Nessuno come Burroughs ha usato lo strumento dell’intervista per modellare i pensieri, non meno che per renderli pubblici, pur sapendo che “la gente cerca di incasellarti. Vogliono ritrovare l’immagine che hanno di te, e se non succede si arrabbiano parecchio. Scrivere è capire quanto puoi avvicinarti a farlo accadere, è questo lo scopo di ogni arte”. L’abilità nell’arte del confronto è manifesta sia nei dialoghi con Allen Ginsberg (il più assiduo tra i suoi interlocutori), David Bowie, Gregory Corso, Timothy Leary, Brion Gysin, Gerard Malanga, Patti Smith o i Devo sia nei casi più frequenti di cronisti e reporter. Erudito, coltissimo, educato, Burroughs resta comunque anarcoide e fuori posto, in definitiva un outsider, ed è sempre molto concentrato, attento a non lasciarsi distrarre, avvinghiato alle sue numerose ossessioni: le armi e la guerra (“La storia di questo pianeta è la storia della guerra”) gli infrasuoni, l’apomorfina, il potere (“Il denaro? L’idea è che se tu ce l’hai, qualcun altro ne ha bisogno. La ricchezza è fondata sulla povertà. Il potere? Anche qui, è qualcosa di cui hai bisogno perché ce l’ha qualcun altro. Se nell’esercito sei un soldato semplice, la situazione è intollerabile, perciò fai del tuo meglio per salire di grado. È una piramide del bisogno. Una piramide del potere”), la tossicodipendenza, la fantascienza, il cut-up, la CIA, il controllo, il pericolo (“Una merce molto rara al giorno d’oggi, ed è stata monopolizzata dalle agenzie di intelligence e dagli stuntmen”), l’imponderabile (“I sogni sono un indizio di come è fatto lo spazio”) e l’imprevedibile (“Niente è inevitabile finché non accade”). Intervista dopo intervista prende forma una sorta di filosofia che predilige il “contatto” invece della “comunicazione”, e, ancora di più, quella “consapevolezza”, condivisa con gli amici e complici della Beat Generation tra Tangeri, Parigi, Londra e New York perché “un aspetto molto importante dell’arte è che rende le persone consapevoli di ciò che sanno e non sanno di sapere. Questo è vero non solo per l’arte, ma per tutte le forme di pensiero creativo. Una volta compiuta la svolta, c’è un’espansione permanente della consapevolezza, ma sulle prime c’è sempre anche una reazione di rabbia, di sdegno”. È un richiamo coerente e reiterato in tutte le Interviste che scorre contiguo (non a caso) all’idea multiforme del virus, inteso in senso biologico e metaforico, ovvero il linguaggio (“Più è puntuale la tua manipolazione o il tuo utilizzo delle parole, più sei conscio di ciò con cui hai a che fare, di cosa sia veramente la parola. E se sai davvero che cos’è, puoi sostituirla”) e il suo peso nelle mutazioni dell’umanità. A quel punto subentra l’interpretazione di un ruolo, a cui Burroughs dedica spesso e volentieri ampie riflessioni, partendo dal fatto che “se uno scrittore non si sforza di dilatare e modificare la propria coscienza e quella dei suoi lettori, non combina molto. Sono proprio le parole, le sequenze di parole, le sequenze di parole e immagini, e le associazioni connesse a quelle sequenze di parole e immagini, e le associazioni connesse a quelle sequenze di parole e immagini nel cervello, che ti ancorano al presente, proprio qui dove ci troviamo adesso”. Se da una parte sopravvive una concezione molto individuale (“C’è qualcosa di estremamente privato nello scrivere”), dall’altra si rivela una funzione pubblica, essendo convinto “che siano gli scrittori a scrivere ciò che accade. Facciamocene una ragione, le cose non succedono a meno che qualcuno non le scriva”. Negli stati di alterazione letterari prevale la propensione a identificare linee di fuga e universi paralleli svelando familiarità con Fitzgerald (il più influente), Tennessee Williams, Paul Bowles, Mary McCarthy (che più di tutti comprese l’aspetto “carnevalesco” dei suoi romanzi), Carson McCullers, Jean Genet, Graham Greene e Joseph Conrad, ma anche John Le Carré, Stephen King e Frederick Forsyth. La selezione è molto più ampia, ma va pure ricordata, come fa Burroughs, soprattutto nelle ultime Interviste, la dimensione della pittura, sia con la descrizione degli “shotgun paintings” (i dipinti ottenuti sparando contro un pannello di vernice), sia con le derivazioni stesse della scrittura (“Tutto ciò che scrivo è visivo”) che impongono un’ulteriore approfondimento: “Uno cerca di creare la visione di un essere umano. Certamente, le origini della scrittura, e forse di tutte le arti, erano collegate al magico. Le pitture rupestri, in fondo, sono l’inizio della scrittura. Tieni presente che la parola scritta è un’immagine, noi ce ne dimentichiamo ma non abbiamo una scrittura ideografica. La parola scritta è un’immagine, e pittura e scrittura erano in origine una cosa sola. Lo scopo di quelle pitture era magico, dovevano produrre gli effetti che raffiguravano”. Da allora il bisogno che soddisfa l’arte è rimasto immutato ed è “viaggiare nel tempo e nello spazio”, ovvero ancora la dimensione del sogno, che, Burroughs dixit “è una necessità biologica. Credo di tratti di qualcosa che gli artisti in effetti fanno: sognano per le altre persone”. Le Interviste offrono “tante considerazioni e nessuna conclusione”: la visione anzi la “previsione” di Burroughs, (“Creo il conflitto. Non prendo posizione”) resta straordinaria, coraggiosa e profetica. Tanto che, dopo un po’ (bisogna inoltrarsi in un’intricata giungla di più di mille pagine) viene spontaneo leggere soltanto le risposte.
lunedì 31 dicembre 2018
giovedì 27 dicembre 2018
Larry McMurtry
La rapida e intensiva espansione dell’industria ferroviaria sul finire del diciannovesimo secolo impose un cambiamento radicale, a maggior ragione nei territori lungo il confine con il Messico. L’impetuoso sviluppo, che avrebbe modificato per sempre l’ambiente e i territori americani, non poteva permettersi nessun tipo di inconveniente. I binari delineavano una nuova faccia della nazione dato che “fino a quel momento, la civiltà era stata solo una parola astratta in bocca a predicatori, professori e politici”. Viaggiare con il timore di essere rapinati e/o uccisi era inaccettabile e i fuorilegge erano destinati a diventare residui del passato che non potevano (ovvero, non dovevano) intaccare il progresso e gli investimenti. Woodrow Call viene ingaggiato per tutelare gli interessi del colonnello Terry, un veterano della guerra civile alla guida di una compagnia ferroviaria di New York. I pericoli si chiamano Joey Garza, un giovanissimo e abile razziatore cresciuto tra gli apache, e tale Mox Mox, conosciuto anche come il “bruciacristiani”, per l’abitudine di immolare le sue vittime nei falò in mezzo alla prateria. Ormai anziano, dolorante e tormentato dai fantasmi, Woodrow Call è stato scelto perché “viveva sul confine da quando era nato e, lì sul confine, il capitano era conosciuto come l’aria, o la luna” e la sua missione scatena un movimento tellurico lungo tutto il border. Le strade di Laredo si riempiono di protagonisti singolari in cui Larry McMurtry concentra lo “spettacolo atroce” della frontiera. Hanno tutti un motivo per partire sulle tracce del capitano Call e attraversando in continuazione il confine tra Texas e Messico, marciando e cavalcando in un paesaggio impervio e poverissimo, “chissà come, si era messa in moto una catena di fatti, e i fatti adesso erano sempre più privi di senso, somigliavano sempre meno a quello che doveva succedere nella sua vita”. Woodrow Call, che si è nutrito di violenza per tutta la vita, è solo, anche se circondato da una miriade di personaggi. Il più vicino è Brookshire, un contabile yankee incaricato dal colonnello Terry di tenere ben salda l’amministrazione della missione nella quale troverà il suo destino perché “c’è sempre un viaggio da cui non si torna”. C’è Famous Shoes, la guida che riassume in sé tutte le contraddizioni della corsa verso il West: è legato in modo indissolubile agli elementi naturali e magici, ha mangiato gli occhi di un’aquila nella speranza di acquisirne la vita ed è capace di rifugiarsi nelle tane dei serpenti a sonagli, ma vorrebbe imparare a leggere le “tracce” sui libri ed è anche particolarmente sensibile all’economia di mercato. Si inseguono e si incontrano ramificazioni del passato, i sopravvissuti di Lonesome Dove: Maria (la madre di Joey Garza), a cui il capitano ha sterminato la famiglia, Lorena e Pea Eye, Clara e Bol, Billy Williams e Charlie Goodnight, e gli inevitabili messaggeri di morte. Si distinguono lo sceriffo Joe Doniphan, poi Roy Bean, giudice in una cittadina senza legge, e il leggendario John Wesley Hardin (memorabile il dialogo con Mox Mox). Larry McMurtry sa che “la vita fa diventare tutti strani, se riesci a vivere abbastanza a lungo” e Le strade di Laredo vedono compiersi una moltitudine di metamorfosi nei contrasti tra prede e predatori, uomini e donne, madri e figli che si protraggono fino all’epilogo, costruito con una raffica di brevi paragrafi, quasi una scoppiettante reazione a una lunga e densissima epopea. Comprensiva, va da sé, di Lonesome Dove: conoscere i precedenti non è indispensabile, ma di sicuro senza averlo letto di perde un bel po’ del senso di quello che succede dentro Le strade di Laredo. I rimandi sono continui, alimentati da spettri ingombranti (Gus McRae, ma anche Blue Duck) e dal terreno comune, un universo senza legge e senza giustizia che scorre parallelo al Meridiano di sangue di Cormac McCarthy. Larry McMurtry ha un taglio più cinematografico e meno lirico, ma, non di meno, Lonesome Dove e Le strade di Laredo costituiscono un’opera enorme sul West, e sugli uomini e sulle donne nel corso di un’era caotica e brutale, destinata a scomparire in una nuvola di vapore.
martedì 18 dicembre 2018
Jim Harrison
Il grande capo è il romanzo di “un drogato di ricordi”: Sunderson, il protagonista, deve aver preso la mano a Jim Harrison portandolo a spasso (come se l’identificazione con il personaggio fosse completa, alcol compreso). I rilievi autobiografici compongono soltanto una parte della personalità di Sunderson che riassume in sé i tratti di molti personaggi di Jim Harrison, tra cui gli tormenti di Robert Corvus Strang il protagonista di Luci del Nord e gli appetiti di Nordstrom in L’uomo che rinunciò al suo nome (una delle “leggende dell’autunno”), tutti uomini in bilico, con vite inzuppate d’alcol e consumate fino al midollo. En passant, c’è anche un minuscolo richiamo a Un buon giorno per morire, ma la differenza è che Sunderson è un investigatore della polizia del Michigan, con un matrimonio fallito alle spalle perché “quando si passa tutto il giorno a monitorare i comportamenti peggiori della specie umana si finisce per portare il lavoro a casa”. Gli succede anche negli ultimi giorni della sua carriera quando gli si presenta davanti Il grande capo ovvero ovvero G. C., o Dwight, o Daryl guida una setta che condensa le uniche e impellenti necessità di “sesso, denaro e religione”. Tra i suoi riti di iniziazione (oltre a impossessarsi di percentuali significative dei patrimoni degli adepti), predilige l’abuso di bambine, particolare quest’ultimo che rende Sunderson particolarmente sollecito e reattivo nelle indagini. Solo che, proprio mentre sta cercando le prove e le testimonianze per incastrarlo, per Sunderson scatta l’ora del pensionamento e si ritrova nelle condizioni di affrontare dilemmi rimandati a lungo, a partire dalla scoperta della propria fragilità. Libero di pensare, con la mente “diventata un tavolo da ping-pong”, Sunderson vagheggia tra passioni più o meno innocue (la pesca al salmerino, la ricerca storica) e un’attrazione irresistibile verso l’universo femminile che lo porterà a districarsi tra Roxie, Carla (un’emissaria del grande capo), Lucy, Melissa, Diane (l’ex moglie) e Mona. Quest’ultima, appena sedicenne, è la sua vicina di casa, è stata abbandonata dai genitori ed è molto intraprendente e volitiva. Sunderson nutre sentimenti protettivi nei suoi confronti, ma non può esimersi di lasciarsi sfiorare da un’attrazione tutt’altro che filiale. Il tocco irriverente di Jim Harrison si vede in questi giochi di rifrazione di cui Il grande capo è farcito come un tacchino oversize nel giorno del Ringraziamento, tanto che più ci si addentra nella lettura e più si viene risucchiati nei ghirigori esistenziali di Simon Sunderson. L’inseguimento al leader della setta religiosa, un’occasione fin troppo ghiotta per Jim Harrison per smascherare la ricerca di “una spiritualità artificiosa”, lo porta in Arizona, dove le giovani seguaci gli tendono un agguato a colpi di pietre. La scena della lapidazione è la svolta, e non soltanto per gli inevitabili richiami biblici. Da storico dilettante, Sunderson dovrebbe sapere che, come diceva il citatissimo Bernard DeVoto in A Treasury Of Western Folklore “la storia è l’espressione sociale della geografia e la geografia del West è violenta”. Da quel momento Sunderson comincia a rilanciare le sue attenzioni verso una stramba famiglia (la sua) che va allargandosi, si concede il tempo necessario per esplorare la wilderness nel West e nella Penisola Superiore, riallaccia legami e lascia fiorire piccole e grandi ossessioni letterarie (compresi Gary Snyder, D. H. Lawrence e l’immancabile Hemingway). Senza dimenticare Il grande capo, ma avvicinandosi con cautela, come se a ogni passo dovesse scavalcare i suoi (numerosi) limiti, che uno dopo l’altro, compongono “i detriti della sua mente” L’introspezione e l’indagine si sovrappongono e negli appunti di Sunderson, il suo modo per ritrovare un minimo di lucidità, si coagula un flusso di coscienza che costituisce, nei fatti, un racconto parallelo. Il romanzo è macchinoso, contorto e pantagruelico come i suoi spuntini (“Il miglior sandwich di tutta la sua lunga vita: pane di segale con due grosse fette di di punta di petto di manzo e il cren più piccante del mondo, tanto che dai suoi occhi sgorgavano libere lacrime di dolore e piacere”) o il consumo di whiskey, ma nell’ombra di Sunderson cammina Jim Harrison nello splendore di tutte le sue idiosincrasie americane, finale (spassoso) compreso.
venerdì 14 dicembre 2018
Lee Maynard
Già nell’incipit Lee Maynard anticipa tutto quello che succederà a Crum, dove la vita “era uno spasso, un folle vortice di ignoranza abietta, emozioni che traboccano di emozioni, sesso che trabocca di amore, e talvolta un po’ di sangue a ricoprire il tutto”. Stretta in un fondovalle con gli Appalachi all’orizzonte, Crum è un’enclave ripiegata su se stessa e senza via d’uscita. Le opportunità sono le miniere, e i campi, non molto altro. L’attraversano soltanto una strada e una ferrovia che corrono parallele al fiume: sull’altra riva c’è “il Kentucky, terra misteriosa di stronzi bifolchi”. Non che da questa parte sia tanto diverso. La dimensione urbanistica e demografica di Crum è irrisoria: non c’è niente. Le estati sono noiose e calde e, se nelle altre stagioni cambia la temperatura, il tran tran resta comunque quello e trasmette un senso di immobilità e impotenza. C’è un film, quando capita, c’è la sbronza settimanale, ci sono le prediche della domenica, e c’è la scuola, solo che gli insegnanti sembrano capitati lì per caso e, appena possono, spariscono per sempre. Schiacciati tra la faticosa realtà degli adulti, e i coetanei “maiali del Kentucky” sull’altra riva del fiume, che non esitano a tirare il grilletto dei loro fucili, Jesse Stone e i suoi compagni di avventure vagabondano in cerca di guai, ma spesso e volentieri sono i guai che li trovano. Tutto ruota intorno al sesso e al cibo, dato che la dieta quotidiana è piuttosto limitata. Tra le ragazze si distinguono Ruby, una bellezza inarrivabile, e Yvonne: gli equivoci dovuti all’inesperienza e all’incapacità sono raccontati da Lee Maynard senza alcun filtro, con un linguaggio crudo, grezzo e, in definitiva, onesto nel ricostruire lo slang e l’atmosfera dell’America di provincia negli anni della guerra in Corea, visto che “le storie non accadono per caso, bisogna appropriarsene raccogliendole”. L’insofferenza dei ragazzi è epidermica: gli adulti, nel migliore dei casi li ignorano, come se Crum fosse un posto troppo piccolo per contenere tutti, la conformazione del territorio gli lascia soltanto una sottile striscia di bosco dove potersi nascondere e le limitatissime opzioni di Crum li spingono ad alzare il tiro. Quando l’unica attrattiva di rilievo è la macellazione del maiale, quasi un rito pagano, da cui, se va bene, ci ricavano le vesciche da usare come palle da football, non resta che lo scontro frontale, e i fuochi d’artificio. Cominciano con un elaborato furto di carne, proseguono facendo esplodere un paio di latrine finché non arrivano a una battaglia epica con il reverendo Piney nella notte di Halloween. Non è l’unica autorità presa di mira dalla spavalda combriccola di Jesse Stone. Anche Clyde Prince, “un vero figlio di puttana, che amava andare in giro con la pistola e il minuscolo distintivo a rendere difficile la vita della gente”, sarà oggetto delle loro attenzioni. In effetti, più la moglie, Genna, di lui, che “senza ombra di dubbio era la donna sposata più sensuale di Crum”. Al resto, ci pensa l’immaginazione. A quel punto i bravi cittadini, riuniti in assemblea, concordano che è giunto il momento di ripristinare la quiete pubblica, senza andare troppo per il sottile. Tra l’adeguarsi e il subire non resta molta scelta e per Jesse andarsene è qualcosa di più di una partenza. È lasciarsi alle spalle un mondo e acquisire una sorta di cittadinanza perché “un ragazzo che sale fino in cima a una collina, qualsiasi collina, ha il diritto di aspettarsi di vedere qualcosa”. Laggiù rimane Crum e Jesse riflette che “molte volte la cosa peggiore della tua vita può essere il centro della tua vita, l’unica ragione per andare avanti di giorno in giorno, e quando non c’è più, anche se non ti piace, ti manca”. La scelta di andare Lontano da Crum condensa tutta l’urgenza di trovare uno spazio e un futuro che Lee Maynard tratteggia con arguzia, inseguendo le gesta picaresche di una banda di adolescenti. Amaro ed esilarante nello stesso stesso tempo, sullo sfondo, e in rilievo, lascia intravedere il malessere profondo di un territorio poverissimo, disastrato e abbandonato a un destino sgangherato.
lunedì 10 dicembre 2018
Darryl Ponicsan
I protagonisti che avevano scontato a modo loro L’ultima corvé, il romanzo di Darryl Ponicsan poi diventato il celebre film di Hal Hashby, sono invecchiati, ma non sono cambiati poi di molto. Billy Badass tiene fede al nome che si è guadagnato in marina (l’unico che conti, per loro) ed è una spina nel fianco (per non dire di peggio) per tutti. Mule alias Mulhall si è sposato ed è diventato un pastore. È l’unico ad avere svoltato con decisione, anche se il tempo lo ha segnato (si regge a fatica su due bastoni). Anche Meadows ha provato ad arginare le turbolenze del passato, lasciandosi alle spalle gli anni passati in carcere, solo che si trova ad affrontare il dramma di un figlio che torna dall’Iraq in una bara avvolta nella stars & stripes. Larry Meadows si è arruolato nei marines sull’onda emotiva dell’11 settembre, ma anche per “forgiarsi”. Il padre, memore delle sue esperienze di vita militare, l’aveva sconsigliato e, ora, con i due antichi commilitoni deve andare a prenderlo. Lui e Billy Badass insieme strappano il reverendo Mule dall’intimità del suo focolare e della sua chiesa e insieme ricompongono così il caotico trio. L’arrivo della salma è previsto alla base aerea di Dover, nel Delaware, loro partono dalla Virginia sulla macchina di Billy, che ha visto di sicuro tempi migliori. Il viaggio è un’odissea all’andata e ancora peggio al ritorno: Billy Badass si mantiene vivo e scattante a furia di provocazioni ed è una mina vagante talmente perseverante da coinvolgere nel turpiloquio anche Mule. I tre, già insofferenti in gioventù agli ordini e alla disciplina, si ritrovano a ricordarsi che “la vita militare ti colloca in una posizione dove tutto è possibile, e non in senso positivo”, solo che l’irriverenza di Billy questa volta si tinge di una forte vena polemica, che la sua prosopopea sposa con grande trasporto. Sono in viaggio nel dicembre 2003, nei giorni della cattura di Saddam Hussein, il suo tono è spietato e dissacrante e lui è incontenibile sia con i suoi vecchi amici sia che si trovi al cospetto del colonnello dei marines preposto alle esequie. La guerra con l’Iraq, che ai più risulta incomprensibile, per Billy Badass è un affare di stato mal confezionato: se “i sentimenti riciclati tengono in moto la macchina”, il servizio reso al governo miete vittime su vittime tra i giovani americani e trasforma i sopravvissuti in reduci con poche speranze. L’acredine di Billy Badass, in gran parte ben più che giustificata, è tale da portarlo alla convinzione che “quando smetti di credere a quello che dice il tuo governo, cominci a credere quasi a tutto”. Il paradosso, a leggerlo bene, funziona alla perfezione. Nelle loro disavventure lungo la East Coast i “vecchi compagni di bordo” lasceranno disertare un caporale dei marines incaricato di accompagnarli, scopriranno l’esistenza della telefonia mobile (una scena esilarante), e riusciranno a far intervenire agenti speciali non meglio identificati che, in quei frangenti di totale paranoia e in nome della sicurezza nazionale, gli impediranno di salire su un aereo per tornare a casa. Eppure, nonostante le peripezie, i colpi di testa e i continui scontri verbali propiziati da Billy Badass, riusciranno, ancora una volta, a dare un senso alla loro stralunata missione. L’aggiornamento dei personaggi che avevano reso indimenticabile L’ultima corvé funziona perché Darryl Ponicsan tocca con mano i nervi scoperti delle guerre americane e smaschera, attraverso i suoi dialoghi sferzanti, le ipocrisie del patriottismo e l’ambiguità della vocazione bellica nascosta dietro una bandiera, perché la verità, che erutta dalla linguaccia di Billy Badass, è che “quando sei in battaglia non pensi a una causa. Pensi a rimanere vivo”. Proprio come il suo lontano predecessore, L’ultima bandiera è un romanzo anarcoide, urticante, coraggioso, e nel complesso, irresistibile.
venerdì 7 dicembre 2018
Stephen King
Terry Maitland, allenatore di baseball, football e insegnante di inglese, cittadino rispettabile e benvoluto a Flint City, Oklahoma, viene arrestato davanti al pubblico di un intero stadio. L’accusa è aver rapito, seviziato e infine ucciso un bambino di undici anni: le prove e le testimonianze raccolte dal detective Ralph Anderson sono inoppugnabili e il destino di Coach Terry pare segnato. Lo aspetta un tribunale, il carcere, se non la pena di morte, che nell’Oklahoma resta in vigore. Solo che c’è la classica “goccia di inchiostro” a disturbare la soluzione già scritta: nello stesso momento in cui a Flint City veniva consumato il feroce delitto, Terry Maitland era a Cap City per un incontro letterario con Harlan Coben, primo degli omaggi di Stephen King che comprendono anche (e a ripetizione) Agatha Christie, Edgar Allan Poe e Shakespeare. A quel punto, poiché “la gente è cieca a qualunque spiegazione che esuli dalla sua percezione della realtà”, le indagini si rivelano una tragica commedia degli errori che, oltre ad avere condannato Coach Terry, distruggono Ralph Anderson. Stephen King prende il lettore per la gola partendo da un principio elementare: non è possibile che un essere vivente sia nello stesso tempo in due luoghi diversi e con questo assillo dirige il traffico, con pochi sforzi e molto mestiere, lasciando muovere i personaggi che, si capisce, sono sensibilmente confusi dalle bilocazioni, dalle repentine apparizioni e dagli incubi. Sono anche stressati dagli effetti di un sistema giudiziario che è diventato una burocrazia kafkiana al servizio del potere politico e da strumenti di informazione che ne sono la cassa di risonanza. Sono gli aspetti principali su cui The Outsider sviluppa quei primi capitoli che brancolano nei dubbi e/o nel rifiuto di credere a realtà parallele. Con l’entrata in scena, non rimandabile, dell’elemento soprannaturale, il contrasto si posta da un piano giuridico e poliziesco a uno filosofico, perché ci sono infiniti universi che si contorcono nell’estate americana. Accettata, fino a prova contraria, l’esistenza di doppelgänger in grado di vivere esperienze extracorporee, attorno a Ralph Anderson si coagula un’eterogenea comitiva che comprende un poliziotto di origini messicane, un’investigatrice ipocondriaca, un’avvocato di rango e il suo assistente che si scontrano con resistenze che sono molto più reali che ultraterrene (compreso un agente intossicato, alcolizzato e vendicativo). La composizione del team ricorda la squadra di It e al pari del suo capolavoro Stephen King farcisce una storia a effetto con un fitto ordito di richiami alla cultura popolare: il baseball (con la scena dell’arresto di Terry Maitland, con un palla in volo come se fosse l’incipit di Underworld di Don DeLillo), l’onnipresente rock’n’roll (sia lodato), questa volta sul versante della British Invasion, dai Beatles agli Animals, e più di tutto la figura di El Cuco, l’uomo nero d’importazione messicana, dietro cui si nasconde The Outsider. Tutti ingredienti che rendono il romanzo colorito e leggero, proprio mentre il suo tema trainante è oscuro e terrificante. Scovato il mostro, che condensa paure e leggende ancestrali, si scopre che è molto più umano nei suoi appetiti e nei suoi bisogni. L’outsider è tale in senso antropologico. Non è un essere vivente, anche ne assume le sembianze. Non è uno spirito, per quanto riassuma in sé leggende e paure. È vivo, e si nutre di morte, ovvero di tristezza. Potrebbe avere una sua collocazione nell’ecosistema generale se non fosse che condensa attitudini più che sconvenienti: è sadico, pedofilo, cannibale, impotente ed esibizionista, qualità quest’ultima che si rivelerà il suo lato debole. Ma vuole solo sopravvivere e non fa altro che premere sulle paure, sulle ipocrisie e sul fatto che “la realtà è uno strato di ghiaccio sottile, ma quasi tutta la gente ci pattina sopra tranquillamente e il ghiaccio si rompe solo alla fine”. Il racconto è incalzante e la storia si evolve come una figura che emerge dopo aver collegato tutti i punti di una trama invisibile. Non ci sono veri e propri colpi di scena, a parte l’inizio al fulmicotone dove, in effetti, succede tutto, ma la sequenza è sincopata e serrata e, una spira dopo l’altra, Stephen King avvolge il lettore in un’atmosfera di interrogativi e questioni irrisolte. Compresa l’evoluzione digitale che, nell’intreccio complessivo, e scena per scena, assume un ruolo interessante: i gingilli che i personaggi hanno a disposizione alla fine valgono più delle armi che proliferano in Texas. Forse è un messaggio subliminale dello stesso Stephen King (in effetti chi usa una pistola o un fucile qui non fa una bella fine) che invece è chiarissimo fin dall’incipit perché anche a Flint City “le regole erano semplici: quando arrivano gli sbirri, meglio andarsene. La vita di un nero è importante, gli avevano spiegato i genitori, ma non sempre per la polizia”. The Outsider è spaventoso non solo per l’assenza di morale del suo famelico e cupissimo protagonista, ma perché ci ricorda che è la realtà a farci paura.
martedì 4 dicembre 2018
Jerome Charyn
All’apice dell’età del jazz, Francis Scott e Zelda Fitzgerald scrivono che “il successo era l’obiettivo di quella generazione che, almeno in parte, l’ha ottenuto e ora ci azzardiamo a dire che, in una confessione intima, nove su dieci ammetterebbero che il successo è solo un ornamento che desideravano indossare: ciò che davvero volevano era qualcosa di più profondo e di più intenso”. Sono gli epigoni di un’epoca: “sembravano appena usciti dal sole. La loro freschezza era straordinaria. Tutti volevano conoscerli” ha scritto Dorothy Parker e il luogo deputato a celebrarli era proprio Broadway che, nella sua sconsideratezza, viene annunciata così da Jerome Charyn: “Ciò che la deliziava erano le superfici e le strutture più che i significati. Joseph Urban costruì scalinate, non manifesti. E Broadway visse in un esuberante turbine di energia, in una cartellonistica che illuminò la notte, e in un ordine sociale che includeva residence e pensioni, gastronomie e palazzi del vaudeville, locali notturni e cabaret, dove si poteva incontrare ballerine di fila che lottavano per emergere, attrici in pensione che tossivano con violenza in una stanza di fronte a un muro, Jack Johnson che si allenava con la sua ombra in uno scantinato, Babe Ruth che si aggirava nel suo pastrano di pelle d’orso, Billy Rose che assomigliava a un gangster, ganster che assomigliavano al presidente della Paramount Pictures, commesse con tanto di cappello a cloche, veterani della grande guerra tuttora avvolti nelle loro molletterie, detective come Johnny Broderick che una volta aveva ficcato Legs Diamond dentro un bidone della spazzatura, erano tutti elementi di una melodia che fioriva nell’oscurità, che sarebbe stata imitata dappertutto, finché nessuno sarebbe più stato in grado di distinguere la realtà dalla finzione”. La ricca descrizione è eloquente nel definire Broadway: la scrittura di Jerome Charyn è sincopata, influenzata dal ritmo del jazz e dalla frenesia dei gangster, dalle atmosfere notturne e dalle vite arrembanti dei protagonisti che, oltre a Scott e Zelda, sono Damon Runyon (“un outsider desideroso di crearsi una seconda pelle, la pelle di Broadway”), Babe Ruth, Irving Berlin, Jack Johnson, Bessie Smith, Charlie Chaplin, Orson Welles. Le biografie si incastrano una nell’altra, senza soluzione di continuità, concentrando Broadway al centro del fermento delle gang di New York. Si tratta, secondo William R. Taylor, di “un mondo fatto quasi interamente di voci” dove la fame di successo tendeva a sorvolare le imposizioni della legge. I bootlegger prosperavano, le Ziegfeld Follies brillavano, nel vaudeville “il pubblico aveva la sensazione che ogni spettacolo venisse creato appositamente per lui”, le chiacchiere e il giornalismo consumavano relazioni ambigue, i musicisti crollavano, ma la musica non finiva e “Broadway era terra di nessuno, non era East e non era West. Consumava il tuo passato e la tua tradizione”. In quel vacuum temporale, l’incombente senso di pericolo e di eccitazione, che Il grande Gatsby condensava ai limiti della leggenda, è il vero “tratto distintivo” di Broadway, insieme alla sua folle effervescenza. Nella sua appassionata ricostruzione, Jerome Charyn non dimentica di sottolineare i passaggi violenti, brutali e razzisti di cui è disseminata “la nascita di un mito”, così come è molto accorto nel ricordare che “la storia dispone di una sua strana moneta grazie alla quale tutto può essere barattato, e i personaggi possono apparire e sparire per poi apparire di nuovo in un allestimento scenico che fluttua a seconda delle necessità e della musica di ciascun momento particolare”. È teatro, è spettacolo, è vita nelle strade, l’inganno è la norma. Molto bella la coda finale dove Jerome Charyn si ritrova a camminare, appena dopo l’11 settembre 2001, in una Broadway “anemica”, diventata un territorio punteggiato da richiami per turisti e privato di tutta la sua selvaggia bellezza.
venerdì 23 novembre 2018
Ray Bradbury
L’entusiasmo di Ray Bradbury è contagioso. Parte con Buck Rogers, quindi sarà un po’ esplosivo, e lo ammette subito in coda alla prefazione di questa raccolta di saggi dedicati alla scrittura: “Ogni mattina salto giù dal letto e metto i piedi su una mina. La mina sono io. Dopo l’esplosione, passo il resto della giornata a rimettere insieme i pezzi”. Visto così, il rapporto con la scrittura, senza un’adeguata (e sana) dose di ironia lascerebbe intendere una condizione malata o fuorviante, invece Ray Bradbury si avvicina con umiltà sapendo che “ci armiamo ogni giorno, forse sapendo che la battaglia non può essere vinta del tutto, ma combattere dobbiamo, fosse anche solo una battaglia di poco conto. E alla fine di ogni giorno anche il più piccolo sforzo equivale a una specie di vittoria”. La sua prassi prevede una dipendenza incurabile (“Dovete ubriacarvi di scrittura, così che la realtà non possa distruggervi, poiché la scrittura ammette soltanto la giusta dose di verità, di vita e di realtà che si siete capaci di mangiare, bere e digerire senza iperventilare e cadere come un pesce morto sul vostro letto”) che passa, come è inevitabile, attraverso la lettura. Tra i suoi scrittori preferiti chiama a raccolta Dickens, Twain, Wolfe, Shaw, Molière, Dylan Thomas, poi ricorda che “la poesia ti costringe a esercitare muscoli troppo spesso inutilizzati, e questa è una buona cosa. La poesia espande i sensi, li mantiene in condizioni ottimali”. È un additivo superiore, senza controindicazioni e lo zenith a cui possono tendere “le nostre solitarie, individuali libertà”, fino a quando “le parole diventano poesia e non se ne accorge nessuno, perché nessuno ha pensato di chiamarla così. Il tempo è lì. L’amore è lì. La storia è lì. Un uomo ben nutrito custodisce e offre tranquillo la sua infinitesima porzione d’eternità. Sembra una grande cosa nella notte estiva. E lo è, come lo è sempre stato nei secoli ogni qual volta un uomo aveva qualcosa da dire e un altro, quieto e saggio, lo stava ad ascoltare”. Questa è l’esatta dimensione del rapporto con la scrittura (e la lettura) che poi, consapevole di essere “una propaggine della nostra epoca di emozioni-di-massa, divertimento-di-massa e solitudine-in-mezzo-a-una-folla-di-capodanno”, Ray Bradbury modula con un approccio zen, leggero, pop, divertente, eppure prodigo di consigli e di stimoli che cominciano, già nel 1973, con il suggerimento a “prestare attenzione alla propria passione”. Ognuno deve trovare metodi e strumenti adeguati, l’invito ricorrente (e brillante) è di lasciarsi andare finché “verrà il tempo in cui i vostri personaggi scriveranno le vostre storie per voi, quando le vostre emozioni, libere da ipocrisie letterarie e pregiudizi commerciali, faranno esplodere le pagine ed esclameranno la verità”. Come non manca di ribadire lo stesso Bradbury l’attesa deve essere vigile e concentrata in modo univoco dato che “siamo così occupati a guardare fuori, a cercare modi e mezzi, che ci dimentichiamo di guardare dentro”, dove in effetti “tutto quello che c’è di più originale giace già in noi, in attesa di essere evocato”. È un punto di vista speciale e non si limita a coltivare “una gioia privata”, è proprio una scelta decisiva perché “le idee di oggi sono progettate, simulate, elettrificate, arginate e rilasciate per accelerare o rallentare gli uomini. Ed essendo tutto questo vero, come sono rari i film, le poesie, le storie, i dipinti o le commedie che hanno a che fare con il più grande problema del nostro tempo: l’uomo e i suoi favolosi strumenti, l’uomo e i suoi bambini meccanici, l’uomo e i suoi amorali robot che lo conducono stranamente e inesplicabilmente, verso l’immoralità”. Ecco perché Bradbury sostiene che nell’esorcismo implicito alla scrittura “ciò che paga è l’osservazione personale, la fantasia bizzarra, l’idea originale”, che vanno cercate nel lavoro come nel sogno, nel confronto tra “la realtà con la memoria”, nell’accumulo dell’esperienza come nella selezione delle materie prime, fino all’abbandono totale, quando le storie, e i personaggi, prendono il sopravvento e ci ricordano che “abbiamo le nostre arti e non moriremo di verità”. L’innesco di tutto il processo creativo è più naturale e spontaneo, e tale andrebbe mantenuto essendo autosufficiente a scatenare una reazione a catena. È il suo sviluppo che va guidato, nel momento in cui dallo scrittore si passa al lettore, ed è lì che arriva l’ultima, precisissima indicazione di Ray Bradbury: “L’estetica dell’arte racchiude ogni cosa, c’è spazio per tutto l’orrore e per tutta la gioia, purché le tensioni che le rappresentano siano portate fino ai loro estremi confini e lì rilasciate in azione. Non sto chiedendo il lieto fine. Chiedo solo una fine opportuna che tenga conto delle forze messe in campo e una corretta detonazione”. Usare frequentemente, senza particolari cautele, unico effetto collaterale: una leggerissima euforia dovuta al fervore di Ray Bradbury.
mercoledì 21 novembre 2018
John Steinbeck
Nell’autunno 1958, Thom Steinbeck aveva quattordici anni e altrettanti ne aveva Susan, una compagna di scuola che “era molto carina, e molto intelligente”. L’attrazione è corrisposta, ma Susan è una ragazza molto seria, concentrata sugli studi, sulla musica (ascolta Bach e Dvořák) e sulla poesia. In buona sostanza, è una passione platonica, ma abbastanza intensa da indurre il giovane Thom a scrivere al padre per annunciare la scoperta dell’amore. La corrispondenza non è inusuale: John Steinbeck era prodigo di consigli epistolari ai figli e non perse l’occasione per confrontarsi su un terreno tanto fertile e insidioso con il primogenito. Adeguata per l’occasione in un’elegante cornice grafica, la Lettera a Thom sull’amore è composta da due pagine, molto ponderate: le avvertenze cominciano fin da subito, sono misurate e perentorie. Essere innamorati “è la cosa migliore che possa capitare”. Non a livello metaforico o simbolico, ma proprio “in pratica”. L’avviso, a tutela della spontanea bellezza, è molto chiaro: “Non permettere a nessuno di ridurla a qualcosa di piccolo o di poco conto”. La parte immediatamente successiva è quella centrale. L’amore è multiforme, mutevole, variabile, ma noi, non di meno, dipendiamo dalla sua espressione. È un po’ in contraddizione con la premessa precedente, ma Steinbeck sa di dover esplorare tutte le strade per trovare quella giusta: l’amore può assumere sembianze pericolose, può diventare “un sentimento egoista, cattivo, possessivo, egocentrico”. Il formato considerato “più alto” da Steinbeck, “consiste nel riconoscere un’altra persona come unica e preziosa”. Il finale, quasi fosse il verso di una poesia, è un’elegante chiusura e insieme, un’accorata esortazione: “E non preoccuparti che possa non funzionare. Se è la cosa giusta, succede. La cosa più importante è non avere fretta. Le cose buone non vanno mai perdute”. Il monito non cancella l’entusiasmo per la natura biunivoca e traballante dell’amore: “A volte per una ragione o per l’altra quello che provi non è ricambiato ma questo non fa il tuo sentimento meno prezioso o meno bello”. Nella Lettera a Thom sull’amore, colpisce la squisita semplicità delle parole, la chiarezza delle frasi che sembrano strofe di una canzone, i concetti espressi con linearità, limitati all’essenziale, le parole (dirette, naturali) incastonate una per una. La proprietà del linguaggio di Steinbeck, la facilità nell’esprimere una profondità, anche all’interno del rapporto tra genitore e figlio, è la prova di un’attitudine costante e innata, ma anche il frutto di un pensiero efficace, capace di toccare tutta la complessità dell’amore con il dono dell’immediatezza. Si tratta di un piccolo frammento, ma è il riflesso di un’arte delicata che John Steinbeck applica con compostezza, come se si fosse adeguato alla riflessione di Robert Penn Warren quando diceva: “Che cos’è l’amore? Un altro nome per definirlo è conoscenza”. A proposito, ecco qualche notizia in più: all’epoca della corrispondenza John Steinbeck era ormai al suo terzo matrimonio (con Elaine, che “sa che cos’è l’amore”) e, come pare evidente, non gli mancava l’esperienza necessaria a dispensare consigli. D’altra parte, Susan scomparirà senza particolari drammi dalla vita di Thom, che in seguito sposerà poi Gail, con cui resterà fino alla sua morte, sopraggiunta un paio d’anni fa.
martedì 20 novembre 2018
Kent Haruf
Nelle sue “origini” Holt era immaginaria né più né di tutto il resto del West. Siamo sul finire del diciannovesimo secolo e il corto circuito nasce dal fatto che l’arrivo nelle praterie, forzato dalle promesse del governo federale, dai toni enfatici della pubblicità e dagli interessi dell’industria ferroviaria, scoperchiava un’amara verità. L’Eden degli opuscoli non esisteva: la terra era piena di sabbia, il clima ostico e gli alberi, rigogliosi sulle cartoline, erano cespugli aridi e contorti. Il lavoro di contadini e allevatori sarebbe stato duro, faticoso, doloroso, animalesco. Sulle donne, oltre alle infinite incombenze domestiche, gravava anche il peso di edificare una parvenza di civiltà e così come osservava Jonathan Raban in Bad Land “eccolo lì quel mondo: un pugno di famiglie ben vestite e ben nutrite, raccolte attorno al corral. A vederle non si sarebbe mai immaginato che avevano reso possibile quella scena di vicini solidali, totalmente in pace con se stessi, e con gli altri”. Il ritratto, che mette in luce molti dei Vincoli di Ken Haruf, è falsato in giusta misura dalla speranza, visto che non esisteva alcuna possibilità di tornare indietro, ma ha il merito di far risaltare, per contrasto, la personalità di Roy Goodnough. Il suo nome nasconde già un calembour perché è buono, ma non abbastanza: scarica tutte le frustrazioni su se stesso, sulla moglie Ada, sui figli Lyman ed Edith, costretti a sopportarlo, come se non bastassero le asperità della vita dei coloni. Per Roy Goodnough vale, alla perfezione, l’anatema di Walt Whitman: “Maledetto ciò che si consuma senza pensare alle tare, alle sofferenze, agli sgomenti e alle debolezze che sta trasmettendo”. Legami che uniscono, e che dividono: Vincoli racconta la difficoltà di essere figli e figlie, di essere una famiglia attraversata da piccole e grandi scosse, smottamenti lenti e graduali o tratti che si sgretolano all’improvviso. Non sono solo i Goodnough, ci sono anche i Roscoe, e in particolare Sanders che, in quella che è quasi una lettera aperta, illustra direttamente al lettore, i tentativi di comprendere “la semplice, intensa magnifica bellezza del sentirsi vivi giorno dopo giorno, quando di sera vai a dormire nella calda oscurità, soddisfatto del tuo angolo di mondo, e poi ti svegli al mattino ancora soddisfatto e ne sei ben consapevole mentre resti sdraiato per un po’ ad ascoltare in pace il richiamo delle tortore dagli olmi e dai fili del telefono, finché al pensiero di un caffè nero finalmente decidi di alzarti dal letto, scendere le scale e andare in cucina, ai fornelli, per ricominciare tutto daccapo con piacere, addirittura con impazienza”. Il tono del racconto, placido, lineare, senza sbalzi, aiuta a collocare sorprese e colpi di scena, le nascite e le morti, le lunghe giornate impigliate nel filo spinato dei recinti, le fughe e le attese e, più di tutto, quei Vincoli che superano gli steccati “perché quando conosci qualcuno da tutta la vita, cerchi di capire il suo punto di vista. E quello che non riesci a capire, lo accetti e basta”. Sanders Roscoe ci dice che possiamo allontanarci finché vogliamo, quanto possiamo, ma torneremo sempre lì, dove “i legami erano stati sciolti, i confini di casa varcati”. Usando la sua voce, Kent Haruf dissemina possibilità, ma non costringe il lettore a inseguirne nessuna. Si torna lì, a quelle due case sulle colline, attorno a cui ruotano gioie (poche), dolori (parecchi), fatiche (immense) e una difficoltà insormontabile di collimare il tempo, tanto è vero che, Edith aspetta per anni il fratello, e Lyman non le concede nemmeno un attimo per non distrarsi dai suoi fantasiosi viaggi. L’inizio e la fine coincidono e la natura stessa del paesaggio si rivela in tutta la sua essenza quando “gli sforzi umani dimostrano tutta la loro penosa futilità” come scriveva Thomas Hart Benton. Holt, a differenza della Trilogia della pianura, è un po’ più sullo sfondo, delineata ma senza tutti i dettagli che seguiranno, poi. È soltanto una frazione e l’immaginario di Kent Haruf è scomposto, non allineato, più vicino alla cruda realtà della frontiera che all’epopea del suo miraggio. Inevitabile l’accostamento a The River: coincidono gli anni e il titolo della prima canzone, ma soprattutto le esperienze dei protagonisti springsteeniani che nel loro continuo dibattersi tra partenze e arrivi ricordano, né più né meno dei Sanders e dei Goodnough, che certi legami non si spezzeranno mai.
mercoledì 7 novembre 2018
James Still
Ospiti in una radura tra i boschi del Kentucky, i Baldridge raschiano il fondo del barile (dove conservano la carne), a volte sfiorando soltanto un rimasuglio di sale. Oppure raccolgono “zucche selvatiche e altre erbe commestibili”. Se ha le munizioni (il più delle volte non ci sono) il padre va a caccia di scoiattoli e conigli. La fame è persistente: “Non c’era abbondanza di cibo e mangiavamo tutto quello che ci veniva messo nel piatto, senza mai lasciare una mollica, né una briciola”. Come se non bastasse, la casa (poco più di una baracca, piena di spifferi) va a fuoco. È una vita ai limiti della sussistenza, esposta alle intemperie e senza alcun ausilio. Le uniche autorità, lo sceriffo e il prete, si presentano soltanto per la prigione o un funerale. L’ottica è la sopravvivenza, giorno dopo giorno, riassunta così da Brack Baldridge, quando il figlio gli esprime il desiderio (inarrivabile) di avere un puledro: “Non ha senso cercare di guardare troppo lontano. È meglio che tieni gli occhi fissi sulle cose dell’oggi, e lasciare che il resto accada secondo legge e profezia”. Il punto di vista infantile consente a James Still di usare un tono agrodolce che, pur senza mitigare il dramma della miseria, della disoccupazione, di una vita aspra e dolorosa, riesce a definire con precisione la condizione vissuta dalla famiglia Baldridge. Ogni giornata ha la sua pena, e qualche rara, piccola gioia, e, aneddoto dopo aneddoto, si scontrano due prospettive: il padre vorrebbe tornare a fare il minatore, un lavoro che gli ha garantito uno stipendio, la possibilità di spendere i soldi, e una casa. Forse, un minimo di sicurezza, e quel po’ di orgoglio di essere in grado di mantenere la famiglia. La madre vorrebbe restare in campagna dove, con un clima appena favorevole, il raccolto si fa generoso quel tanto che basta ad accarezzare l’idea dell’indipendenza. Anche se la famiglia Baldridge risponde quotidianamente ai bisogni primari mettendo a dura prova la propria dignità, tra queste due opzioni si estende solo un’estrema povertà. La dicotomia, ancora attuale, tra i processi di industrializzazione ovvero di sfruttamento dell’ambiente e delle persone e l’autosufficienza delle piccole comunità rurali, è un solco profondo, una ferita insanabile. In più, come scriveva Alessandro Portelli in Canoni americani, “la miniera diventa a sua volta un passaggio fra mondi visibili e mondi invisibili”, questi ultimi sospesi nell’illusione, in speranze destinate a infrangersi contro gli umori del mercato. Attratto dalle miniere, spinto dalla convinzione di conoscere a fondo il suo lavoro, Brack Baldridge costringe la famiglia ad assecondare l’evoluzione del prezzo del carbone. Gli impianti vengono chiusi e riaperti e chiusi, le giornate di lavoro ridotte, i minatori licenziati. Se sulle colline, come dice il piccolo protagonista di Fiume di terra, “eravamo convinti di passarcela abbastanza bene, per cui non ci lamentavamo”, a Blackjack, un villaggio minerario destinato a diventare una ghost town, devono confrontarsi con un’umanità sconfitta. La vita in miniera ha i suoi pericoli (a partire dalla dinamite) e i suoi limiti che non tardano a manifestarsi: l’accostamento tra i Baldridge e la famiglia di Tom Joad di John Steinbeck (Fiumi di terra e Furore sono contemporanei) è inevitabile, ma la scena finale evoca Mentre morivo di William Faulkner: stessa America, stessa disperazione.
lunedì 5 novembre 2018
Willy Vlautin
Sognare di partire per essere diversi, e poi ritrovarsi altrove, ancora uguali: Io sarò qualcuno è la conferma definitiva del talento di Willy Vlautin, ormai capace di affrontare un tema classico, quasi un cliché, in modo originale e con una voce molto personale. C’è un’idea di riscatto, ancora prima di affermazione o salvezza che spinge Horace Hopper alias Hector Hidalgo, il protagonista di Io sarò qualcuno. È un sogno maturato fissando i ritagli delle fotografie dei suoi pugili preferiti, tutti messicani, perché sono i più duri, quelli che non mollano mai. Un dettaglio importante che serve distinguere l’ambizione dalla realtà, come scriveva Jean Baudrillard in America, “proprio perché l’idolo non è che un pura immagine contagiosa, un ideale violentemente realizzato. Si dice: fanno sognare, ma c’è differenza tra il sognare e l’essere affascinati da determinate immagini”. È lì che Horace vuole diventare Hector, ma sa di avere un limite, sa che per diventare un campione dovrà combattere a lungo, e soffrire, ma in qualche modo dovrà riuscire a lottare con l’avversario più pericoloso: se stesso, perché “è difficile correggere qualcosa che sta dentro di te”. La scelta di Horace è drastica: sui pantaloncini della palestra fa ricamare un mitra Thompson, abbandona l’heavy metal con cui è cresciuto, e decide di lasciare il ranch dove vive e lavora a Tonopah, Nevada con i monti Monitor a far ombra. La sua storia viaggia in parallelo a quella di Mr & Mrs Reese, la coppia che l’ha cresciuto come un figlio: la speranza è il denominatore comune, ma in forme che si oppongono. Loro credono in lui, e vorrebbero lasciargli il ranch, Horace conta solo su se stesso convinto, al contrario, che “devi creare il tuo futuro, e devi farlo da solo”. Per lui il ranch è il luogo dove è tutto fermo, la boxe il mezzo per andarsene e per emanciparsi. Nel viaggio, Horace trova una ragazza incinta con un neonato, una scena che sembra uscita da Angeli di Denis Johnson e Mr. Reese, che lo segue, incontra due ragazzi con un cane malato, gli animali sono onnipresenti quasi a sottolineare un’umanità sfiancata. La rincorsa all’idea di essere qualcuno, nella convinzione (mai confermata) che “se uno lavora duro, le cose si mettono nel verso giusto” lo vede a Tucson, poi Salt Lake City e poi El Paso fino a Las Vegas dove trova la sua versione della Città amara di Leonard Gardner. Le insidie sono inevitabili, ma nel contesto non sono più pericolose del panico che si porta dietro Horace perché “deve essere dura odiare se stessi ogni singolo giorno, è difficile tentare di essere o fingere di essere ciò che non sei. Sono cose che esigono un prezzo”. Potrebbe avere un futuro davanti a sé, è un ottimo incassatore e ha i colpi giusti per risolvere gli incontri, picchia “duro” e picchia “difficile”, ma si trova sempre nell’angolo in preda al panico, immobile, e, come se la sua ambizione lo divorasse, “era come se più si avvicinava a quello che voleva, più si sentiva smarrito”. Dall’altra parte, a Tonopah, la vita scorre lenta e inarrestabile. Mrs Reese non vuole saperne di muoversi, neanche per andare a far visita alle figlie che se ne sono andate da tempo, e Mr Reese si mantiene vigile e attivo smontando e rimontando i suoi mezzi. Loro, a confronto con il futuro limitato, si limitato a pensare di aver “solo bisogno di azzerare e ripartire, una pausa per dare una ripulita e sistemare le cose”. In effetti l’unica occasione di movimento è quando la coppia, sorridente, sale a bordo di un trattore. A volte per la felicità basta un motore che funziona e la scena ricorda da vicino la Trilogia della pianura di Kent Haruf non solo per l’atmosfera rurale, quanto per la la capacità Mr & Mrs Reese di ascoltare e comprendere, quasi una forma di compassione di fronte ai sogni che svaniscono. La mancata redenzione, che è il negativo della vocazione di Io sarò qualcuno, è un destino che incombe su Horace fin dalla scelta dello pseudonimo. Se nell’Iliade, Ettore viene tradito dall’armatura che un tempo era di Achille, Horace è condannato dalla fragilità della sua corazza, una storia che Willy Vlautin sa affrontare con il tatto e il rispetto dovuto ai loser, con il tono sincero di uno sconosciuto che racconta la sua storia al bancone di un bar, senza aver nulla da perdere.
martedì 30 ottobre 2018
Walter Lippmann
La genesi di un’opinione pubblica resta un processo imperscrutabile, difficile da provare, se non in termini scientifici, almeno secondo coordinate razionali. Ciò dipende soprattutto dal fatto che “la mente umana non è una pellicola che registri una volta per sempre ogni impressione che le giunga attraverso i suoi obiettivi e le sue lenti; la mente umana è infinitamente e persistentemente creativa. Le immagini sbiadiscono o si fondono, sono messe a fuoco qui, condensate là, a misura che ne impadroniamo più completamente. Non giacciono inerti sulla superficie della mente, ma invece vengono rielaborate dalla facoltà poetica sino a deviare una nostra espressione personale. Decidiamo il risalto da dare e partecipiamo all’azione. Per fare questo tendiamo a personalizzare la quantità e a drammatizzare le relazioni. Gli affari del mondo vengono rappresentati come una specie di allegoria”. L’opinione pubblica resta lo studio più convincente e adeguato anche a distanza di anni dalla sua prima pubblicazione, e nonostante le enormi trasformazioni storiche e tecnologiche nell’infido campo della comunicazione, l’analisi di Walter Lippmann resta attualissima, a partire dalla constatazione che “nella moderna civiltà industriale il pensiero procedere in un bagno di rumore”. È puntiglioso, metodico, minuzioso e assiduo, ma nello stesso tempo è chiarissimo: molto attento a usare un linguaggio forbito, ma semplice, dipana con precisione i meccanismi che portano alla costituzione dell’opinione pubblica e che, sostanzialmente, sono rimasti immutati. L’orientamento dell’opinione pubblica dipende da numerosi fattori che concorrono in modi diversi a sviluppare un’entità altrimenti indefinibile dove “vecchi significati ne scorrono via, e altri nuovi vi si infiltrano, e il tentativo di conservare il pieno significato del nome è faticoso quasi quanto quello di richiamare le impressioni originarie. Tuttavia i nomi sono una moneta debole per il pensiero, sono troppo vuoti, troppo astratti, troppo disumani. E così cominciamo a vedere il nome attraverso qualche stereotipo personale, a leggervi dentro e infine a vedervi l’incarnazione di qualche qualità umana”. Walter Lippmann riconosce come “il mondo che non vediamo ci viene rappresentato soprattutto con le parole” e “spesso i simboli sono così utili e così misteriosamente potenti che la parola stessa emana un fascino magico”. Il passaggio è un punto di non ritorno nello svilupparsi dell’opinione, in tutte le sue declinazioni, privata e/o pubblica, perché “la nostra prima preoccupazione di fronte alle finzioni e ai simboli è di disinteressarci del valore che hanno per l’ordine sociale esistente, e di considerarli semplicemente una parte importante del meccanismo della comunicazione umana. Ora, in qualsiasi società che non sia talmente assorbita nei suoi interessi né tanto piccola, che tutti siano in grado di sapere tutto su ciò che vi accade, le idee si riferiscono a fatti che sono fuori del campo visuale dell’individuo, e che per di più sono difficili da comprendere”. È la linea di confine che delimita un “ambiente invisibile” costruito con “il nostro repertorio di impressioni fisse” dove censura e propaganda, due strumenti che vivono in simbiosi, possono ingannare, blandire, confondere e, in definitiva, condizionare L’opinione pubblica con la funzione specifica di lasciare inalterato lo status quo perché, come ammette Walter Lippmann, “ciò che tiene insieme la macchina è un sistema di privilegi”, e non altro. Gli anticorpi risiedono nella conclusione “che le opinioni pubbliche debbano essere organizzate per la stampa, se si vuole che siano sensate, e non dalla stampa, come avviene oggi. Vedo questa organizzazione in primo luogo come il compito di una scienza politica che abbia conquistato il suo giusto posto di chiarificatrice dei dati su cui si dovranno basare le decisioni reali, invece che di apologeta, critica o cronista delle decisioni già prese”. C’è una sottile distinzione temporale tra il momento in cui viene formulata un’opinione, e quello in cui diventa di pubblico dominio, ma ancora di più, Walter Lippmann specifica che si tratta anche e soprattutto di uno sforzo che va oltre la cognizione dell’informazione in sé e “nel mettere insieme le nostre opinioni pubbliche, dobbiamo non solo immaginare più spazio di quello che vediamo con i nostri occhi, e più tempo di quello che possiamo percepire, ma dobbiamo descrivere e giudicare più individui, più azioni, più cose di quante possiamo mai contare o immaginare con chiarezza”. Un manuale di autodifesa, da tenere a portata di mano.
domenica 21 ottobre 2018
Edward Bunker
Edward Bunker descrive i bassifondi californiani mettendo in fila una serie di personaggi memorabili: Dummy, guardaspalle muto e perspicace; il tenente Pat Crowley, uno sbirro che non molla l’osso; Momo, un trafficante maldestro; Dorie Williams, l’immancabile femme fatale, e infine Stark. Ernie Stark è il peggio di tutti: è un tossico che crede di misurare la propria dipendenza, è un delatore incapace persino di proseguire i propri tradimenti, è pavido e mellifluo, eppure Edward Bunker lo consegna fiducioso alla nostra empatia perché nonostante tutti i suoi difetti (o forse proprio per quelli), Stark è un sognatore, un outsider persino su un terreno dissoluto e senza speranza. Coltiva una vita parallela dove potrebbero, e dovrebbero, trovare posto la bellezza dell’arte e dell’amore. Nella costruzione della personalità, gli effetti dell’eroina si fanno sentire, distorcendo la cornice in cui Stark si muove: si mantiene a distanza, nella sua casa sull’oceano, come se avesse un’altra possibilità, una vita segreta che attende soltanto di manifestarsi. A fasi alterne, ci crede anche Stark, per poi insinuarsi, ancora, nelle pratiche più torbide e ambigue per riempirsi le tasche di dollari. L’obiettivo è quello di un colpo di dimensioni tali da mettersi in un giro di affari più grande (e magari rilevare un bar, o un’altra attività legale), liberarsi dal giogo della polizia, rallentare l’uso della droga e prendersi Dorie. Può contare solo su se stesso e James Ellroy lo descrive così: “Il personaggio che dà il titolo al libro è un tossico e un truffatore che cerca di riempirsi le tasche di quattrini e le vene di eroina. È in rotta di collisione con gli sbirri. Va in giro a fottere il mondo degli onesti. Va matto per agli abiti di lusso, le macchine veloci, le puttane di classe. Si aggira spavaldo per il mondo del quadruplo gioco. Ha stile. È così cool che è addirittura gelido”. È proprio un bel furfante, inventa un piano dopo l’altro e tutte le storie necessarie per metterli in atto, è cinico quanto inconcludente. Si muove veloce ed elegante, ed è capace di vendersi al miglior offerente, come quando proclama: “Tutto il mondo sta male. È un giungla di leoni, volpi e serpenti. E io sono tutte queste cose insieme quando ce n’è bisogno”. Bunker conosce benissimo il suo personaggio, lo segue da vicino, e sa immedesimarsi nei suoi pensieri. Non aggiunge molto altro, lasciando a quello stile scarno, limitato, preciso, il compito di metterlo in risalto. Come ha scritto Jennifer Steele: “Eddie (Bunker) ebbe la possibilità di osservare il ventre molle dell’esistenza da una prospettiva unica. Non cercò mai di imporre un preconcetto, né di ignorare o distorcere un fatto per rendere una tesi più persuasiva. Era ossessionato dalla verità e dalla ricerca della verità”. Quando Stark è costretto, dalla polizia, dai suoi soci, dalle sue malefatte a nascondersi e a defilarsi. Non ha più alternative ipotizza una fuga con una prospettiva limitata (“Chi se ne fotte. Andiamo all’inferno insieme”), ma è trascinato, con Dorie, verso il Messico, dove lo aspetta la resa dei conti, e una discreta scia di cadaveri. La storia di Stark finirà sulla strada, come è inevitabile, ma con un ultimo colpo di scena, perché con Bunker non si sa mai, le sorprese sono dietro l’angolo.
mercoledì 10 ottobre 2018
Francis Scott Fitzgerald
lunedì 8 ottobre 2018
Anne Michaels
Lettrice onnivora e osservatrice attenta, coltissima, erudita, Anne Michaels in Quello che la luce insegna pare dialogare con i suoi eroi e non si risparmia nell’evocare nelle epigrafi, nei versi, ovunque trovi la possibilità di incastonare il loro nome, Rainer Maria Rilke, Bertolt Brecht, Osip Mandel’štam, Marina Cvetaeva, W. H. Auden o Fëdor Dostoevskij o anche John Berger, richiamato in Profondità di campo. È una scelta di campo, un riconoscersi in un’identità poetica che trova la sua prima casa in Sublimazione: “Noi siamo la melodia e l’accento di un verso, la tensione cantante della poesia in ogni filo nero di parole, e fra il primo e l’ultimo verso. Noi siamo l’angolo di luce che brucia l’acqua, il punto di intersezione che crea prospettiva”. L’identificazione musicale è pertinente alla fragranza dei versi di Anne Michaels che, in Parole per il corpo, è inequivocabile nel ricordare come “abbiamo deciso che la musica è memoria, nel modo in cui parola è la memoria del suo significato”. Il ricco assioma viene srotolato e circumnavigato da Quello che insegna la luce con grazia, decisione e con la convinzione che “l’arte emerge dal silenzio; il silenzio, dal posto di ciascuno nel mondo”. È importante anche ciò che non si sente nella poesia di Ann Michaels e, a volte, diventa preponderante quello che si vede, perché, come scrive in Lago dei due fiumi, “più a lungo guardi a una cosa, più la cosa si trasforma”. Ci si arriva “per accumulo”, con un florilegio d’immagini, un insistente scorrere d’acque: dal fiume che “è una lingua sciolta, un canto popolare” e “di notte scendiamo ad ascoltare”, alla sua naturale destinazione, In arrivo, dove “c’è terra che non lascia mai le tue mani, pioggia che non lascia mai le tue ossa. Parole così vecchie che si staccano da noi, perché possono solo essere staccate. Loro non si lasceranno andare, perché un pezzetto d’amore si è staccato dall’amore, come pietrisco dalla pietra, pioggia dalla pioggia, come il mare dal mare”. L’idea del sedimento viene elaborata e riproposta in continuazione finché, con Stagno del minatore, Anne Michaels giunge a pensare che “la memoria è selezione cumulativa. È un cavo sottomarino che connette un continente a un altro, elettrico nella salsedine della distanza”. Si tratta di una concezione molto dinamica che ritorna, ancora in forma di vibrazione urticante, in La luna dell’altra notte (“Di notte, la memoria ti percorrerà la pelle. I tuoi sogni riveleranno il mondo brulicante, sotto la pietra alzata”) e contribuisce a generare la cognizione definitiva che “noi non discendiamo, affioriamo dalle nostre storie”. Inanellandosi uno con l’altro i versi di Anne Michaels danno forma e sostanza a una vasta comunità di intenzioni e Quello che insegna la luce è che la poesia può ospitare un caleidoscopico balletto di spettri: “volti di spiriti affollati ai finestrini di una Buick del ’64”, la commovente storia dei coniugi Curie (“Ogni cosa che tocchiamo incenerisce, sia che diamo noi stessi o che non ci diamo, lo stesso giorno d’aprile si spande rarefatto, lo stesso pomeriggio invernale si addensa in buio”), Walter Benjamin in esilio, Charles Darwin, che “era stato via cinque anni ma la terra era invecchiata di milioni”, e tutti rispondo all’appello perché “la lingua è il modo dei fantasmi di penetrare il mondo”. L’eleganza della poesia di Anne Michaels, che in Quello che insegna la luce trova qualcosa in più di un efficace excursus antologico, sta tutta nel rispetto di una sequenza quasi matematica (musica, memoria, parola, silenzio) che tra le variabili comprende il tempo (“Una volta pensavo che noi fuggiamo dal tempo, scomparendo nella bellezza. Ora vedo che è il contrario. La bellezza rivela il tempo”) e la lingua (“La verità è il perché del fallimento delle parole. Noi possiamo rivelare solo con un profilo, segnando con un cerchio l’assenza. Ma questo è perché la lingua può ricordare la verità quando non è parlata”), elementi irrinunciabili di una ricerca lirica accurata, profonda e molto generosa.
martedì 2 ottobre 2018
James Anderson
Per essere un deserto, c’è parecchia vita nelle strade dello Utah che Ben Jones percorre con un autoarticolato carico di gelato invenduto. Il suo tratto di competenza, la statale 117 che si perde tra le rocce granitiche e le vestigia di quello che una volta era un villaggio minerario, attira con uno strano potere magnetico le scorie umane da tutta l’America. Resti di matrimoni, avanzi di sogni, rimasugli di sotterfugi e di fede: su una mappa dove i luoghi, non meno delle persone, sono sparpagliati un po’ a caso, il diner di Walt Butterfield, chiuso e inospitale, è il primo avvistamento, poi vengono i “due vagoni merci rossi graffiati dalla sabbia, saldati e piazzati su blocchi di cemento grigio” dove abitano Fergus e Duncan Lacey e, infine, quando è primavera ed esce dal suo letargo, lungo i margini polverosi della 117 appare il predicatore John con la sua croce in quercia massiccia. Il deserto avvolge tutti con il suo sudario bollente e, accanto al diner, un giorno Ben Jones scopre una via che conduce a una casa invisibile dalla 117 e gli si avvicina con tutte le precauzioni possibili: “A una ventina di metri dal portico mi fermai e aspettai un suo cenno. Era così che tutti, ospiti, amici e sconosciuti, si avvicinavano a un’abitazione nel deserto. Non si trattava solo di buone maniere, serviva anche a limitare allo stretto indispensabile il numero delle sparatorie”. Gli incontri sono problematici perché, come spiegava John C. Van Dyke, autore di un’enciclopedia di trentacinque volumi dedicata al deserto (e citato da Alex Shoumatoff in Leggende del deserto americano), “la vita qui non procede nella concordia e nella fratellanza. Ogni essere è in guerra col suo vicino, e in conflitto è incessante. Ogni cosa è predatore o preda”. Ben Jones, che ha già abbastanza guai da solo (tra l’altro, è sull’orlo della bancarotta), si accontenta del suo modus vivendi su e giù per la 117, ma non rinuncia a scoprire quello che una piccola deviazione gli ha offerto perché sa che quello “era il deserto, tutto arrivava insieme, che ne avessi bisogno o no. Ciò che sopravviveva aveva imparato a conservarsi, vivere con cautela e mantenere un profilo basso, persino a sembrare morto per lunghi periodi. Perseveranza e pazienza”. È così, a piccoli passi, con mille tentennamenti, che Ben si innamora (ricambiato) di Claire, attratto dal suono di un violoncello che non sa se ha sentito o visto davvero. Succede spesso: James Anderson miscela con grande abilità i sedimenti di miraggi e ricordi, comprese le motociclette d’annata di Walt Butterfield, le bizzarre consegne di Ben Jones o persino le polpette di crotalo e tutte quelle storie che si incastrano in un capolinea di arenaria, dove ci si accorge che “l’immaginazione è una delle poche cose su cui un uomo può contare, se ha la realtà per alimentarla”. Da lì, la liaison tra Ben e Claire dissotterra (e non solo metaforicamente) i relitti del passato e scatena un’affollata rincorsa di personaggi lungo la 117. Hanno tutti qualcosa da nascondere, e spesso lo fanno usando un sipario di silenzio (solo gli sceriffi e i mormoni, che poi in genere coincidono, sono un po’ più loquaci) finché “la storia segue la forza di gravità, come l’acqua in un’alluvione, alimentando nuove parti di sé per diventare un’altra cosa, più grande e imponente, finché l’entità pura che era un tempo non esiste più”. Tra colpi di scena e colpi di sole, il finale, che vede come centro di gravità permanente proprio Il diner nel deserto, diventa rocambolesco e tragico. L’esperienza nelle pieghe geologiche dello Utah scortica e brucia: il disorientamento, la solitudine, l’aridità delle strade che non hanno nome e si perdono nel vuoto prendono il sopravvento perché “il deserto, alla fine, si prende sempre ciò che vuole”. Quello che lascia è soltanto una luce abbagliante, dove i fantasmi sono più visibili delle persone, forse per effetto dei riflessi o perché “nel deserto, il confine tra ciò che è morto e ciò che è vivo spesso è confuso”. James Anderson riesce a riprodurla come se fosse un quadro di Georgia O’Keeffe, e con Ben Jones ci regala un loser di prima scelta, che sembra il protagonista di Willin’, la canzone dei Little Feat, e che avremmo potuto incontrare in Paris, Texas o in Bagdad Café.
venerdì 28 settembre 2018
Gina Berriault
Nei Piaceri rubati di Gina Berriault (1926-1999), scrittrice da scoprire e riscoprire, si nasconde una trama invisibile, ma che, con un po’ di attenzione, si distingue nettamente. Non ingannino le variazioni d’atmosfera e di ambientazione, che sono repentine e notevoli. Dalle montagne svizzere sullo sfondo degli Scherzi dell’immaginazione al ristorante indiano di Sognando belle donne fino al Messico dove si svolge La ricerca di J. Kruper, Gina Berriault non teme l’eccentricità dei paesaggi e dei luoghi dove i suoi personaggi s’incontrano perché li riporta comunque a una zona grigia dell’esistenza, una terra di nessuno nell’evoluzione della vita dove L’infinito potere delle aspettative (come vuole il titolo di uno dei capitoli più intesi della raccolta) si scontra con la fatale certezza che “le cose vanno e vengono”. Questa dicotomia fa sì che qualcosa rimanga sempre sospeso nell’arco dei racconti di Gina Berriault. Quel “senso di crisi” che attraversa tutti i Piaceri rubati è colto da una scrittura elegante, una sfumatura ottenuta con un processo di sottrazione, che lascia molto spazio al lettore. I racconti si aprono con un ventaglio di possibilità, accennando ad altre storie che rimangono nell’ombra, poi procedono a zig zag, senza punti di riferimento e sono spiazzanti, transitori, quasi l’estensione narrativa di tanti punti di domanda. . In questo ha ragione Richard Ford: Gina Berriault è davvero “unica”, perché tende a fissare momenti che sono evanescenti, friabili in una forma definitiva. La fragilità, incantevole e preoccupante, nella Notte nei giardini di Spagna incorniciata dalla musica, il mood sospeso tra lei e lui, la realtà e il sogno in Morte di un uomo minore (compresa la citazione di Albert Camus) annunciano “l’essenza di una situazione e di un essere umano”. La massima espressione di questo proposito si produce in Chi può dirmi chi sono? quando il bibliotecario Alberto Perera riceve nel suo ufficio un poeta senza fissa dimora, con un formula di benvenuto (“Si prenda il tempo che le serve, ma non qui”) che lascia affiorare il senso tragico della collisione di due (o più, come succede altrove) solitudini. La conclusione è lapidaria: “Ti puoi scervellare sui versi per tutta la vita e non essere mai soddisfatto delle spiegazioni che trovi. Finché avanzando nella melma, finalmente scopri almeno un significato certo, perché è giunto il suo momento, e quello porta con sé migliaia di conferme, raccogliendole in tutti i luoghi in cui si sono nascoste quella notte, nelle loro tane e nei loro covi di cemento”. Vale soprattutto per le donne, madri e figlie, che sono protagoniste indiscusse dei Piaceri rubati, per via della granitica convinzione che sia “un dovere rimanere in piedi per riguardo nei confronti delle batoste imprevedibili”. Battaglie, perdite, sconfitte, dolori e disastri che trovano l’apice della scrittura di Gina Berriault in La luce alla nascita, Il bambino di pietra e Bimba sublime, dove i protagonisti “sapevano che cosa fosse l’amore perché tutto quello che avevano era il loro legame”. Nient’altro: nell’ambito familiare in cui si svolgono le storie è tutto molto transitorio e malinconico e Gina Berriault si pone da una prospettiva singolare, rendendo la dimensione dei rapporti con dialoghi ristretti, limitati, coincisi oppure eccessivi e sfrontati e concentrandosi sulle emozioni, tradotte in immagini vivide, brutali e incisive. Niente trucchi, nessun effetto speciale, nemmeno una piccola decorazione. Proprio come succede a Delia e Fleur in Piaceri rubati, “nessuno sapeva quali piaceri la vita avesse rubato loro o loro alla vita, ammesso che così fosse” ed è l’implicita ammissione di Gina Berriault: l’amore, la speranza, la vita in sé restano un mistero, tanto vale mostrarlo per quello che è.
mercoledì 26 settembre 2018
Henry Miller
Una tortura deliziosa è un coacervo di pagine selezionate dai romanzi di Henry Miller, più sprazzi di lettere e appunti che, nell’insieme, prendono forma e costituiscono uno spettro efficace degli strumenti, delle idee, delle possibilità e dell’imprevedibilità dell’arte e della scrittura in particolare. Come è logico che sia, Henry Miller parte da se stesso, con una considerazione che ha un po’ la forma di una pietra angolare: “Io ho cominciato nel caos e nel buio assoluto, in un pantano o palude di idee, emozioni ed esperienze. Ancora adesso non mi considero uno scrittore, nel senso comune della parola. Sono un uomo che racconta la storia della sua vita, un’operazione che sembra diventare sempre più inesauribile man mano che vado avanti. È infinita come l’evoluzione del mondo”. L’equazione che somma e nello stesso tempo divide l’arte e la vita diventa lo spunto per una ricca serie di congetture, che attingono da La saggezza del cuore (“L’arte è solo un mezzo per realizzare la vita, una vita più ricca. Non è in sé quella vita più ricca. Indica solo la strada verso qualcosa che sfugge non solo al pubblico, ma molto spesso all’artista stesso”) come da da L’occhio cosmologico (“Solo che l’arte, l’arte di vivere, implica un atto di creazione. L’opera d’arte non è nulla. È solo la prova tangibile, visibile di un modo di vivere che, se non è folle, è sicuramente diverso da quello comunemente accettato. La differenza sta nell’atto, nell’affermazione della volontà e dell’individualità. Per un artista è un suicidio attaccarsi al suo lavoro o identificarsi con esso. Un artista dovrebbe essere capace non solo di sputare sull’arte dei suoi predecessori, o su tutte le opere d’arte, ma anche sulle proprie. Dovrebbe saper essere sempre un artista, e infine non essere affatto un artista, ma un’opera d’arte”) e che infine trovano una plastica riduzione quando Henry Miller scrive in una lettera ad Alfred Perlès, che “l’arte più nobile è l’arte di vivere”. I reperti antologici insistono sul tema con un’escalation di aforismi che rendono Una tortura deliziosa una validissima mappatura del pensiero di Henry Miller. Se in Tropico del Capricorno scriveva che “ogni uomo elabora il proprio destino e nessuno può essergli d’aiuto, se non con la sua gentilezza, generosità, pazienza”, altrove non rinuncia alla sua (sacrosanta) vis polemica e ricorda che “un vero uomo non ha bisogno di governi, di leggi, di codici etici o morali, e meno che mai di navi da guerra, manganelli della polizia, bombardieri di grande potenza e cose del genere”, così come specifica di essere “contrario alle rivoluzioni perché implicano sempre un ritorno allo status quo. Sono contrario allo status quo sia prima che dopo le rivoluzioni. Non voglio mettere né la camicia nera né la camicia rossa. Voglio mettere la camicia che più mi piace. E non voglio neanche scattare sull’attenti come un automa. Preferisco stringere la mano quando incontro qualcuno che mi è simpatico. Per dirla in parole semplici, il fatto è che sono decisamente contrario a tutte queste stronzate che si fanno in nome di questo e poi in nome di quello. Credo solo in ciò che è attivo, immediato e personale”. L’aspetto intimo, privato, volendo persino introspettivo (“La vita comincia in qualsiasi momento, con una presa di coscienza”), fanno da contrappunto i suoi rilievi ad alta voce sull’ispirazione (“Se sapessimo cosa significa essere ispirati, non ispireremmo nessuno. Ci limiteremmo a essere”) e sulla felicità (“Mi sento molto felice dei brutti tempi ai quali stiamo sopravvivendo e ai quali siamo sempre sopravvissuti. Sono felice di essere un verme in questo cadavere che è il mondo” scriveva nelle Lettere su Amleto) che poi si riallacciano all’inizio della “tortura deliziosa”. La soluzione è un atto di fede laico e libero e critico, persino nei confronti del connubio tra vita e arte: “Ho fiducia nell’uomo che sta scrivendo, che sono io, lo scrittore. Non credo nelle parole, anche se sono state messe insieme l’una dopo l’altra dal più abile degli uomini: credo nel linguaggio, che è qualcosa che va al di là delle parole, qualcosa di cui le parole danno un’illusione inadeguata”. È il senso, preciso, perfetto, in sintesi di Una tortura deliziosa a cui si può sfuggire soltanto in un modo, come recita a se stesso, con un singolare (e sempre valido) imperativo: “Resta umano! Vedi gente, va’ in giro, bevi se ne hai voglia”. Henry Miller al 100%.