Le conversazioni fluttuano liberamente, al punto che i film paiono come boe attorno alle quali ruota tutto il resto, dalla vita privata a quella professionale, dai successi ai fallimenti, da Tagli e angolazioni al Disegnare sogni fino alla sua predisposizione a Restaurare e collezionare i film, con l’idea “che possano cambiare la vita di qualcuno”, proprio come hanno cambiato la sua. Addentrarsi nel cinema di Martin Scorsese con Richard Shickel è come entrare in un luna-park tutto da scoprire, con un sacco di diramazioni e di sorprese. Passano tutte attraverso l’obiettivo della macchina da presa, come è logico che sia, ma l’ossessione per le inquadrature, per le prospettive e per le luci dipendono dal fatto che al cinema vengono (giustamente) attribuite delle proprietà fantastiche (“Credevo ancora nella magia del cinema. Mentre la magia non esiste, la devi creare tu”) che poi si trasmettono nei rapporti con gli attori, a partire da Robert De Niro, con le storie e con le immagini, con la musica (a cui dedica un intero e interessantissimo capitolo, che spazia dal rock’n’roll alla lirica al jazz, ben oltre la destinazione naturale delle colonne sonore) e con i tentativi di “sperimentare più radicalmente con la forma e con il contenuto”, come scrive Richard Shickel nell’epilogo. Si nota subito quanta teoria e quante riflessioni stanno dietro ogni singolo film, a partire dalla ricerca legata all’infanzia e alle proprie radici perché, come dice lo stesso regista, “ci sono sempre padri e figli, e ognuno deve all’altro qualcosa. Ci sono la fiducia e il tradimento”. Sono due delle principali ossessioni attorno a cui ruota la sua filmografia (basta pensare a The Departed, giusto per citarne uno) e il richiamo a un’età acerba e a territori ancora da esplorare è continuo, come annota Richard Shickel: “Martin ripete esattamente ciò che faceva quando era un ragazzino: non sapeva neanche di voler diventare un regista, e disegnava i suoi filmini su un taccuino, per poi mostrarli magari a un amichetto. Se c’è una cosa che penso di avere imparato su di lui nel corso di queste conversazioni, o che comunque ha evidenziato con insistenza, è la forza che il passato esercita su suo lavoro”. È una convinzione che viene confermata anche da Martin Scorsese quando dice che spesso “i film sono solo dei grandi ripensamenti” e nel dialogo con Richard Shickel, che è fitto, concentrato e fluido nello stesso tempo, non si tira mai indietro. Si vede che c’è comprensione e anche un minimo di complicità con il suo interlocutore, al punto che arriva a fargli confessare: “Mi prendo troppo a cuore i film che faccio. A volte ci metto dentro troppo di me stesso”. D’altra parte gli interventi di Richard Shickel sono limitati a organizzare il confronto, ma negli spazi che rimangono riesce a cesellare le giuste indicazioni critiche, utili a districarsi nelle moltitudini di sollecitazioni scatenate da Martin Scorsese: “Ciò che mi colpisce più a fondo è che nei suoi film arrivano a solide conclusioni dal punto di vista narrativo, ma rimangono aperti. Ci si chiede sempre che cosa succederà ai personaggi sopravvissuti. E si pensa che probabilmente non saranno pienamente soddisfatti dei loro destini”. L’happy end è escluso, e questo è noto almeno da Taxi Driver in poi, e del resto anche Conversazioni su di me e tutto il resto è, come dice Richard Shickel, il rendiconto di “un lungo viaggio ancora incompiuto”, che è destinato a durare nel tempo.
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