un passo dal fallimento, acquistò i diritti per 12.500 dollari, ma nessuno voleva saperne, finché non apparve un’offerta della concorrenza (la casa di produzione di Burt Lancaster) per un milione di dollari. Quello fu il momento in cui Robert Evans, produttore della Paramount, decise di farne un film. Così funziona a Hollywood e da lì Mark Seal procede nella ricostruzione del Padrino attraverso tutte le sue fasi: le scelte di Francis Ford Coppola, le trattative economiche (che arrivarono a coinvolgere Michele Sindona) e la sceneggiatura, il casting e i costumi, la fotografia e i “posti per uccidere la gente”, le scelte di tempo e di budget, Marlon Brando e Al Pacino, le ansie e i complotti sul set, e nella realtà, i rischi e le minacce e la vera mafia, dietro l’angolo. Mark Seal ha trovato il modo giusto per rendere affascinante ogni singolo dettaglio, anche i particolari più scabrosi ed eccelle nel descrivere la realizzazione della scena del matrimonio, dove convoglia un po’ tutte le logiche del Padrino perseguite da Coppola. È molto preciso il ricordo dello scenografo Dean Tavoularis: “Voleva mostrarli come essere umani e far vedere il lato umano delle loro vite, il lato familiare delle loro vite: amare i figli e poi voltarsi e commettere i crimini più terribili e gli omicidi più brutali”. Se grazie all’appassionata e coinvolgente rivisitazione, il “making” del Padrino si legge a sua volta come un romanzo, protagonista è, alla fine, l’ossessione per il potere, declinato attraverso tutte le forme narrate da Mark Seal: non soltanto le “famiglie” (nella fiction come nella realtà), ma anche tutte le transazioni e le collusioni tra Hollywood e Las Vegas, celebrate, tra i tanti aneddoti, anche dalla rissa tra Frank Sinatra e Mario Puzo, due pesi massimi.
mercoledì 2 novembre 2022
T. C. Boyle
Nelle storie di T. C. Boyle raccolte in Se il fiume fosse whisky si trovano tutte le ossessioni che popolano la sua narrativa. Si comincia con le sottolineature alle apparenze che dominano i nostri tempi moderni con Fugu pietoso, un delizioso racconto che inquadra la sfida tra lo chef Albert e Willa Frank, critica enogastronomica impietosa e irraggiungibile. Quel tono, in perenne equilibrio tra ironia e sarcasmo, è altrettanto pungente in Amore moderno, dove l’ipocondria è il riflesso dell’esigenza di un’esistenza sterile e perfetta, comprensiva di un preservativo da usare per ricoprire tutto il corpo, onde prevenire contatti indesiderati con virus più o meno letali. Ancora più sprezzante è Via quella barba con un consulente (hollywoodiano) che non va molto per il sottile nel tentativo di riposizionare l’immagine pubblica degli ayatollah. Il titolo dovrebbe già suggerire il tenore del racconto, che si collega a La mosca umana, una short story bellissima e malinconica sulla fama e sul prezzo da pagare. Nel destino di Zoltan, un personaggio indimenticabile, e delle sue bravate da novello Houdini c’è un po’ di commedia e un po’ di dramma con Los Angeles sullo sfondo, che troviamo anche per La casa che sprofondava. Le ossessioni suburbane valgono nello stesso modo a New York e diventano l’ingrediente nascosto nel patto faustiano tra Il diavolo e Irv Cherniske, in un ambiente dove “ogni sera, verso l’ora di cena, quando un urlo lacerante fendeva l’aria del quartiere, c’era sempre qualcuno che si portava alle labbra un aperitivo annacquato e diceva, con un sospiro, che gli urlatori stavano ricominciando”. Se in un placido quartiere dove tutti si ignorano, pur conoscendosi a memoria, avvengono strani eventi soprannaturali, è dovuto al fatto che T. C. Boyle ha frequenti divagazioni psichedeliche in parallelo alla sua percezione dei personaggi. È un’immersione totale, dalla condivisione dei problemi (e sono sempre tanti) e delle sofferenze, come succede in Il berretto, ambientato in Alaska con l’ombra di un orso invadente. T. C. Boyle ha una spiccata sensibilità per il rapporto degli esseri umani con il resto del mondo animale, che è portato alle estreme conseguenze in La signora delle scimmie in pensione. Nella rocambolesca avventura con Konrad, lo scimpanzé adottivo della protagonista, Beatrice, spicca il finale sorprendente, che lascia aperto più di un orizzonte. I colpi di scena non mancano anche con Il re delle api, dove il disagio psichico si innesta dirompente in dinamiche famigliari non meno complesse. Molte convivenze hanno parecchie falle, a partire da una limitata concezione del matrimonio e vale per Il risveglio, una storia d’amore che non funziona, con l’acqua protagonista, uno degli elementi ricorrenti nel simbolismo di T. C. Boyle, così come con Per amor di pace, dove prevale la sensazione di essere “circondati”. La sicurezza e le deviazioni, le inquietudini e le idiosincrasie americane (e non) alimentano molti dei temi e dei soggetti dei racconti di Se il fiume fosse whisky che sono centrali nella visione di T. C. Boyle e troveranno ulteriore collocazione e ampliamento tra i romanzi (su tutti, e sempre consigliato, Gli amici degli animali), ma va ricordato anche Il piccolo freddo, fotografia di una reunion tra amici, come se fosse una una curiosa operazione di rilettura e riscrittura di una scena tagliata dalla sceneggiatura del Grande freddo, Marvin Gaye compreso.
giovedì 27 ottobre 2022
Derek Walcott
Le egrette alias garzette sono la parte più importante dell’ornitologia di Derek Walcott che comprende altri ardeidi come gli aironi, e poi tortore, corvi e gracchi, usignoli, gabbiani e colibrì. Una serie di voli che popolano pagine movimentate e sottolineate dall’identificazione con le Egrette bianche, dove Derek Walcott dice che “condividiamo lo stesso istinto, il vorace cibarsi del becco della mia penna, quel raccogliere insetti che si dimenano come nomi e ingoiarli, col pennino che legge mentre scrive e scrolla via quello che il becco rigetta. La selezione è ciò che insegnano le egrette sul prato ampio e aperto, la testa che annuisce mentre leggono in risoluto silenzio, una lingua al di là delle parole”. Quando Walcott scrive “non siamo mai dove siamo, ma altrove”, suggerisce un vorticoso giro del mondo che nei versi associa Siracusa e la Sicilia, Barcellona e la Spagna, Napoli e il Mediterraneo, il Cervino e le Alpi sullo sfondo di Milano, New York, Stoccolma, Bruxelles, Amsterdam nonché le vestigia dell’impero caduto, ricordando i rimasugli coloniali, e di volta in volta i relativi anfitrioni: Pavese, Quasimodo, Cervantes, Lorca, Blake, Van Gogh, Vermeer e Conrad. L’ultima tappa è infine la Giamaica, espressione per tutti i Caraibi, e qui la lingua di Derek Walcott, che è una sorta di esperanto lirico, comprende un grado di disordine fisiologico perché “il moto genera perdita”, e all’arrivo le conclusioni sono contrastanti. Il bardo errante è senza dubbio “attento alla luce del tempo” e “accetta tutto con frasi pacate con l’assegnazione scolpita che dispone ogni strofa”, ma, come diceva lo stesso Cesare Pavese, “non è facile dire quando il poeta debba fermarsi”, e Derek Walcott risponde alla necessità di arenarsi un po’ con irriverenza (“Mi sento cambiato, come una promessa elettorale mantenuta”), un po’ con l’eleganza che lo distingue: “Questo è il cuore, al suo rientro, che cerca di aggrapparsi a tutto ciò che ha lasciato, come le cose salate non fanno che accrescerne la sete”. La forma dei versi asseconda il “clima della poesia” che è fatto di orizzonti e rumori, di sole e di foschia, di granchi e serpenti, di moli e di finestre, dove lo sguardo del poeta (e del pittore) va in cerca della meraviglia e dello stupore, che è “l’ideale” definitivo. L’attesa è la costante perché “le cose perdono il loro equilibrio e vacillano sotto i colpetti della memoria. Aspetti una rivelazione, le evoluzioni dei delfini, aspetti che gli usignoli sciolgano i nodi in gola che le campane assolvano i tuoi peccati come le vele ammainate delle barche al rientro” e l’ammirazione deve giostrarsi su un riflesso continuo e improvviso che Derek Walcott descrive così: “Un quadrato di luce attraversa lentamente il pavimento dello studio. Ne invidio la pazienza”. A quel punto “la parola e l’ombra della parola fanno sì che ogni cosa sia se stessa e qualcos’altro finché non siamo noi stessi ma metafore in una lingua empirica che continua a crescere”. Il poeta avverte l’avanzare del crepuscolo (“Non mi metto mai nei casini tranne che con le onde, e presto perderemo anche quelle”), ma continua a professare la sua fede, indomito, inarrestabile: “Su queste banalità un’intera vita è stata spesa nel fulgore, eppure ci sono giorni nei quali ogni angolo di strada svolta se stesso in una sorpresa assolata, un quadro o una frase, canoe issate accanto al mercato, l’azzurro del porto, le caserme. Così tanto da fare ancora, e tutto una lode”. È il motivo finale per cui Derek Walcott ci persuade a considerarci soltanto “semplici recipienti della grazia di ogni giorno”, un verso che saluta le Egrette bianche con il sapore di una preghiera laica.
mercoledì 26 ottobre 2022
Emily Greble
Nel corso dei secoli, dalla sua fondazione nel 1463 all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando nel 1914, Sarajevo ha sviluppato una singolare identità, dovuta a una moltitudine di fattori specifici, dalla peculiare posizione geografica ai “codici civili, politici e culturali locali” fino alla convivenza sviluppata in un complesso “sistema di identità confessionali”. Analizzando una mole sterminata di archivi, Emily Greble, storica americana specializzata in studi dell’Europa orientale e dei Balcani, ha ricucito i fili che facevano di Sarajevo “un centro di cosmopolitismo, di civiltà e urbanità”, e che sono stati recisi da una molteplice barbarie, che si è protratta nelle indicibili sofferenze di Musulmani, ebrei e cristiani nell’Europa di Hitler, come recita la sintesi stringente del sottotitolo. È così, con una straordinaria ricchezza di dettagli, ma anche con un’analisi molto accurata, che Emily Greble racconta “il modo in cui una città abitata da musulmani, cattolici, serbi ortodossi ed ebrei visse le crisi del tempo di guerra”. Il lavoro dell’accademica è notevole perché scandaglia tutti gli aspetti della quotidianità di Sarajevo tra il 1941 e il 1945, che sono puntellati dalla tragedia della guerra e di una violenza senza fine, ma la sua ottica, più che basarsi su tesi o preconcetti, è quella di affrontare giorno per giorno le dinamiche tra la municipalità, il governo degli ustascia, gli occupanti e le ripercussioni della guerra, le alleanze e i capovolgimenti di fronte lungo “le linee di divisione di unione di una città”. È una narrazione articolata, come non potrebbe essere altrimenti, ma Emily Greble sa anche, nei limiti possibili del lavoro storiografico, restare nell’ambito di un linguaggio accessibile, ricco di spunti e di elementi che risaltano nella complessa e fragile costituzione di Sarajevo. Emerge a più riprese come l’equilibrio di Sarajevo, e in particolare dei sarajlije, i suoi abitanti, provi a resistere a tutto, considerando la composizione della città come qualcosa di raro (se non proprio unico) da tutelare senza indugio. Sarajevo rappresentava “la speranza nel pluralismo e la promessa di un futuro multiculturale”, su sui si sono accanite l’invasione nazista e fascista, poi il feroce regime degli ustascia, i bombardamenti degli alleati e infine l’arrivo dei partigiani di Tito e, di volta in volta, le pulizie etniche che hanno devastato le diverse comunità. Nel suo lavoro di ricerca Emily Greble mette in risalto il ruolo della burocrazia, un aspetto non secondario, visto che le complesse strutture confessionali, etiche, politiche della vita civile venivano di volta in volta sconvolte perché “le fazioni in lotta per il potere erano talmente numerose che le alleanze politiche e militari persero di significato”. Tra le altre, Emily Greble mette in risalto il ruolo della comunità musulmana e il controverso tentativo di guadagnare una posizione di rilievo formando una divisione delle Waffen SS. Non è stata l’unica trattativa, ma il suo sostanziale fallimento con ogni probabilità è stato il più evidente nel corso della guerra e così Emily Greble annota che “a Sarajevo i musulmani furono tra i primi a rendersi conto dell’incompatibilità tra la cultura, le tradizioni e gli obiettivi della città da un lato e quelli delle parti belligeranti (tanto nazionali quanto internazionali) dall’altro”, ma ben presto toccò a tutti rendersene conto. Le amarezze e le sofferenze di un’intera città che ha provato in ogni modo a sopravvivere nella solidarietà, nel rispetto per le istituzioni e soprattutto nel pluralismo dovranno mettere in conto “i conflitti irrisolti e invisibili” che, come è noto, coveranno a lungo sotto le ceneri e riesploderanno a distanza di anni e anni.
martedì 20 settembre 2022
David Joy, Eric Rickstad
Chris Offutt viene beffato da un pesce enorme con conseguenze disastrose ma comiche. Taylor Brown racconta di uno squalo catturato nella marea. J. C. Sasser mette in rilievo un parallelo tra la tranquilla (si fa per dire) attività peschereccia e quella più turbolenta delle storie, mentre Eric Storey in Quello che conta davvero spiega il valore della pesca in sé, che poi è illustrato con maggiore ricchezza di dettagli da Ray McManus in Al di là delle sponde: “Dimenticati chi è il pescatore e chi il pesce. Conta soltanto il tempo che diamo e quello che prendiamo, fare e rifare da capo e, cosa più importante, c’è sempre un fattore che non puoi controllare. C’è chi riesce a pisciare fuori dalla barca. C’è chi no. C’è chi ha tempo. C’è chi non ce l’ha”. Si tratta di una magia dove la pesca, che comunque è l’argomento preponderante di questi venticinque racconti, è persino relativa, come spiega molto bene Gabino Iglesias: “Il cielo sopra le nostre teste è grande come il silenzio che c’è tra di noi. È un silenzio sacro, di quelli che possono esistere senza imbarazzo solo tra amici che hanno raggiunto un’intesa che va oltre le parole. Come tutte le cose perfette, il silenzio non dura a lungo”. Questa sensazione è espansa nel bellissimo Dove nascono i fulmini di M. O. Wash, capace di allineare la pesca, la memoria, l’ambiente in un continuum lirico e appassionante. Non è l’unico caso: le short story sono tutte avvincenti, anche se per motivi diversi. Condividono i tratti autobiografici, in particolare nell’elaborare i trascorsi dell’infanzia, che sono gli elementi ricorrenti dei racconti di Ron Rash e Jill McCourkle al punto che J. Todd Scott scrive che “conserviamo nei nostri libri e nelle nostre storie vecchie fotografie di noi stessi”. La pesca è vista allora come uno squarcio nel tempo, un attimo che definisce i riti di passaggio, centellinati nei ricordi delle stagioni passati nella wilderness, seguendo i fragili fili di amicizie perché come scrive ancora Gabino Iglesias, “i giorni sull’acqua vi restano dentro. A volte è per i pesci che avete preso, altre per la compagnia, altre volte ancora per ciò che significano”. Ma Al fiume è anche un viaggio particolareggiato nell’America: i racconti ci portano dentro anfratti naturali, torrenti o laghi artificiali, dai ruscelli al bayou, nell’oceano e negli stagni, dalla Louisiana ai Caraibi. Una componente rilevante assecondata da più autori riguarda i richiami costanti alla cultura e alle tradizioni southern che, di nuovo, associano al valore della pesca quello delle storie, che convivono in una singolare simbiosi. Poi, crescere nel Sud, con o senza la pesca, non è molto diverso da altre parti e infatti c’è un’uniformità, nonostante la provenienza disparata delle trame e, non è data soltanto dall’argomento ittico, che resta la spina dorsale della raccolta. Forse, aveva ragione Thomas McGuane quando, introducendo Il grande silenzio, sosteneva che “la pesca è una situazione in cui le valenze emotive sono immediatamente dipendenti da loro contesto”. È così: l’ambiente, la terra, il cielo, l’atmosfera si riflettono proprio sul piano idrico e, come dice ancora Ray McManus, è “strano come finiamo per assomigliare alle forme d’acqua che ci hanno visto nascere”. Nella corrente, reale e simbolica, non ci sono solo i pesci, che riservano spesso qualche sorpresa, ma ci ci finiscono un po’ tutti: un cervo e un labrador, le effimere e un alce, i serpenti e gli uccelli, i sogni e i ricordi, l’infanzia e l’adolescenza, il passato e il futuro perché il presente è una canna da pesca piegata dallo sforzo di chi abbocca e di chi fugge, di chi prende e di chi lascia. Jim Harrison, che è la spiritual guidance di tutti questi pescatori e narratori diceva, parafrasando Shakespeare, che “siamo natura anche noi”, e si capisce perché questi racconti ci parlino così da vicino anche se non siamo mai saliti su una johnboat o non sappiamo infilare un verme su un amo, che resta un gesto un po’ complicato.
mercoledì 31 agosto 2022
Joan Didion
Nella settimana successiva all’11 settembre, Joan Didion, viaggiando “in una sorta di coma protettivo” e cercando di rispettare come “una sonnambula un’agenda approntata quando pianificare era ancora possibile”, si trova a San Francisco a leggere in pubblico un saggio su New York, scritto nel 1967. Quando arriva alla parola “mortale”, non riesce a pronunciarla, e non soltanto per l’emozione, ma anche perché avvertiva una separazione netta rispetto alla realtà dell’11 settembre e tutto ciò che ne è seguito. La trasformazione è stata più acuta e più profonda e Joan Didion, da quella grande osservatrice che è stata, ha saputo accorgersene subito: “Scoprii che l’accaduto veniva rielaborato, oscurato, sistematicamente epurato di storia e perciò di significato, infine reso meno leggibile di quanto fosse sembrato la mattina in cui era avvenuto. Come se, da un giorno all’altro, l’evento insanabile fosse stato resto gestibile, ridotto al sentimentale, a talismani protettivi, totem, ghirlande d’aglio, pietismi ripetuti che alla fine sarebbero risultati altrettanto distruttivi dell’evento stesso”. Di fronte a questo processo di rimozione dell’analisi storica, in primis, e poi di ogni possibile visione alternativa, Joan Didion ha sviluppato in questi appunti “un dialogo in viaggio straordinariamente aperto, un incontro con un’America in apparenza immune alla saggezza convenzionale”. Dentro un dibattito pubblico ormai assoggettato alla nuova ridefinizione di un’identità, di un tempo e del futuro che doveva essere già scritto, matura la consapevolezza che “nel bene e nel male, c’era una teoria, o un’idea fissa”. La percezione di Joan Didion era giusta allora, e lo rimane ancora di più oggi. La “ripetizione compulsiva” della parola “eroe”, per esempio, “sarebbe diventata una consolidata tendenza a ignorare il significato dell’evento in favore di una celebrazione impenetrabile e livellante delle sue vittime, e di una fastidiosa e aggressiva idealizzazione dell’ignoranza storica”. È soltanto una delle tante parole d’ordine che compongono le idee fisse che hanno soggiogato l’America (e il mondo intero) come diretta e immediata conseguenza dell’11 settembre. Un concentrato di luoghi comuni utili soprattutto a rimuovere non solo ogni forma di dissenso, ma anche qualsiasi ipotesi di confronto rispetto alle versioni ufficiali e alla propaganda. Scrive infatti Joan Didion: “In questo paese siamo arrivati a tollerare molte opinioni fisse del genere, o devozioni nazionali, ciascuna con le proprie paratie di invettive e controinvettive, di eufemismi e affermazioni del tutto false, ciascuna con uno schermo pronto a scattare ogni volta che una discussione seria minaccia di comparire”. L’effetto immediato è stato che in nome della sicurezza e della cosiddetta “unità nazionale”, venivano spinte in avanti altre priorità governative, ovvero “il bisogno di ulteriori tagli alle tasse, la necessità di trivellare l’Artico, l’eliminazione sistematica di protezioni normative e sindacali, perfino i finanziamenti allo scudo missilistico”. Il riferimento alle spese militari non è casuale, dato che a Joan Didion non sfugge il fatto che “abbiamo visto, soprattutto, l’uso incessante dell’11 settembre per giustificare il ruolo dell’America nel mondo, che veniva rimodellato in modo da diventare quello di chi innesca e sovvenziona quella che praticamente è una guerra perpetua”. Ben presto, le propaggini di quelle idee fisse (e spesso senza alcun fondamento) hanno dato forma alle brutali aberrazioni della realtà, a partire dalla disastrosa invasione dell’Iraq. Di fronte a tali capovolgimenti storici, la constatazione di Joan Didion, che resta lucidissima anche in mezzo al caos, non è nemmeno di schierarsi, o di criticare, ma almeno di considerare “lo spettro delle possibilità di contraddizione”. Sarebbe il minimo.
martedì 30 agosto 2022
Hernan Diaz
In una scena di Margin Call, un film del 2011, l’onnipotente John Tuld, interpretato da Jeremy Irons, ben appostato al ristorante in cima al palazzo, elenca le crisi finanziarie che hanno distinto il mercato azionario americano (e mondiale) e la lista comprende, come non potrebbe essere diversamente, anche il tracollo del 1929. Tra le apocalissi del capitalismo è quella che forse ha tracciato un modello di riferimento ed è l’ossessione di Andrew Bevel, e della moglie Helen, le figure centrali di Trust che vengono riscritte e rilette secondo una costruzione della realtà doppia e tripla e seguendo il principio per cui “il futuro irrompe in ogni momento, vuole rendersi attuale in ogni nostra decisione, cerca, per quanto possibile, di diventare passato. Questo è ciò che distingue il futuro dalla semplice fantasia. Il futuro accade”. È il motivo per cui Trust contiene un libro dentro l’altro: un gioco a incastri, farcito di chiavi di lettura che distinguendosi, si sommano. Il paradosso è funzionale alla costruzione del romanzo, anche se i trucchi vengono a galla e si notano, perché il limite congenito di Trust è evidente. Viene spiegato tutto e il tono, nonostante l’architettura, intrigante resta monocorde. O, meglio, ogni passaggio è costruito, fin troppo, senza una singola scintilla. Senza dubbio, Hernan Diaz ha una sua proprietà nella scrittura, costruisce un tassello dopo l’altro e riesce a dare forma a una struttura narrativa che contempla almeno quattro livelli di lettura: la storia della vita di Andrew Bevel secondo la sua stessa visione, quella apocrifa scritta da Harold Vanner, il punto di vista di Ida Partenza e quello della moglie Mildred. L’ordine è relativo, Trust resta impegnativo comunque lo si giri: fino a metà romanzo non c’è un dialogo che sia uno, e dove cominciano ad apparire sono riportati, e quindi di seconda mano. C’è una logica in questo, perché è assolutamente vero che “l’autorità e il denaro si circondano di silenzio, ed è possibile misurare la portata dell’ascendente di qualcuno dalla densità dell’assenza di suoni che lo avvolge”, ma lo stile rimane ancorato a frasi brevi, meccaniche, funzionali esclusivamente al ritmo e ai cambi di prospettiva. Solo la parte dedicata a Ida Pazienza (con il racconto della prova per diventare impiegata di Bevel come apice) e agli anarchici (almeno qualcuno si ricorda di loro) è un po’ più vitale, anche se l’atmosfera resta piuttosto fredda. Per esempio, viene nominato, en passant, il caso Sacco e Vanzetti, ma si perde nel contesto di altre mille associazioni. Del resto Trust è pervaso da un certo moralismo, come se non conoscessimo il rischio di una scommessa economica, sintetizzata nella battuta che “c’è un mondo migliore ma costa di più”. L’aspetto finanziario resta comunque una premessa fondante, l’ossessione per la crisi del 1929 e le sue conseguenze, uno degli apici del capitalismo (così come tutte quelle che sono seguite), sottintende un aspetto che va oltre la dimensione del mercato, quasi una ricerca (almeno per chi ci crede) di “una forma impersonale di bellezza”. Nell’ambizione di Trust la sfida non è solo quella: sapendo che “le aspettative e le richieste del lettore esistevano proprio per essere intenzionalmente confuse e sovvertite”, Hernan Diaz non nasconde i suoi intenti e lo schema è ben congegnato nel provare a spiazzare e a disorientare e a stupire, ma si rivela abbastanza prevedibile (sì, c’è anche la sorpresa finale), senza particolari emozioni e nessuna novità di rilievo. Tra l’altro, in quella che dovrebbe essere una sequenza fondamentale, Andrew Bevel arriva a identificare la musica come interpretazione matematica (e magica) dei flussi monetari, ma questo lo diceva anche John Tuld in Margin Call.