C’è una teatralità, nella poesia di Charles Simic, fatta di immagini e di contrasti forti, segnalazioni cibo, di vino, di vita a New York, ma anche di vero e proprio teatro con il suo palcoscenico, e il suo sipario, e, più di tutto, le sue maschere. Nella lunga teoria di poemi in prosa da cui prende forma Il mondo non finisce, Charles Simic plasma un ibrido che esordisce con un’epigrafe rubata a Fats Waller. Non è una scelta qualsiasi: il ritmo è costante in tutte le divagazioni, l’improvvisazione è in agguato e la sana follia del jazz è trasposta nei versi con grande nonchalance, tanto è vero che Charles Simic ammette: “Questo è ciò che mi è successo. Le letture che ho fatto non hanno illuminato la mia esperienza. Eccomi qui, in un mondo che non ha senso”. Spiazzante, e siamo solo all’inizio o, forse, alla fine: la contraddizione pare inevitabile perché non è raro trovare qualcosa che va al contrario, così come è facile trovare schemi ribaltati. Può essere la corrente di un corso d’acqua (“C’è ancora tanta quiete al mondo. Si può sentire il vecchio fiume, che nella sua confusione a volte si scorda e scorre verso monte”), una rarefatta percezione del tempo (“Dall’inizio del mondo non c’era mai stata così poca luce. Si sa che i nostri pomeriggi d’inverno sono durati a volte cent’anni”), un tratto surreale (“La pietra è uno specchio guasto. In essa nulla, se non penombra. La tua penombra o la sua, chi lo sa? Nel silenzio assoluto il tuo cuore ha il suono di un grillo nero”): la poesia di Charles Simic usa la lingua come una frusta, l’accorda a un’attenzione selettiva per arrivare a una metodica, per quanto paradossale, cernita tra realtà e immaginazione. Lo spiega con maggiore precisione un altro grande poeta, Mark Strand: “Le poesie di Charles Simic rivelano con chiarezza essenziale il profilo e le caratteristiche di un mondo che inventiamo in segreto, che segna le nostre vite nel momento della loro massima intensità, e che noi troppo spesso neghiamo perché è più reale di qualsiasi altra cosa a noi nota. La sua opera è pervasa dal senso che le immagini procedono gli oggetti, che il mondo è una creazione della favole, che nulla equivale a ciò che pensavamo che fosse, ma che in qualche modo sospettavamo potesse essere”. La formula è avvolgente: l’impianto narrativo è ridotto ai minimi termini, i versi sono i chiodi che tengono insieme tutta la casa. Mezza dozzina di righe, proprio quando Il mondo non finisce è a metà cammino, bastano a rappresentare in modo esemplare lo sguardo di Charles Simic. È un angosciante quadro agreste: “Il vecchio contadino in salopette che penzola da una trave nella stalla. Le mucche guardano di traverso. La vecchia con il vestito nero della domenica, inginocchiata sotto i piedi che oscillano, tocca la terra con la fronte come una maomettana. Fuori il cielo è pieno di nubi su un campo arato senza fine e senza alcun punto di riferimento in vista”. Preciso, spietato, inequivocabile. Altrove, si capisce che se “la follia della situazione era così affascinante, e la notte così fredda” o che, come si legge in Lezione di storia, se anche “gli scarafaggi sembrano zotici comici in drammi seri”, comunque Il mondo non finisce, ma “è ancora falso, crudele e bello”. Il capolinea di Charles Simic, nel turbolento 1989, è, di fatto, un’elegia, condita da una congrua dose di realpolitik, che si rivela anche salvifica, alla fine: “Il tempo dei poeti minori è alle porte. Addio Whitman, Dickinson, Frost. Benvenuti voi la cui fama non andrà mai oltre i parenti più stretti e forse un paio di buoni amici riuniti dopo cena attorno a una caraffa di aspro vino rosso”. Sì, Il mondo non finisce, ma se proprio dovesse succedere tanto vale sia con una sbornia, e un ultimo briciolo di poesia.
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