Con tutti i limiti e gli eccessi degli esordi, lo Stephen Crane giovanile non va per il sottile e si immerge nella storia di Maggie. Ragazza di strada come se ci accompagnasse di persona nelle brutture di Devil’s Row o Rum Alley, angoli fatiscenti di una New York che, all’alba del 1983, è già una metropoli condizionata da attriti, tensioni e contrasti. Maggie, come ogni altro cittadino deve sopportare una famiglia devastata, le risse, gli scontri, un conflitto latente che esplode tra le persone incastrate in quartieri e in particolare in abitazioni dove “l’edificio tremava e scricchiolava sotto il peso di un’umanità che s’aggirava pesante nelle sue viscere”. La descrizione è puntuale, fin troppo. La violenza, verbale e non, è endemica, nello sfruttamento e in convivenze forzate e affondate più nella disperazione che nell’alcol, anche se è difficile capire quale è la causa e quale l’effetto. Stephen Crane sa già riportare in un linguaggio crudo, spietato e onesto l’afflato che anima Maggie, disposta a qualsiasi cosa pur di fuggire da una madre sventurata e dal clima opprimente della Bowery, motivo per cui rimane ammaliata dall’ambiguo Pete: “Ecco un uomo che non si curava della forza di un mondo ribollente di pugni. Ecco un uomo che aveva disprezzo per il potere, un uomo i cui pugni potevano risuonare con sfida contro il granito della legge. Era un cavaliere”. È uno dei tanti abbagli che distinguono la parabola di Maggie, un archetipo della ragazza e della sua immersione in una nebbia generata dalla città dalle condizioni invivibili, espressa dalla grezza natura del linguaggio, che Stephen Crane riesce a rendere in tutta la sua natura. Il risultato finale è la dissoluzione nelle strade di New York: anche la bellezza conclamata di Maggie viene compromessa. La sua storia è un tiro di dadi truccato, la fine è già dettata dalle premesse iniziali, che sono desolanti. Stephen Crane non lo dice, e non lo spiega: lo lascia fluire dalle voci dei personaggi, e questo si nota ancora di più nei racconti aggiunti per l’occasione a Maggie. Ragazza di strada. Come scrive alla fine di Quando cade qualcuno, si raduna una folla, è “quasi che fosse un’ingiustizia l’intromettersi improvviso in quel tessuto impenetrabile fra una creatura in sofferenza e la loro curiosità”. L’intruso, con ogni probabilità, è proprio Stephen Crane che cerca di rendere l’atmosfera lasciando fluire i rumori, per esempio, “il suono, nelle sue iniziali note lancinanti che via via calavano fino a trasformarsi in malinconici lamenti, rivelava la tragedia rossa e cupa delle insondabili possibilità dei sogni umani”, così descritto in Un esperimento in tema di miseria, o identificando nell’architettura verticale e brutale della città la feroce indifferenza, come scrive ancora nello stesso racconto: “La moltitudine di edifici dalle spietate sfumature e dalla mole altezzosa era ai suoi occhi emblematica di una nazione che spingeva la testa regale su fra le nuvole, senza mai gettare uno sguardo in basso; e che, intenta a sublimi aspirazioni, ignorava i disgraziati che annaspavano ai suoi piedi”. Come per Maggie. Ragazza di strada, c’è un prezzo da pagare per quelle “speranze cittadine che per lui non erano speranze”, e alle mille luci di New York corrispondono altrettante ombre, che Stephen Crane registra senza particolari aggiustamenti. Riportato nella ricca e esaustiva introduzione di Mario Maffi che traduce e cura la riscoperta di Maggie. Ragazza di strada, Frank Norris sostiene che “il quadro che ci dipinge l’autore non è un dipinto singolo, composto con cura, serio e finito, studiato scrupolosamente, ma piuttosto una serie di piccole fotografie al lampo di magnesio, colte per così dire di corsa. Di conseguenza, il movimento del racconto dev’essere rapido, breve molto incalzante, poco più di un’occhiata di sfuggita”. Il metodo è funzionale e ha un suo impatto visivo, capace di proiettarci in una dimensione parallela dove il tempo si è fermato, e non solo per Maggie.
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