C’è qualcosa di magico e trascinante nella scrittura di John Barth. Continui cambi di scena e di tonalità (qui si passa dalle trincee della prima guerra mondiale agli eventi lussuriosi di una città di provincia), repentine divagazioni di ruolo tra narratore, lettore (spesso richiamato all’attenzione) e personaggi dentro un flusso di parole enorme, sconsiderato, apparentemente caotico: L’opera galleggiante, forse il capolavoro di John Barth, esprime al meglio il suo enciclopedico e caleidoscopico narrare. Di lui Joseph McElroy ha scritto: “Trame sistematiche concatenate con la vita mentale dello scrittore la quale cerca di difendersi dalle proprie stesse costruzioni che addirittura parodiano il genere pastorale, e un'intelligenza artificiale che si premunisce contro la paura e talvolta contro la serietà, ricorrendo a un umorismo straripante e computerizzato”. Una definizione elaborata, che John Barth gradirebbe perché L’opera galleggiante è un gorgo di linguaggi ed espressioni, tenute insieme dal gusto e dal ritmo per una narrativa senza confini e da una sottile vena d’ironia, esuberante fin dall’incipit: “Per uno come me, le cui attività letterarie dal 1920 in poi si sono limitate alla stesura di documenti giudiziari e alla raccolta di materiale per l’Indagine, la parte più difficile dell’impresa imminente, ossia, il resoconto di un giorno del 1937 in cui cambiai idea, è proprio cominciarla. Mai ho tentato nulla di simile ma mi conosco abbastanza per sapere che, rotto il ghiaccio, tutto diventerà facile, anche troppo, giacché di natura sono un tipo espansivo, e anzi il problema sarà quello di non perdere il filo della storia, e di sapermi azzittire alla fine”. Da lì scorrono vent’anni in cui il principale protagonista, Todd Andrews racconta cosa è successo, dopo aver vezzeggiato e poi tralasciato l’idea del suicidio come panacea di tutti i suoi tormenti. È prolisso quel tanto che basta da comprendere anche un messaggio esplicito che John Barth riserva ai lettori: “Se mai doveste avere da scrivere sul mondo, badate di non lasciarvi adescare dai molti simboli allettanti che semina proprio in mezzo alla vostra strada, altrimenti vi indurrà a dire cose che non vorreste davvero dire, offendendo le persone che più desiderereste divertire. Sviluppate, se vi riesce, la tecnica dei beccamorti e mia: sorridete, certo, perché i cani che scopano sono davvero buffi, ma proseguite senza dire nulla, quasi non ve ne foste accorti”. L’opera galleggiante è un romanze che, con le parole dello stesso John Barth, scopre le connessioni nascoste tra letteratura, storia e territorio perché “la letteratura che parla di storia non diventa quasi mai parte della storia della letteratura. La maggior parte della letteratura che parli di un luogo o un periodo di tempo non riesce mai a elevarsi al di là di quel luogo o di quel periodo. Quando i veri artisti trovano ispirazione in una particolare regione geografica o epoca storica, è probabile che sia perché in quella regione o in quell'epoca trovano un simbolo di ciò che gli sta a cuore veramente, ossia le passioni del cuore umano e le possibilità del linguaggio umano. Di qualunque cosa parli, la grande letteratura parla quasi sempre anche di se stessa”. Il punto è proprio questo: L’opera galleggiante sembra vivere di vita propria e il triangolo tra lui, lei e l’altro è soltanto la metafora avvincente per ricordare il legame tra lo scrittore, il libro e il lettore. Sarà solo un’ipotesi come un’altra, ma arrivati in fondo, è inevitabile pensarci e immaginarsi John Barth che ci sghignazza su.
venerdì 29 giugno 2018
giovedì 28 giugno 2018
Harold Bloom
La monumentale ricerca di Harold Bloom comincia dal tentativo di definire il canone come “una scelta tra testi in lotta per la sopravvivenza” e, passo dopo passo, giunge alla comprensione che “il desiderio di produrre grande scrittura è il desiderio di essere altrove, in un tempo e in un luogo propri, in un’originalità che non può non mescersi con retaggio e ansia di influenza”. Quel senso di aspettativa, enorme e ingombrante, è implicito nell’idea stessa di canone che infatti è considerato “un’ansia realizzata, esattamente come qualsivoglia robusta opera letteraria è l’ansia realizzata del suo autore. Il canone letterario non ci battezza dandoci accesso alla cultura; non ci affranca dall’ansia culturale. Anzi, conferma le nostre ansie culturali, ma contribuisce a dare loro forma e coerenza”. Nella formazione del canone occidentale, i nomi ricorrenti scelti da Harold Bloom sono Cervantes (a partire dalla definizione di Unamuno: “Grande era la follia di Don Chisciotte, e grande era perché la radice da cui cresceva era grande: l’inestinguibile brama di sopravvivenza, fonte delle più stravaganti follie come pure degli atti più eroici”), Dante, Ibsen, Jane Austen, Tolstoj, Freud, Joyce, Borges, Neruda, Pessoa, Kafka, Virginia Woolf ed Emily Dickinson, Montaigne e Molière e Walt Whitman. Per ciascuno di loro, Harold Bloom identifica e attribuisce “con ogni evidenza il fenomeno di una stupefacente eccellenza letteraria, di potenza del pensiero, caratterizzazione e metafora tale da sopravvivere trionfalmente a traduzioni e trasposizioni e da catturare l’attenzione praticamente in ogni cultura”. La linea è chiara e coerente perché secondo Harold Bloom “uno dentro il canone irrompe solo per forza estetica, la quale consiste primariamente di un amalgama: padronanza del linguaggio figurativo, originalità, capacità cognitiva, sapere, esuberanza espressiva”. Un discorso che vale per tutti, anche se sembra di capire che in quello che viene chiamato Il canone occidentale, Shakespeare occupa una posizione superiore e in gran parte irraggiungibile visto che “chiunque tu sia e ovunque ti trovi, egli è sempre davanti a te, concettualmente e quanto a immaginario”. Shakespeare, una vera ossessione per Harold Bloom, è più di un termine di paragone: è una presenza assidua, e torna anche nella “conclusione elegiaca” che chiude Il canone occidentale ricordando ancora una volta che “ogni robusta opera letteraria creativamente fraintende e pertanto interpreta erroneamente il testo o i testi precursori. Un autentico scrittore canonico può o meno interiorizzare l’angoscia per la propria opera, ma ha scarsa importanza: l’ansia è tutt’uno con l’opera robustamente compiuta”. Da lì, con una ricchezza sublime di voci e connessioni, il canone si propone come un’istituzione di equilibrio tra l’aspetto sovversivo della scrittura e la necessità si inserirsi in una tradizione che “non è soltanto un retaggio o un processo di benevola trasmissione: è anche un conflitto tra genio passato e attuale aspirazione, il cui premio è la sopravvivenza letteraria ovvero l’inclusione nel canone”. La disquisizione sulla natura del canone si allarga a comprendere la memoria (che “è sempre un’arte”) e la lingua (“Il significato di una parola è sempre un’altra parola, dal momento che le parole sono simili ad altre parole più di quanto possano esserlo a persone o cose”), accettando infine che, pur nella maestosità delle motivazioni e delle speculazioni, Harold Bloom è il primo ad ammettere che “non è la letteratura che ha bisogno di essere ridefinita. Chi non sia in grado di riconoscerla quando la legge, da nessuno potrà mai essere aiutato a conoscerla o amarla di più”. È allora che il senso compiuto del canone si restringe all’essenziale, ovvero alla drastica consapevolezza che “chi legge, deve scegliere”. Non c’è niente di più vero.
lunedì 25 giugno 2018
Tim O'Brien
Gli uomini del tenente Jimmy Cross affogano nella merda, saltano sulle mine, vengono colpiti dai cecchini e dai mortai, bruciano nella polvere e marciscono nella pioggia, e nella noia. Vivono di superstizioni, di paura e di tutto quello che si portano dietro. L’elenco materiali, delle armi, dei protocolli, delle tempistiche, dei codici, dei gesti e delle scelte previsti dalle “procedure operativa standard” è comprensivo di tutte le “cose” che i soldati devono portarsi dietro, in ogni condizione e sotto il fuoco nemico, e quando provano ad abbandonarle lungo i sentieri del Vietnam perché superflue, pesanti e inutili, le vedono ripristinate dagli elicotteri. Una plateale assurdità che si somma a qualcosa che “non era battaglia, era soltanto una marcia infinita, di villaggio in villaggio, senza scopo, senza che si conquistasse o si perdesse niente”. Una prova di forza insensata che spacca l’Americain modo irreversibile. Tim O’Brien rappresenta bene la frattura, che nasce ancora prima del conteggio quotidiano delle vittime. Parte proprio dalla chiamata alle armi: nella sua mancata diserzione in Canada, “tutto si rimescola, i cliché si confondono con le emozioni e alla fine non riesci più a distinguere gli uni dalle altre”, e alla fine decide di arruolarsi per inerzia. Ben presto la guerra si rivela per intero una “questione di postura e trasporto, sgroppare era tutto, una specie di inerzia, una specie di vuoto, un ottundimento del desiderio e dell’intelletto e della coscienza e della speranza e della sensibilità umana”. Dentro quella bolla si sviluppa un proliferare continuo di storie che servono a “rendere presenti le cose”, a sopportare la “vita notturna” e a raccontare “le vite dei morti”. Come a suo tempo Dispacci di Michael Herr, anche Le cose che portiamo cerca di spiegare “la sensazione di un crepuscolo permanente” attraverso le pieghe del linguaggio, ed è lì che si rivela un romanzo scomodo, spiazzante e sempre attuale. Con i continui cambi di prospettiva, che diventano reiterazioni insistenti, lascia attoniti per le modalità di interpretazione e per la sincerità nel mostrare lo stupore davanti “a qualcosa di essenziale, qualcosa di inedito e profondo, un pezzo di mondo talmente scioccante da non avere ancora un nome”. A quel punto diventa evidente che “la particolarità di una storia è che mentre la racconti la sogni, nella speranza che allora anche gli altri possano sognarla insieme a te, e in questo modo il ricordo e l’immaginazione e il linguaggio si fondono per creare spiriti nella mente. C’è l’illusione dell’essere vivi”. Se le storie servono a sopravvivere più di un M16 carico e pronto a sparare, la distorsione della realtà generata dalla guerra resta la ferita più grave, e non guarisce nemmeno quando tornano a casa perché anche Tim O’Brien, proprio come cantava Bruce Springsteen nel finale di Born In The U.S.A., spiega che non c’è nessuno posto dove correre, nessun posto dove andare. Rimangono “le cose che gli uomini si portano dentro. Le cose che gli uomini fanno o sentono di dover fare”, e non sono molte. Tim O’Brien comincia allora un lungo cammino a ritroso perché “raccontando storie oggettivi la tua esperienza. La separi da te. Fissi determinate verità. Altre ne inventi”. Sono quelle Le cose che portiamo e che condurranno Tim O’Brien a rivedere se stesso, a ritrovare il Timmy dell’infanzia fino a tornare in Vietnam in un pellegrinaggio nei luoghi dei caduti, insieme alla figlia sapendo che “il problema del ricordare è che non dimentichi. Il materiale lo prendi dove lo trovi, ossia dalla tua vita, all’intersezione fra passato e presente. Il traffico dei ricordi confluisce in una rotatoria dentro la testa, e lì continua a girare in tondo per un po’, ma ben presto sopraggiunge la fantasia e il traffico si mescola e schizza via per mille strade diverse. Come scrittore, tutto quello che puoi fare è sceglierne una e buttarti, mettendo giù le cose man mano che ti vengono incontro. Ecco la vera ossessione. Tutte quelle storie”. Non rimane molto altro.
sabato 23 giugno 2018
Charles Simic
C’è una teatralità, nella poesia di Charles Simic, fatta di immagini e di contrasti forti, segnalazioni cibo, di vino, di vita a New York, ma anche di vero e proprio teatro con il suo palcoscenico, e il suo sipario, e, più di tutto, le sue maschere. Nella lunga teoria di poemi in prosa da cui prende forma Il mondo non finisce, Charles Simic plasma un ibrido che esordisce con un’epigrafe rubata a Fats Waller. Non è una scelta qualsiasi: il ritmo è costante in tutte le divagazioni, l’improvvisazione è in agguato e la sana follia del jazz è trasposta nei versi con grande nonchalance, tanto è vero che Charles Simic ammette: “Questo è ciò che mi è successo. Le letture che ho fatto non hanno illuminato la mia esperienza. Eccomi qui, in un mondo che non ha senso”. Spiazzante, e siamo solo all’inizio o, forse, alla fine: la contraddizione pare inevitabile perché non è raro trovare qualcosa che va al contrario, così come è facile trovare schemi ribaltati. Può essere la corrente di un corso d’acqua (“C’è ancora tanta quiete al mondo. Si può sentire il vecchio fiume, che nella sua confusione a volte si scorda e scorre verso monte”), una rarefatta percezione del tempo (“Dall’inizio del mondo non c’era mai stata così poca luce. Si sa che i nostri pomeriggi d’inverno sono durati a volte cent’anni”), un tratto surreale (“La pietra è uno specchio guasto. In essa nulla, se non penombra. La tua penombra o la sua, chi lo sa? Nel silenzio assoluto il tuo cuore ha il suono di un grillo nero”): la poesia di Charles Simic usa la lingua come una frusta, l’accorda a un’attenzione selettiva per arrivare a una metodica, per quanto paradossale, cernita tra realtà e immaginazione. Lo spiega con maggiore precisione un altro grande poeta, Mark Strand: “Le poesie di Charles Simic rivelano con chiarezza essenziale il profilo e le caratteristiche di un mondo che inventiamo in segreto, che segna le nostre vite nel momento della loro massima intensità, e che noi troppo spesso neghiamo perché è più reale di qualsiasi altra cosa a noi nota. La sua opera è pervasa dal senso che le immagini procedono gli oggetti, che il mondo è una creazione della favole, che nulla equivale a ciò che pensavamo che fosse, ma che in qualche modo sospettavamo potesse essere”. La formula è avvolgente: l’impianto narrativo è ridotto ai minimi termini, i versi sono i chiodi che tengono insieme tutta la casa. Mezza dozzina di righe, proprio quando Il mondo non finisce è a metà cammino, bastano a rappresentare in modo esemplare lo sguardo di Charles Simic. È un angosciante quadro agreste: “Il vecchio contadino in salopette che penzola da una trave nella stalla. Le mucche guardano di traverso. La vecchia con il vestito nero della domenica, inginocchiata sotto i piedi che oscillano, tocca la terra con la fronte come una maomettana. Fuori il cielo è pieno di nubi su un campo arato senza fine e senza alcun punto di riferimento in vista”. Preciso, spietato, inequivocabile. Altrove, si capisce che se “la follia della situazione era così affascinante, e la notte così fredda” o che, come si legge in Lezione di storia, se anche “gli scarafaggi sembrano zotici comici in drammi seri”, comunque Il mondo non finisce, ma “è ancora falso, crudele e bello”. Il capolinea di Charles Simic, nel turbolento 1989, è, di fatto, un’elegia, condita da una congrua dose di realpolitik, che si rivela anche salvifica, alla fine: “Il tempo dei poeti minori è alle porte. Addio Whitman, Dickinson, Frost. Benvenuti voi la cui fama non andrà mai oltre i parenti più stretti e forse un paio di buoni amici riuniti dopo cena attorno a una caraffa di aspro vino rosso”. Sì, Il mondo non finisce, ma se proprio dovesse succedere tanto vale sia con una sbornia, e un ultimo briciolo di poesia.
venerdì 22 giugno 2018
Jane Alison
Non c’è rimedio contro l’amore, e nemmeno per la sua assenza. In fondo a una lunga stagione di relazioni, comprensiva di fidanzati provvisori e sfuggenti, nonché di un matrimonio naufragato per inerzia, J si ritrova nella caratteristica condizione di “no love”. Trent’anni di disastri con gli uomini” e dopo un mese trascorso in un ultimo tentativo di convivenza, è in transito, si ritrova a scrutare un “cielo di ioni danzanti” e a considerare le curve del limbo a cui è giunta. J alias Jane Alison tiene un registro lineare, quasi un diario, con Ovidio che non è soltanto il suo lavoro, ma una forma di pensiero ricorrente. È utile ricordare che il Leopardi diceva che “l’arte di Ovidio di metter le cose sotto gli occhi, non si chiama efficacia, ma pertinacia”. La convinzione, l’ostinazione e la persistenza con cui J rimane a metà strada nel suo tentativo di rendersi indipendente dall’amore (e dal sesso) sono gli elementi vitali che determinano il ritmo del suo soggiorno a Miami. Imprigionata in un condominio che ricorda da vicino quelli degli incubi ballardiani, disturbi della quiete pubblica e piscina a forma di clessidra compresi nel prezzo, l’esilio di J una scelta che è un limite in sé, ma che si apre su una vastità tutta da esplorare. Miami è “uno scenario” mutevole che incastra la vita notturna e l’angolo di riposo dell’età avanzata, la solitudine e la folla in continuo movimento, un assurdo brulicare di colori sgargianti, la speculazione edilizia e lo splendore della wilderness tropicale dove, e qui, sì, è bene ricordare Ovidio,“tutto si trasforma, nulla perisce. Lo spirito vaga e da lì viene qui e da qui va lì e s’infila in qualsiasi colpo, e dagli animali passa nei corpi umani e da noi negli animali e mai si consuma”. Tra iguana, opossum, mante, tarponi, squali e altri predatori, le forme della Metamorfosi e quelle che popolano il golfo di Biscayne tendono a sovrapporsi, al punto che J si ritrova a identificarsi in un’anatra “sbrancata”, che prova ad aiutare (senza successi degni di nota) in un habitat che non è né naturale né artificiale. L’anatra bisognosa e comunque inafferrabile ha una logica solidissima. In un mondo immerso nella salamoia dell’incomunicabilità, con gli uomini come “inutili reperti storici” di legami traballanti e punteggiati dal sesso (e nient’altro) e con le persone che si chiamano N, M, P, K, gli unici appigli nella routine di J (oltre a Ovidio) rimangono Buster, il gatto cieco e magrissimo e incontinente, e la madre con cui si scambia messaggi a distanza. Sono soltanto minuscole particelle in un intenso traffico di “ioni”, una delle parole più usate da Jane Alison, e dunque valida metafora di entità derivanti da un processo di scambio, di accumulo, di abbandono o di collisione. L’eziologia dell’amore secondo J si scontra con “la gigantesca ragazza di luce che balla a ovest della baia, e il suo compagno, il gigantesco orologio a est”, simboli che irradiano e sovrastano la solitudine al ristorante nel ventunesimo secolo, a cui ben si adattano le parole di Ovidio: “E poiché ormai mi sono slanciato su questo vasto mare e corro a vele spiegate col vento in poppa: in tutto il mondo non c’è cosa che duri. Tutto scorre, e ogni fenomeno ha forme errabonde”. C’è una leggerezza, molto pop e molto attraente nello stile di Jane Alison, ma nella promiscuità di Miami prendono forma, inequivocabili, i fasti del canone americano. Per quanto disposti su piani sfalsati e mimetizzati tra colori sgargianti e miraggi remoti, i quattro simboli ricorrenti identificati a suo tempo da Harold Bloom ci sono tutti: mare, madre, notte, morte. L’amore, un’altra volta.
mercoledì 20 giugno 2018
K.C. Constantine
Il complicato processo di deindustrializzazione indotto dalle reaganomics ha trovato nel corso degli anni valide testimonianze in Roger & Me, il documentario Michael Moore, nei romanzi Io sono Red Baker di Robert Ward e Ruggine americana di Philippe Meyer e, più di tutti, nelle canzoni di Bruce Springsteen, che ha attinto a piene mani anche a Journey To Nowhere di Dale Maharidge e Michael Williamson, un viaggio nell’incubo della disoccupazione e della miseria intrapreso nel 1982, lo stesso anno di Il mistero dell’orto di Rocksburg. Il milieu è quello ed è fondamentale perché Rocksburg, Pennsylvania, è una piccola e disorientata comunità di minatori che rispondono ai cognomi di Fiori, Muscotti, Bellotti, Renaldo e poi Petrolac, Ripulsky, Stramsky, Stuchinsky, Czekaj, Skobolo, tutti italoamericani e mitteleuropei (serbi, in particolare). La stagione che devono affrontare è la più difficile perché, come dice Jimmy Romanelli, il personaggio (in contumacia) che alimenta Il mistero di Rocksburg: “il mio lavoro non c’è più. Non sono io che ho lasciato il lavoro. È il mio lavoro che mi ha lasciato, c’è una grande differenza”. Del suo destino si dovrà occupare, Mario Balzic (protagonista di una lunga serie di romanzi), un capo della polizia insofferente all’autorità, con un’avversione singolare verso i suoi diretti superiori, che poi sono il procuratore e il sindaco. Lo scontro triangolare è memorabile: Mario Balzic non le manda a dire, sente ovunque odore di corruzione e si deve destreggiare tra tagli del personale, promozioni inopportune e le incombenze quotidiane. Si ritrova a mangiare da solo e mezzo ubriaco e quando non lavora, deve fronteggiare una famiglia tutta al femminile (la madre, la moglie, due figlie). È un veterano della vecchia scuola, poco avvezzo alle pistole e molto di più alla riflessione, capace di consumare chilometri su chilometri seguendo il fiuto ed è immerso nelle angosce della cittadina al punto di pensare che “a volte era meglio correre via da qualcosa piuttosto che verso qualcosa, anche se dovevi dire il contrario per evitare che la gente ti guardasse in modo strano”. Quando viene richiamato da Frances Romanelli per la scomparsa del marito Jimmy, il primo indizio è ancora la disoccupazione: “Non sta lavorando. Suppongo sia una cosa che cambia qualsiasi persona. Fino a un certo punto lavori, porti a casa i soldi, il mondo non è così male. Poi smetti di lavorare, porti a casa l’elemosina che ti concede lo stato fino a quando non si esaurisce, e ti sembra che il mondo non valga un fico secco”. Potrebbe essere vittima dei suoi traffici con il gioco d’azzardo e (forse) con la marjiuana, ma non ci sono prove concrete, se non un legame antico tra il padre di Frances e quello di Mario che erano soliti ritrovarsi a bere e a discutere e a mangiare peperoncini e a parlare di diritti, trattative e scioperi. Due uomini per cui la resa non è mai stata un’opzione e che i bambini guardavano come monumenti. Quei ricordi sono l’unico appiglio: Mario Balzic sa che “ci sono solo tre modi per ottenere le informazioni, tutte le informazioni. Sei tu ad aver quell’informazione, parli con qualcuno che ce l’ha o leggi qualcosa scritto da qualcuno che ce l’ha” e conduce le indagini passando da un bar all’altro, dove prende forma una carrellata di volti e di storie. K.C. Constantine mette le persone davanti a tutti: i personaggi schizzano sulla pagina, sono vitali, vividi, anche quando gli tocca una singola apparizione. Con poche frasi e tutti i dettagli al posto giusto riesce a definire un’umanità dolente, Mario Balzic più di tutti, perché K.C. Constantine lo segue per raccontare la dissoluzione di un’intera civiltà, che al lavoro affidava la propria dignità non meno che ogni altra speranza. Il mistero dell’orto di Rocksburg e della scomparsa di Jimmy Romanelli tocca a lui risolverlo (e al lettore scoprirlo), ma quello che importa è la crudele trasformazione di una comunità costretta ad arrendersi e a ripiegarsi su se stessa. L’ostinazione di Mario Balzic (“Metti alla prova la tua esperienza e vedi come funziona. E continui a fare qualsiasi cosa funzioni finché non funziona più e a quel punto provi qualcos’altro”) permette di affrontare Il mistero dell’orto di Rocksburg, ma non può fare nulla di più quando tutto diventa solo “un puro fattore economico”. Succedeva già nel 1982, e guardate un po’ dove ci ha condotti quella lunga corsa nel vuoto.
mercoledì 6 giugno 2018
James Lee Burke
Tra le infinite puntate della saga di Dave Robicheaux, il detective più famoso e tormentato della Louisiana, La ballata di Jolie Blon è quella dove aleggia con convinzione un’atmosfera metafisica, quasi spirituale. Nell’occasione, il suo avversario principale (e il più pauroso, a dir la verità) si chiama Legion Guidry ed è un aguzzino che nel fiore dei suoi anni era solito abusare delle donne (di colore). Rimasto impunito, con l’età ha cominciato ad apprezzare il sapore aspro del l’arroganza, somministrata sulle fondamenta di un becero razzismo e nel solco dei ricordi della schiavitù. Inevitabilmente, l’anarcoide Robicheaux sente subito puzza di bruciato, non appena lo sfiora perché per lui Legion Guidry è “la rivelazione di una potente presenza maligna in un uomo che sembrava diverso da tutti gli altri”. La sua è una figura che si staglia e si incastra alla perfezione sullo sfondo della Louisiana (e di New Orleans e New Iberia in particolare) che fornisce l’humus ideale per il proliferare dell’intricata storia che scorre con La ballata di Jolie Blon. James Lee Burke non concede alcuna prova d’appello nel descrivere un habitat affascinante e crudele: “Innamorarsi della Louisiana in un certo senso è come innamorarsi della biblica meretrice di Babilonia. Cerchiamo di sorridere, della sua politica da circo, dei suoi demagoghi sudaticci e fradici di whisky, dell’ignoranza alimentata dalla povertà e dall’isolamento delle culture cajun e afrocaraibiche. Ma i nostri atteggiamenti autodenigratori sono un misero modo per celare le realtà che si possono scorgere ai margini del campo visivo come sbavature su un ritratto di famiglia”. I conflitti dell’ambiente sono i riflessi perfetti dei tormenti interiori di Dave Robicheaux (l’alcol, il Vietnam) che nell’occasione può contare soltanto su due alleati. Prima di tutto, il suo istinto, che lo porta a pensare: “Non mi ero mai sentito così solo in vita mia. Ancora una volta bruciavo dal desiderio quasi sessuale di richiudere le dita attorno al calcio di una pistola pesante, di grosso calibro, di sentire l’odore acre della cordite, di liberarmi da tutte le responsabilità che soffocavano la mia vita togliendomi il respiro dai polmoni. E poi capii che cosa dovevo fare”. L’altro punto d’appoggio è l’inevitabile Clete Purcel, un personaggio che proprio a partire con La ballata di Jolie Blon, aumenterà il suo peso, già piuttosto ingombrante, nei romanzi di James Lee Burke. Con lui sfila una una mezza dozzina di personaggi picareschi, finché non appare un fantasma del passato di Dave Robicheaux, un vagabondo che si spaccia per il medico che gli salvò la vita in Vietnam. Se il nome del nemico è Legione, quello dello spettro fraterno (che ricorda non poco l’ectoplasma di Un angelo in fiamme) si chiama Sal che, come tutti sanno, è il diminutivo di Salvatore. L’epico scontro, nella visione manichea di Dave Robicheaux, diventa una visione mistica con tanto di tuoni e fulmini: una battaglia senza esclusioni di colpi che però non risolve le angosce, i dubbi e le paure dell’alter ego di James Lee Burke. La ballata di Jolie Blon s’incastra alla perfezione nell’epopea di Dave Robicheaux ed è un romanzo che si legge in una sera, o poco più, perché James Lee Burke conosce i lettori almeno quanto i suoi personaggi e non manca di andare a segno. Resta però irrisolta quell’aura mistica, quella riduzione dello scontro tra il bene e il male che, chissà, magari avrà bisogno di un altro episodio, e poi di un altro ancora.
lunedì 4 giugno 2018
Leon Ray Livingston
La vita sulla strada è una vocazione ed è dura, pericolosa e spietata. Viaggiare senza soldi, senza biglietto e il più delle volte senza destinazione non ammette una seconda chance: i treni non si fermano mai, la solitudine è continua, la follia è in agguato e la caccia non finisce mai, perché i poliziotti, i guardiani, il potere espresso dalle divise lungo le ferrovie ingaggia una lotta senza esclusioni di colpi con i vagabondi. Leon Ray Livingston alias Numero Uno conosciuto anche come A-N°1 racconta il suo pellegrinaggio da una costa all’altra degli Stati Uniti all’inizio del ventesimo secolo, un periodo di grave crisi economica, tanto per cambiare. La compagnia di Jack London non è del tutto acclarata, anche se la conoscenza e l’amicizia tra i due è ben testimoniata, ma nell’insieme poco importa: Ray Livingston un po’ inventa, un po’ millanta, un po’ riporta con fedeltà il tracciato di un viaggio in un universo parallelo dove vigono codici, slang, graffiti e forme di espressione che fanno degli hobo una bizzarra comunità in perenne movimento, mimetizzata tra le pieghe delle periferie urbane, nascosta nelle ombre, aggrappata all’elemosina, ai miti e alle leggende per sopravvivere. Il rosario di avventure si snoda con il tono grezzo e confidenziale di una ballata agrodolce: a volte comico, a volte drammatico è soprattutto una carrellata di un’umanità in fuga, allo sbando, disperata eppure assorbita e devota alla propria cultura che non prevede né tetto né legge, visto che “per un vagabondo è un’inezia adattare il proprio percorso alle circostanze”. Tutto ruota attorno alle storie, che servono per mangiare, per ricordare di chi ci si può fidare, per segnalare il pericolo di un detective o di un cane feroce (nessuna distinzione tra i due), per avvisare di ostilità e per mettere in guardia da luoghi da cui è preferibile “andarsene al più presto” e, più di tutto, per evidenziare “che c’erano individui le cui pratiche spregiudicate raggiungevano lievlli di perversione di cui un hobo non sarebbe mai stato capace. No, nemmeno il più cinico dei vagabondi”. La discriminante nella cultura dell’hobo e nell’eterna guerra tra i i John Bum e i John Law (ovvero gli sceriffi) è proprio lì. La strada resta il mito fondante con il rifiuto delle regole, delle consuetudini (prima, tra tutte, quella del lavoro manuale) eppure nello stesso tempo, con uno scontro continuo come se gli hobo e i loro nemici vivessero una simbiosi obbligatoria. La precarietà, la fame, la solitudine, le malattie, la violenza (“La società sbava e si intenerisce per ogni vagabondo che ha ricevuto un colpo ben meritato”) e l’indifferenza non bastano. L’espiazione che attende gli hobo non è soltanto una pena definitiva, è proprio un’abiura: “C’è un modo per combattere i fuorilegge, e nella maniera più efficace: aprire dappertutto cantieri stradali, fattorie e campi di lavoro per accogliervi e intrattenere a lungo coloro che disprezzano con virulenza il lavoro onesto. Mentre si guadagnano da vivere, i criminali dovrebbero provvedere anche al mantenimento di tutti gli altri indigenti, eliminando così due voci di spesa dai conti pubblici”. Jack London o meno, giunti in fondo al taccuino di Leon Ray Livingston si intuisce che per quanto sostanzialmente innocui (rispetto a ben altri delinquenti) gli hobo mettono in discussione il sistema costituito, le certezze dei self-made man, l’idea del successo, lasciando emergere, quella plateale contraddizione per cui l’America è la terra dei liberi, ma solo per chi se lo può permettere.
venerdì 1 giugno 2018
Charles Wright
Poeta di sogni (“Ciò che ci è dato nei sogni è una mano di tinta blu, o messaggi alle nuvole. La sera si aspetta che cada la pioggia e si schiarisca il cielo. Le nostre parole sono parole per l’argilla, dette sottovoce, i nostri gesti lenimenti per il vento”) e di concretezze, Charles Wright (1935-2000) è sempre stato esplicito nel rendere noto che gli interessavano “tre cose, in poesia come nella vita: il paesaggio, la lingua e l’idea del divino”. L’osservazione e la contemplazione sono la scintilla iniziale, fin dall’epifania vissuta dal giovane Charles Wright nei luoghi virgiliani sulle coste del lago di Garda, e poi a Verona e a Venezia. Legatissimo all’Italia anche per le traduzioni dei Canti orfici di Dino Campana, dell’Inferno di Dante e delle poesie di Eugenio Montale, si accorge ben presto che la sua vita “è diventata così, metà indecifrabile, metà geografica nuova, paesaggi immobilizzati e adombrati, memoria spanata”. Il paesaggio è un tema ricorrente, assiduo, perché “è sempre stato la parte migliore. I luoghi riaffiorano e riaffondano, come i giorni, i contorni di quel che accade davvero, non li ricorderemo mai, per quanto intensamente si scruti il passato”, ed è definito dall’aria (“La vita di questo mondo è vento. Il vento ci porta, il vento ci porta via. Ogni cosa che guardiamo l’ha portata il vento. Ogni cosa che ricordiamo è vento”) e dall’acqua, una costante negli scorci fluviali e marini delle liriche di Charles Wright e un metro di riferimento: “Il libro comunque dice, tempo non è movimento del corpo ma memoria di movimento del corpo. Tempo non è acqua ma la memoria dell’acqua: misuriamo quel che non c’è. Misuriamo il silenzio. Misuriamo il vuoto”. L’azione è limitata, l’attesa è tutto: “Voglio sedermi sulla riva del fiume, all’ombra dell’albero sempreverde, guardare in faccia quel qualcosa, il qualcosa che mi sta aspettando”. È il motivo per cui “al cuore di ogni poesia c’è un viaggio di scoperta” e qui Charles Wright è generoso nel rivelare che “la poesia è un codice senza messaggi” e “ci tocca qui. Ci tocca qui e qui”. Come scrive in Diario della notte: “Io scrivo con inchiostro visibile, parole nere che scompaiono se sollevate alla luce, io scrivo per dimenticare, non per ricordare, parole come migliaia di frammenti di pellicola esposti al sole. Non vedo mai nient’altro che il fondo”. Affrontare lo strumento complesso e ambiguo delle parole lo porta a leggere la poesia come suono che nelle sue mani diventa ballata e canzone, un refrain ripetuto a ricordarci che “ci definisce quel che dimentichiamo, resta al suo posto, e attende d’essere riscoperto”. Ecco l’idea di divino, che coincide con quella di bellezza, con “una sua integrità, indipendentemente dal suo rapporto dell’insieme”. È marginale all’aspetto religioso: per Charles Wright “l’anima è l’aria, e ci mantiene” e così confessa: “Dopo tutti questi anni, scopro d’essere credente, credo a quel che il tuono e il lampo hanno da dire; credo che i sogni siano veri, e due siano le rappresaglie della morte; credo che le foglie secche e l’acqua nera riempiano il mio cuore”. I contrasti voluti, forti, appariscenti, sono necessari nell’evidenziare come “le cose che ci rivelano non le tocchiamo mai” perché “una cosa viene un’altra va, senza inciampi. Diventiamo così presto gli accoliti del nulla e l’altare del nulla ci redime e ci rende compiuti, ora per la prima volta, e ciò che siamo è ciò che non siamo, estatici e sconosciuti. Resiste soltanto il nostro inizio”. Arrivato a quel punto, il Crepuscolo americano (che è il modo migliore per conoscerlo) torna all’idea di partenza, dove Charles Wright scrive (in Autoritratto): “Questo è un piccolo luogo, un po’ arrossato nel cielo prima che sorga il sole. Teniamoci per mano, teniamoci per mano”. Un poeta da ascoltare con cura.