C’è qualcosa di magico e trascinante nella scrittura di John Barth. Continui cambi di scena e di tonalità (qui si passa dalle trincee della prima guerra mondiale agli eventi lussuriosi di una città di provincia), repentine divagazioni di ruolo tra narratore, lettore (spesso richiamato all’attenzione) e personaggi dentro un flusso di parole enorme, sconsiderato, apparentemente caotico: L’opera galleggiante, forse il capolavoro di John Barth, esprime al meglio il suo enciclopedico e caleidoscopico narrare. Di lui Joseph McElroy ha scritto: “Trame sistematiche concatenate con la vita mentale dello scrittore la quale cerca di difendersi dalle proprie stesse costruzioni che addirittura parodiano il genere pastorale, e un'intelligenza artificiale che si premunisce contro la paura e talvolta contro la serietà, ricorrendo a un umorismo straripante e computerizzato”. Una definizione elaborata, che John Barth gradirebbe perché L’opera galleggiante è un gorgo di linguaggi ed espressioni, tenute insieme dal gusto e dal ritmo per una narrativa senza confini e da una sottile vena d’ironia, esuberante fin dall’incipit: “Per uno come me, le cui attività letterarie dal 1920 in poi si sono limitate alla stesura di documenti giudiziari e alla raccolta di materiale per l’Indagine, la parte più difficile dell’impresa imminente, ossia, il resoconto di un giorno del 1937 in cui cambiai idea, è proprio cominciarla. Mai ho tentato nulla di simile ma mi conosco abbastanza per sapere che, rotto il ghiaccio, tutto diventerà facile, anche troppo, giacché di natura sono un tipo espansivo, e anzi il problema sarà quello di non perdere il filo della storia, e di sapermi azzittire alla fine”. Da lì scorrono vent’anni in cui il principale protagonista, Todd Andrews racconta cosa è successo, dopo aver vezzeggiato e poi tralasciato l’idea del suicidio come panacea di tutti i suoi tormenti. È prolisso quel tanto che basta da comprendere anche un messaggio esplicito che John Barth riserva ai lettori: “Se mai doveste avere da scrivere sul mondo, badate di non lasciarvi adescare dai molti simboli allettanti che semina proprio in mezzo alla vostra strada, altrimenti vi indurrà a dire cose che non vorreste davvero dire, offendendo le persone che più desiderereste divertire. Sviluppate, se vi riesce, la tecnica dei beccamorti e mia: sorridete, certo, perché i cani che scopano sono davvero buffi, ma proseguite senza dire nulla, quasi non ve ne foste accorti”. L’opera galleggiante è un romanze che, con le parole dello stesso John Barth, scopre le connessioni nascoste tra letteratura, storia e territorio perché “la letteratura che parla di storia non diventa quasi mai parte della storia della letteratura. La maggior parte della letteratura che parli di un luogo o un periodo di tempo non riesce mai a elevarsi al di là di quel luogo o di quel periodo. Quando i veri artisti trovano ispirazione in una particolare regione geografica o epoca storica, è probabile che sia perché in quella regione o in quell'epoca trovano un simbolo di ciò che gli sta a cuore veramente, ossia le passioni del cuore umano e le possibilità del linguaggio umano. Di qualunque cosa parli, la grande letteratura parla quasi sempre anche di se stessa”. Il punto è proprio questo: L’opera galleggiante sembra vivere di vita propria e il triangolo tra lui, lei e l’altro è soltanto la metafora avvincente per ricordare il legame tra lo scrittore, il libro e il lettore. Sarà solo un’ipotesi come un’altra, ma arrivati in fondo, è inevitabile pensarci e immaginarsi John Barth che ci sghignazza su.
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