Terry Maitland, allenatore di baseball, football e insegnante di inglese, cittadino rispettabile e benvoluto a Flint City, Oklahoma, viene arrestato davanti al pubblico di un intero stadio. L’accusa è aver rapito, seviziato e infine ucciso un bambino di undici anni: le prove e le testimonianze raccolte dal detective Ralph Anderson sono inoppugnabili e il destino di Coach Terry pare segnato. Lo aspetta un tribunale, il carcere, se non la pena di morte, che nell’Oklahoma resta in vigore. Solo che c’è la classica “goccia di inchiostro” a disturbare la soluzione già scritta: nello stesso momento in cui a Flint City veniva consumato il feroce delitto, Terry Maitland era a Cap City per un incontro letterario con Harlan Coben, primo degli omaggi di Stephen King che comprendono anche (e a ripetizione) Agatha Christie, Edgar Allan Poe e Shakespeare. A quel punto, poiché “la gente è cieca a qualunque spiegazione che esuli dalla sua percezione della realtà”, le indagini si rivelano una tragica commedia degli errori che, oltre ad avere condannato Coach Terry, distruggono Ralph Anderson. Stephen King prende il lettore per la gola partendo da un principio elementare: non è possibile che un essere vivente sia nello stesso tempo in due luoghi diversi e con questo assillo dirige il traffico, con pochi sforzi e molto mestiere, lasciando muovere i personaggi che, si capisce, sono sensibilmente confusi dalle bilocazioni, dalle repentine apparizioni e dagli incubi. Sono anche stressati dagli effetti di un sistema giudiziario che è diventato una burocrazia kafkiana al servizio del potere politico e da strumenti di informazione che ne sono la cassa di risonanza. Sono gli aspetti principali su cui The Outsider sviluppa quei primi capitoli che brancolano nei dubbi e/o nel rifiuto di credere a realtà parallele. Con l’entrata in scena, non rimandabile, dell’elemento soprannaturale, il contrasto si posta da un piano giuridico e poliziesco a uno filosofico, perché ci sono infiniti universi che si contorcono nell’estate americana. Accettata, fino a prova contraria, l’esistenza di doppelgänger in grado di vivere esperienze extracorporee, attorno a Ralph Anderson si coagula un’eterogenea comitiva che comprende un poliziotto di origini messicane, un’investigatrice ipocondriaca, un’avvocato di rango e il suo assistente che si scontrano con resistenze che sono molto più reali che ultraterrene (compreso un agente intossicato, alcolizzato e vendicativo). La composizione del team ricorda la squadra di It e al pari del suo capolavoro Stephen King farcisce una storia a effetto con un fitto ordito di richiami alla cultura popolare: il baseball (con la scena dell’arresto di Terry Maitland, con un palla in volo come se fosse l’incipit di Underworld di Don DeLillo), l’onnipresente rock’n’roll (sia lodato), questa volta sul versante della British Invasion, dai Beatles agli Animals, e più di tutto la figura di El Cuco, l’uomo nero d’importazione messicana, dietro cui si nasconde The Outsider. Tutti ingredienti che rendono il romanzo colorito e leggero, proprio mentre il suo tema trainante è oscuro e terrificante. Scovato il mostro, che condensa paure e leggende ancestrali, si scopre che è molto più umano nei suoi appetiti e nei suoi bisogni. L’outsider è tale in senso antropologico. Non è un essere vivente, anche ne assume le sembianze. Non è uno spirito, per quanto riassuma in sé leggende e paure. È vivo, e si nutre di morte, ovvero di tristezza. Potrebbe avere una sua collocazione nell’ecosistema generale se non fosse che condensa attitudini più che sconvenienti: è sadico, pedofilo, cannibale, impotente ed esibizionista, qualità quest’ultima che si rivelerà il suo lato debole. Ma vuole solo sopravvivere e non fa altro che premere sulle paure, sulle ipocrisie e sul fatto che “la realtà è uno strato di ghiaccio sottile, ma quasi tutta la gente ci pattina sopra tranquillamente e il ghiaccio si rompe solo alla fine”. Il racconto è incalzante e la storia si evolve come una figura che emerge dopo aver collegato tutti i punti di una trama invisibile. Non ci sono veri e propri colpi di scena, a parte l’inizio al fulmicotone dove, in effetti, succede tutto, ma la sequenza è sincopata e serrata e, una spira dopo l’altra, Stephen King avvolge il lettore in un’atmosfera di interrogativi e questioni irrisolte. Compresa l’evoluzione digitale che, nell’intreccio complessivo, e scena per scena, assume un ruolo interessante: i gingilli che i personaggi hanno a disposizione alla fine valgono più delle armi che proliferano in Texas. Forse è un messaggio subliminale dello stesso Stephen King (in effetti chi usa una pistola o un fucile qui non fa una bella fine) che invece è chiarissimo fin dall’incipit perché anche a Flint City “le regole erano semplici: quando arrivano gli sbirri, meglio andarsene. La vita di un nero è importante, gli avevano spiegato i genitori, ma non sempre per la polizia”. The Outsider è spaventoso non solo per l’assenza di morale del suo famelico e cupissimo protagonista, ma perché ci ricorda che è la realtà a farci paura.
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