Da Johnny Cash a Hank Williams, da Little Richard a Edwin Starr, da Nina Simone a Elvis, il processo di scoperta del songwriting è un’avventura unica e se c’era qualcuno in grado di inoltrarsi tra i suoi misteri, quello è proprio Dylan, e nessuno più di lui. Detto questo, Filosofia della canzone moderna è comunque una gran bella sorpresa: le canzoni vengono trattate dentro short story brevi e brillanti, che declina a modo suo, con nonchalance, e mettendo in risalto momenti e sfumature, percorsi e intuizioni. Il racconto segue un modello binario abbastanza semplice (tenendo ben presente che la semplicità non è ingenuità): per ogni canzone c’è una prima parte legata a impressioni del tutto personali e quindi dylaniane all’ennesima potenza, e una seconda più descrittiva e documentale. L’ordine non è rigoroso, come si può immaginare, e le due prospettive sono annodate, senza nulla di accademico o scientifico: non ci sono teorie o tesi da dimostrare e le iperboli di Dylan sono una sorta di licenza artistica nel tentativo di ricreare “la magia che ha luogo quando le canzoni sono sposate alla musica”. Nelle crepe lasciate dalle strofe, dagli incisi e dai refrain, Dylan costruisce un discorso ininterrotto che segna un punto di non ritorno nell’arte del songwriting. Sapendo che “gran parte dello scrivere canzoni, come accade per tutto lo scrivere, consiste nell’editare, nel distillare il pensiero fino a lasciare solo l’essenziale”, le storie hanno la velocità e la leggerezza delle canzoni, ma a loro volta si riproducono senza sosta. Capita così di affrontare una pratica lezione di biologia che sfata il suicidio di massa dei lemming, di ritrovare James Dean o Lenny Bruce, di scoprire l’invenzione del velcro, di come è cambiato il cinema, o ancora dell’importanza della gestione delle vocali e delle consonanti perché “è importante ricordare che quelle parole sono state scritte per l’orecchio e non per l’occhio. Come con i comici, dove una frase apparentemente semplice si trasforma in una battuta grazie alla magia della performance, quando le parole vengono messe in musica accade una magia inesplicabile. Il miracolo è la loro unione”. Il tono è intimo e diretto, ricco di punteggiature e richiami, e spolverato d’ironia, ma sempre chiarissimo, come la voce di un uomo che non vuole ballare, ma che sa stare al bancone di un bar, e che ama la vita on the road. Un motivo c’è: a parte qualche notevole eccezione (comprese Mack The Knife di Kurt Weill, Pump It Up di Elvis Costello, London Calling dei Clash e Volare di Domenico Modugno), la Filosofia della canzone moderna è una costellazione essenzialmente americana ma si parla, come dice esplorando Truckin’ dei Grateful Dead, di “molto tempo prima che l’America si trasformasse in un uniforme, tentacolare centro commerciale”. C’è un afflato nostalgico per un tempo che è stato, e che resiste solo nelle canzoni, ed è quella la vena che insegue Dylan, ben consapevole che “la gente confonde la tradizione con la calcificazione. Ascoltiamo un vecchio disco e lo immaginiamo sigillato nell’ambra, un pezzo di nostalgia che esiste solo per i nostri bisogni, senza rivolgere un pensiero al sudore e alla fatica, alla rabbia e al sangue che ci sono voluti per realizzarlo, o alla cosa in cui si è trasformato. La registrazione non è altro che la semplice istantanea di quei musicisti in quel momento. Un’istantanea può essere avvincente e artistica, ma è l’aver scelto un singolo istante, pescato dal flusso dei momenti, a renderla immortale”. Dylan lo spiega molto bene, canzone per canzone: può essere un verso, un arrangiamento, un aneddoto, un’allusione (e ce ne sono parecchie) a sottolineare la distanza con il passato perché oggi “tutto è così saturo; tutto ci viene imboccato. Tutte le canzoni parlano di una cosa sola e di una cosa in particolare, non ci sono chiaroscuri né sfumature, non c’è mistero. Forse questa è la ragione per cui al momento il luogo dove la gente ripone i propri sogni non è la musica. I sogni soffocano in questi ambienti non aerati”. Ecco perché la Filosofia della canzone moderna è un frutto del puro desiderio di comprendere e spiegare quello che in effetti è “la musica, che appartiene a un tempo ma è anche senza tempo; una cosa con cui creare memorie, ma anche la memoria stessa”. Compresi nel prezzo: un apparato iconografico suggestivo e la dedica a Doc Pomus, un omaggio che è pura giustizia poetica.
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