Con
Augustus,
John Williams riparte dove finiva il Giulio
Cesare di Shakespeare. Ottaviano,
che in quel dramma aveva il compito di celebrarne la conclusione, è
il cardine attorno al quale ruota tutto “un mondo concreto, fatto
di cause e conseguenze, parole e fatti, vantaggi e privazioni”,
come scrive Strabone di Amasia. Il terreno fertile e infido, nello
stesso tempo, dove è potuta fiorire la congiura che ha portato
all’assassinio di Giulio Cesare. Fin dalle prime avvisaglie,
quell’ombra, e quello spettro, determinano il tenore generale di
Augustus:
anche la verità è ambigua nel gran teatro romano, perché come
sentenzia il Giulio Cesare
di Shakespeare “l’abuso della grandezza si ha quando scinde il
rimorso dal potere”. Per Ottaviano accade ben presto, una volta
tornato nel “mondo di Roma, dove nessuno può distinguere gli amici
dai nemici, la dissolutezza è venerata più della virtù e i
principi sono ormai asserviti all’egoismo”. La definizione è
della saggia madre, Azia, che è convinta che sia “ancora possibile
condurre una vita onesta nell’intimità dei nostri animi e dei
nostri cuori”. Un’asserzione che suona più come un accorato
desiderio, che una flebile speranza: il groviglio di cospirazioni,
manipolazioni, scontri e guerre civili che ha generato il passaggio
dalla repubblica al principato mostra un giovane e fragile Ottaviano
diventare un Augusto malato e cinico, a dispetto delle conquiste e
delle riforme. Solo che John Williams delinea la sua figura
attraverso le numerose prospettive e i punti di vista di
quell’eterogeneo epistolario che è, nei fatti, Augustus.
L’effetto ottenuto è sorprendente perché le parole viaggiano
veloci, la forma immaginata e costruita da John Williams scorre come
una lezione di storia orale, e si fa trascinante perché il
linguaggio, limato e levigato, viene reso adeguato all’epoca, ma
asseconda anche un ritmo moderno, e senza voli pindarici o
concessioni alle leggende. Augustus
è un romanzo monumentale, eppure fluttuante: non ha un centro di
gravità preciso, un protagonista assoluto (sì, è Augusto, ma
celebrato da un’orchestra di voci) e il senso della storia è
soverchiato dalle trame romane, continue, assidue, spietate. Quando
il matrimonio, il divorzio, l’adulterio, il pettegolezzo diventano
forme di dialettica per e contro le tante fazioni che si contendono i
resti della repubblica, vale quello che dice Giulia, la figlia di
Augusto spedita in esilio: “Tutto è divenuto oggetto di una
curiosità indifferente, e nulla ha più valore”. John Williams si
prende ogni libertà necessaria per sostenere la singolare struttura
di Augustus,
poi si porta a ridosso degli eventi storici con circospezione, e
sempre attentissimo allo spirito del romanzo, lascia che siano i
personaggi a dominarlo. “Il potere sarà ciò che vorremmo che sia”
dice Quinto Salvidieno Rufo, ma non è mai così, anche se ogni gesto
è celebrato alla spasmodica ricerca del consenso, “in nome della
prosperità e del benessere dei cittadini e della gloria della
città”. Come scriveva Don DeLillo in Rumore
bianco, “tutti gli intrighi
tendono alla morte. E’ la loro natura”, e quando gli onori
diventano soltanto la cornice di un’infinita malinconia restano le
sibilline parole di Atenodoro, filosofo e maestro di Ottaviano: “C’è
il rischio che certi barbari diventino perfino più romani di noi,
che occupiamo ancora il cuore della patria”. Non è soltanto
quello: nel Giulio Cesare,
Cassio si chiede “in quante età future questa nostra scena sublime
verrà recitata, in stati ancora non nati e con accenti ancora
sconosciuti”, e, alla luce di Augustus,
forse non si riferiva soltanto al rappresentazione in sé, ma
soprattutto al dramma intrinseco all’ascesa e alla caduta di ogni
impero, di ogni potere.
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