L’entusiasmo di Ray Bradbury è contagioso. Parte con Buck Rogers, quindi sarà un po’ esplosivo, e lo ammette subito in coda alla prefazione di questa raccolta di saggi dedicati alla scrittura: “Ogni mattina salto giù dal letto e metto i piedi su una mina. La mina sono io. Dopo l’esplosione, passo il resto della giornata a rimettere insieme i pezzi”. Visto così, il rapporto con la scrittura, senza un’adeguata (e sana) dose di ironia lascerebbe intendere una condizione malata o fuorviante, invece Ray Bradbury si avvicina con umiltà sapendo che “ci armiamo ogni giorno, forse sapendo che la battaglia non può essere vinta del tutto, ma combattere dobbiamo, fosse anche solo una battaglia di poco conto. E alla fine di ogni giorno anche il più piccolo sforzo equivale a una specie di vittoria”. La sua prassi prevede una dipendenza incurabile (“Dovete ubriacarvi di scrittura, così che la realtà non possa distruggervi, poiché la scrittura ammette soltanto la giusta dose di verità, di vita e di realtà che si siete capaci di mangiare, bere e digerire senza iperventilare e cadere come un pesce morto sul vostro letto”) che passa, come è inevitabile, attraverso la lettura. Tra i suoi scrittori preferiti chiama a raccolta Dickens, Twain, Wolfe, Shaw, Molière, Dylan Thomas, poi ricorda che “la poesia ti costringe a esercitare muscoli troppo spesso inutilizzati, e questa è una buona cosa. La poesia espande i sensi, li mantiene in condizioni ottimali”. È un additivo superiore, senza controindicazioni e lo zenith a cui possono tendere “le nostre solitarie, individuali libertà”, fino a quando “le parole diventano poesia e non se ne accorge nessuno, perché nessuno ha pensato di chiamarla così. Il tempo è lì. L’amore è lì. La storia è lì. Un uomo ben nutrito custodisce e offre tranquillo la sua infinitesima porzione d’eternità. Sembra una grande cosa nella notte estiva. E lo è, come lo è sempre stato nei secoli ogni qual volta un uomo aveva qualcosa da dire e un altro, quieto e saggio, lo stava ad ascoltare”. Questa è l’esatta dimensione del rapporto con la scrittura (e la lettura) che poi, consapevole di essere “una propaggine della nostra epoca di emozioni-di-massa, divertimento-di-massa e solitudine-in-mezzo-a-una-folla-di-capodanno”, Ray Bradbury modula con un approccio zen, leggero, pop, divertente, eppure prodigo di consigli e di stimoli che cominciano, già nel 1973, con il suggerimento a “prestare attenzione alla propria passione”. Ognuno deve trovare metodi e strumenti adeguati, l’invito ricorrente (e brillante) è di lasciarsi andare finché “verrà il tempo in cui i vostri personaggi scriveranno le vostre storie per voi, quando le vostre emozioni, libere da ipocrisie letterarie e pregiudizi commerciali, faranno esplodere le pagine ed esclameranno la verità”. Come non manca di ribadire lo stesso Bradbury l’attesa deve essere vigile e concentrata in modo univoco dato che “siamo così occupati a guardare fuori, a cercare modi e mezzi, che ci dimentichiamo di guardare dentro”, dove in effetti “tutto quello che c’è di più originale giace già in noi, in attesa di essere evocato”. È un punto di vista speciale e non si limita a coltivare “una gioia privata”, è proprio una scelta decisiva perché “le idee di oggi sono progettate, simulate, elettrificate, arginate e rilasciate per accelerare o rallentare gli uomini. Ed essendo tutto questo vero, come sono rari i film, le poesie, le storie, i dipinti o le commedie che hanno a che fare con il più grande problema del nostro tempo: l’uomo e i suoi favolosi strumenti, l’uomo e i suoi bambini meccanici, l’uomo e i suoi amorali robot che lo conducono stranamente e inesplicabilmente, verso l’immoralità”. Ecco perché Bradbury sostiene che nell’esorcismo implicito alla scrittura “ciò che paga è l’osservazione personale, la fantasia bizzarra, l’idea originale”, che vanno cercate nel lavoro come nel sogno, nel confronto tra “la realtà con la memoria”, nell’accumulo dell’esperienza come nella selezione delle materie prime, fino all’abbandono totale, quando le storie, e i personaggi, prendono il sopravvento e ci ricordano che “abbiamo le nostre arti e non moriremo di verità”. L’innesco di tutto il processo creativo è più naturale e spontaneo, e tale andrebbe mantenuto essendo autosufficiente a scatenare una reazione a catena. È il suo sviluppo che va guidato, nel momento in cui dallo scrittore si passa al lettore, ed è lì che arriva l’ultima, precisissima indicazione di Ray Bradbury: “L’estetica dell’arte racchiude ogni cosa, c’è spazio per tutto l’orrore e per tutta la gioia, purché le tensioni che le rappresentano siano portate fino ai loro estremi confini e lì rilasciate in azione. Non sto chiedendo il lieto fine. Chiedo solo una fine opportuna che tenga conto delle forze messe in campo e una corretta detonazione”. Usare frequentemente, senza particolari cautele, unico effetto collaterale: una leggerissima euforia dovuta al fervore di Ray Bradbury.
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