Nella fragile primavera del New England, un giardino segreto si anima con voci dei fiori. Ogni pianta ha la sua voce, che Louise Glück ricama attraverso i riflessi della natura, della wilderness, delle stagioni con una lingua ritmata, sincopata, incisa attorno a immagini esplicite: le rocce, gli abeti, le albe e i crepuscoli e la differenza nella percezione del mondo esterno rispetto a quello interiore. Una poesia fatta di brusche impennate e di suoni sorprendenti, come un ramo che si spezza all’improvviso. Ma più spesso è il silenzio dell’osservazione, della contemplazione, e dell’ascolto: ogni parola ha un peso specifico nella costruzione dei versi e la mano è ferma, precisa. La poesia sgocciola frase per frase. Condita dal silenzio di un’estate che non è estate, la vita dei fiori è una specie di riflesso dell’esistenza umana e l’antropomorfizzazione di Margherite e Viole permette a Louise Glück di esprimere attraverso le singolari presenze vegetali tutti gli aspetti della sua ricca poetica. Un florilegio che è la quintessenza della poesia: fiori che parlano e che diventano parole, pur sapendo come si evince da Lamium, che “non tutte le cose vive richiedono luce nella stessa misura. Alcuni di noi si fanno luce da soli: una foglia d’argento come un sentiero che nessuno può usare, un sottile lago d’argento nell’oscurità sotto i grandi aceri. Ma questo lo sai già. Tu e gli altri che pensate di vivere per la verità e, di conseguenza, amate tutto ciò che è freddo”. Le parole giungono a destinazione con precisione millimetrica nonostante l’insolita prospettiva, e questo è già un valore aggiunto in sé nella sua poesia, che è frutto di un linguaggio semplice, ma di una costruzione complessa. Il tono è tutt’altro che accondiscendente: il dialogo è vigoroso, i fiori si spendono con generosità e l’inizio è anche la fine, come scrive in Zizzania: “Non mi serve la tua lode per sopravvivere. Ero qui prima, prima che tu fossi qui, prima che tu abbia mai piantato un giardino. E sarò qui quando rimarranno solamente il sole e la luna, e il mare, e il campo largo. Costituirò il campo”. Le sentenze verso gli esseri umani che, come dice Il biancospino, “lasciano segni di sentimento dovunque”, sono ancora più tranchant, e i piani tendono a sfaldarsi. Scrive Louise Glück in Mattutino: “Vedo che con te è come con le betulle: non mi è concesso parlarti in modo personale”, ed è solo l’inizio di una conversazione ininterrotta con un perentorio Trifoglio (“Dovreste porre queste domande voi stessi, non lasciarle alle vostre vittime”), con la scadenza del puntuale Tramonto, (“La mia tenerezza dovrebbe esservi chiara nella brezza della sera d’estate e nelle parole che diventano la vostra stessa risposta”) e con l’inevitabile Crepuscolo di settembre, (“Andate e venite, ciascuno di voi imperfetto in qualcosa”). È poi la La rosa bianca a siglare L’iris selvatico con un ammonimento, una sorta di conclusione: “Questa è la terra? Allora non è posto per me”. È una resa coraggiosa, in fondo, alla fine della metamorfosi, che diventa esplicita con il Primo buio: “Come potete capirmi quando non potete capire voi stessi? La vostra memoria non è abbastanza rigorosa, non si spinge dietro abbastanza”. Harold Bloom, già estimatore di Louise Glück in tempi non sospetti, diceva che “il pensiero poetico è sempre una modalità della memoria” e la dispersione delle singole voci floreali non deve ingannare: L’iris selvatico dice chiaramente che “tutto ciò che ritorna dall’oblio ritorna per trovare una voce”. Notevole.
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