Il responsabile del disastro dello shuttle Challenger nel 1986 fu un minuscolo dettaglio, il cedimento di una guarnizione di gomma. La forma circolare spezzata ha tutta una valenza simbolica da non dimenticare anche perché è uno degli episodi storici che sottolineano la vita di Eleanor insieme all’omicidio di John Lennon, l’8 dicembre 1980 e alla morte di Lady Diana nell’agosto 1997. Gli anni sono scanditi dalla musica, che offre un raffinato ordito alla trama composto, tra gli altri, da Joni Mitchell (Blue, e River in particolare), Michael Jackson (Thriller), e Bruce Springsteen (Born In The USA), Al Green e Otis Redding, i Grateful Dead e i Guns N’ Roses, ma nel nome di Eleanor c’è già tutto se si pensa al ritornello di Eleanor Rigby: “Tutte le persone che sono sole, da dove vengono tutte? Tutte le persone che sono sole A che terra appartengono tutte?”. Sono le domande che il romanzo ribadisce capitolo dopo capitolo perché Eleanor, che è diventata adulta in fretta creando, da illustratrice, mondi fantastici, insegue con caparbietà il “desiderio impossibile” di una famiglia felice. Comincia, da sola, con una fattoria nel New Hampshire, non lontana da un fiume con tanto di cascata e adeguata con un laghetto artificiale. La collocazione geografica la rende una sorta di Walden familiare, ma i tratti idilliaci sono screziati dall’intrusione continua della realtà. L’ideale di bellezza, che per Eleanor coincide essenzialmente con l’estensione della maternità, si scontra con i naturali incidenti di percorso, i caratteri e le personalità emergenti dei figli, un marito gentile, affascinante, ma inconcludente, fino ad arrivare al punto di considerare, molto pragmaticamente, che “nessuno ottiene mai tutto nella vita. Bisogna scendere a compromessi”. Il prodigarsi di Eleanor, che è una mamma al cubo, onnipresente e generosa (fin troppo) non la garantisce dalle intemperie, a partire dal tradimento del consorte e dalla conseguente separazione. La svolta spezza a metà la storia e dalla condizione bucolica della fattoria, Eleanor si ritrova in un paesaggio urbano, dove esplora ogni forma di solitudine e il dolore del confronto con i figli che, come e più di lei, cercano di sopravvivere alla famiglia e/o alla sua disintegrazione. Tra due estremità c’è soltanto “la capacità di trovare il perdono”, come dice Joyce Maynard, che viene distillata come un dono segreto e irrinunciabile. È l’ingrediente che non viene svelato in modo esplicito: emerge via via che Eleanor cerca di chiudere un cerchio, tenendone insieme i pezzi. È proprio per quello che il ritmo della scrittura ha un andamento ipnotico. Joyce Maynard non inventa nulla, non cerca particolari torsioni stilistiche, non forza le ricerche linguistiche e spesso ripropone luoghi comuni lucidati e rimessi a nuovo. E, salvo distinguere le singole voci dei personaggi, il tono è sempre lineare, moderato, come se il romanzo fosse un unico, infinito piano sequenza, senza stacchi o dissolvenze. Ma la costruzione è serrata, ogni pagina chiede e ottiene attenzione, ed è impossibile non parteggiare (e commuoversi) per Eleanor, o per Al, o per Ursula, perché le loro emozioni sono vivide, e ci toccano, perché sono le nostre. L’effetto è, per parafrasare la descrizione di uno dei lavori grafici di Eleanor, quello di “un quadro onesto, carico d’amore ma non di sentimentalismo, della vita di una famiglia” che comprende unioni e separazioni, gioie e tristezze, tumulti e silenzi, piacere e dolore, e il più delle volte basta poco, un sasso, un anello, un temporale, poche battute di una canzone per cambiare tutto.
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