Il Blues americano di Doug Dowd, professore universitario e attivista politico, è “la formazione di uno scettico” che somma le vicende personali e i passaggi storici degli Stati Uniti d’America, dagli inizi del ventesimo secolo a oggi, per arrivare a concludere, e forse bisogna ricordarlo più spesso, che “la politica di cui abbiamo bisogno è quella che persone normali possono contribuire a costruire”. Nato nel 1919, Doug Dowd ha l’età perfetta per partecipare alla seconda guerra mondiale, e si arruola in un corso di addestramento per piloti. Da lì, l’aneddotica si fa fitta e variopinta: nel Pacifico è aggregato a una unità d’assalto con Norman Mailer, e assiste sgomento ai bombardamenti atomici, secondo lui, prologo alla guerra fredda. Rientrato in patria, oltre a dissezionare le fobie e i luoghi comuni imperanti, si ritrova ben presto con Howard Zinn e Noam Chomsky a fronteggiare la guerra in Vietnam (e Cambogia, e Laos). Un impegno che lo ha visto tra i principali esponenti del movimento pacifista e che occupa una parte consistente del Blues americano, anche perché quella tragedia fu biunivoca, come precisa Doug Dowd: “Facemmo tutto il possibile per distruggere il loro amato paese, e ci riuscimmo anche troppo; e adottando quei metodi, distruggemmo una parte importante del nostro stesso paese, rendendoci più difficile amarlo”. Sono gli anni di Nixon e Kissinger, poi l’avvento di Reagan, e qui il “nuovo” che avanza merita di essere visto sotto una luce storica un po’ più chiara. John Updike scriveva che “gli americani sono condizionati al rispetto del nuovo, qualunque ne sia il prezzo” e la prosopopea degli anni Ottanta viene smascherata perché dietro la millantata efficienza si nasconde quel “caos socioeconomico” che si è protratto indefinito fino a oggi, dato che “al cuore delle reaganomics non c’era quella che si può ritenere economia (il che non implica che sarebbe andato tutto bene se ci fosse stata): più forte era il desiderio ideologico e politico (ed emozionale) di aumentare le spese militari, ridurre le tasse ai redditi personali elevati e alle società di capitali, tagliare le spese sui programmi sociali”. È proprio quello che successe, e Doug Dowd non fa alcun sconto, segnalando tutte le contraddizioni, le tentazioni, gli interventi per ribadire una supremazia o per tutelare i presunti interessi americani nel mondo, con i risultati ben noti in Nicaragua ed El Salvador. Questo si sviluppa anche seguendo le traiettorie delle presidente Bush (padre e figlio), Clinton fino a Obama, con crisi economiche, guerre e abusi di potere che si ripetono a cicli pressoché regolari nel distillare il Blues americano. Nessuno è esente dagli strali di Doug Dowd che comprende e prevede (l’originale Blues americano è del 1997) molti degli sviluppi dell’involuzione politica e sociale odierna, proprio perché si accorge che “noi abbiamo permesso, e incoraggiato, la trasformazione del naturale egoismo umano in avidità smisurata; e, per quanto non abbiamo affatto inventato il razzismo, lo abbiamo permesso e lo abbiamo fatto diventare sempre più profondamente radicato nelle nostre vite, nonostante i reiterati tentativi di disturbo o porvi termine”. Mentre Doug Dowd riepiloga gli affanni nevralgici degli Stati Uniti, gli elementi dannosi (il consumismo, la finanza, il militarismo) e le difficoltà della politica, il racconto alterna le analisi (sempre molto circostanziate) ai toni confidenziali, le digressioni economiche e i risvolti personali e sentimentali, a casa e in Italia (Doug Dowd ha insegnato per anni a Bologna) e così come scrive Bruce Dancis nell’introduzione se “la sua critica al capitalismo americano è incisiva come sempre, sono i ricordi e gli aneddoti della sua notevole vita che sono unici”. È in quelle testimonianze che si sente il suo blues, come l’effetto di una miscela che comprende “il dolore con la rabbia con la speranza con l’amore”. Tutto molto americano, e molto vero.
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