Il
coraggio della poesia di Emily Dickinson nasce dalla consapevolezza
di un metodo che coincide con lo scopo ultimo, come lei stessa
declamava nella lirica numero 680: “Ognuno, il proprio
ideale assoluto deve raggiungere, da solo, la solitudine con il
coraggio di una vita di silenzi. Lo sforzo è la sola solitudine, la
sopportazione di se stesso, la sopportazione di forze contrarie, e un
credo intatto”. Questa vocazione, nitida, immacolata, convinta e
ribadita più volte (scriveva ancora nel scrive nel 1863: “Ogni
vita converge verso un centro, espresso o silenzioso, nella natura
umana di ognuno esiste un fine”), si concentra e si scontra con il
“processo continuo” di vivere, e di conseguenza, con la pratica
quotidiana della scrittura che per Emily Dickinson è sempre
un’interpretazione, il frutto di un’elaborata percezione e di una
sostanziale distanza da se stessa che descriveva così: “Quando
parlo di me come soggetto della poesia, non ho in mente me, ma una
persona immaginaria”. Nelle sue poesie, c’è sempre un
interlocutore, una voce che ascolta in silenzio, dall’altra parte e
segue l’andamento fluente delle poesie di Emily Dickinson. Le
parole sono levigate, una per una, le rime sono le battute di un
ritmo solido, sinuoso, continuo, scandito con la precisione di un
metronomo e con il voluttuoso ondeggiare e inarrestabile del mare,
una visione ricorrente, simbolo dell’infinito e di “come s’è
cantato per tenere fuori il buio”. Ecco, la poesia di Emily
Dickinson è una trincea contro l’oscurità e l’idea di un Eden
sulla terra, un Eden nella realtà (“Sono viva, suppongo”) eppure
costruito nelle pieghe dell’immaginazione forse spiega quella che
Emily Dickinson chiamava “evanescenza”. I versi sono pregiati, e
precisi, intagliati con maniacale attenzione: “eterei”, eppure
così concreti nell’ordine dei vocaboli, e della punteggiatura (il
risultato è quella che Harold Bloom ha definito “ortografia
nitida”) e rispetto dell’idea che come diceva nella lirica numero
669: “Nessun romanzo in vendita assorbe un uomo quanto
abbeverarsi al suo personale, la finzione fa questo, diluisce fino a
farlo plausibile, il nostro romanzo, se è ristretto
abbastanza da far credere che non è vero”. E’ quello lo schema
invisibile, la trama, la rete di nodi che lega le poesie. E’ lì
dentro che Emily Dickinson riesce a contenere la cristallina
essenzialità delle sue liriche, concentrate nella misura necessaria
e sufficiente, sulla pagina, e nella produzione generale, limitata,
in qualche modo persino disinteressata, come riportava Barbara Lanati
da L’alfabeto dell’estasi: “Pare il successo dolcissimo
a chi non l’ha conosciuto. Solo chi ne ha doloroso il bisogno
conosce il sapore di un nettare. Non uno della folla purpurea che
oggi ha conquistato la bandiera saprà con tanta chiarezza dire ciò
che vittoria è come chi, nell’agonia dell’esclusione, battuto,
sente risuonare dilacerato e preciso lo stridore lontano del
trionfo”. Emily Dickinson resta “un’eccezione” americana,
estrema, nel dubbio e così nella certezza che “la coscienza è
l’unica casa di cui adesso si sappia”. Dopo, è tutto
relativo, anche la poesia.
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