Nella settimana successiva all’11 settembre, Joan Didion, viaggiando “in una sorta di coma protettivo” e cercando di rispettare come “una sonnambula un’agenda approntata quando pianificare era ancora possibile”, si trova a San Francisco a leggere in pubblico un saggio su New York, scritto nel 1967. Quando arriva alla parola “mortale”, non riesce a pronunciarla, e non soltanto per l’emozione, ma anche perché avvertiva una separazione netta rispetto alla realtà dell’11 settembre e tutto ciò che ne è seguito. La trasformazione è stata più acuta e più profonda e Joan Didion, da quella grande osservatrice che è stata, ha saputo accorgersene subito: “Scoprii che l’accaduto veniva rielaborato, oscurato, sistematicamente epurato di storia e perciò di significato, infine reso meno leggibile di quanto fosse sembrato la mattina in cui era avvenuto. Come se, da un giorno all’altro, l’evento insanabile fosse stato resto gestibile, ridotto al sentimentale, a talismani protettivi, totem, ghirlande d’aglio, pietismi ripetuti che alla fine sarebbero risultati altrettanto distruttivi dell’evento stesso”. Di fronte a questo processo di rimozione dell’analisi storica, in primis, e poi di ogni possibile visione alternativa, Joan Didion ha sviluppato in questi appunti “un dialogo in viaggio straordinariamente aperto, un incontro con un’America in apparenza immune alla saggezza convenzionale”. Dentro un dibattito pubblico ormai assoggettato alla nuova ridefinizione di un’identità, di un tempo e del futuro che doveva essere già scritto, matura la consapevolezza che “nel bene e nel male, c’era una teoria, o un’idea fissa”. La percezione di Joan Didion era giusta allora, e lo rimane ancora di più oggi. La “ripetizione compulsiva” della parola “eroe”, per esempio, “sarebbe diventata una consolidata tendenza a ignorare il significato dell’evento in favore di una celebrazione impenetrabile e livellante delle sue vittime, e di una fastidiosa e aggressiva idealizzazione dell’ignoranza storica”. È soltanto una delle tante parole d’ordine che compongono le idee fisse che hanno soggiogato l’America (e il mondo intero) come diretta e immediata conseguenza dell’11 settembre. Un concentrato di luoghi comuni utili soprattutto a rimuovere non solo ogni forma di dissenso, ma anche qualsiasi ipotesi di confronto rispetto alle versioni ufficiali e alla propaganda. Scrive infatti Joan Didion: “In questo paese siamo arrivati a tollerare molte opinioni fisse del genere, o devozioni nazionali, ciascuna con le proprie paratie di invettive e controinvettive, di eufemismi e affermazioni del tutto false, ciascuna con uno schermo pronto a scattare ogni volta che una discussione seria minaccia di comparire”. L’effetto immediato è stato che in nome della sicurezza e della cosiddetta “unità nazionale”, venivano spinte in avanti altre priorità governative, ovvero “il bisogno di ulteriori tagli alle tasse, la necessità di trivellare l’Artico, l’eliminazione sistematica di protezioni normative e sindacali, perfino i finanziamenti allo scudo missilistico”. Il riferimento alle spese militari non è casuale, dato che a Joan Didion non sfugge il fatto che “abbiamo visto, soprattutto, l’uso incessante dell’11 settembre per giustificare il ruolo dell’America nel mondo, che veniva rimodellato in modo da diventare quello di chi innesca e sovvenziona quella che praticamente è una guerra perpetua”. Ben presto, le propaggini di quelle idee fisse (e spesso senza alcun fondamento) hanno dato forma alle brutali aberrazioni della realtà, a partire dalla disastrosa invasione dell’Iraq. Di fronte a tali capovolgimenti storici, la constatazione di Joan Didion, che resta lucidissima anche in mezzo al caos, non è nemmeno di schierarsi, o di criticare, ma almeno di considerare “lo spettro delle possibilità di contraddizione”. Sarebbe il minimo.
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