La selezione
di racconti delimitata da Io, eccetera
comprende materiali provenienti da un periodo
che va dal 1963 al 1978. Un arco di tempo piuttosto ampio per trovare
un allineamento preciso, ma d’altra parte il carattere antologico è
rivestito da un caos previsto e ineluttabile e da un’invisibile
coesione perché come proclama la stessa Susan Sontag “la
saggezza richiede un modo di vita singolare in un altro senso, cioè
perversa. Per sapere di più, devi evocare tutte le vite possibili, e
poi lasciar fuori tutto quello che ti è sgradito. La saggezza è una
cosa impietosa”. Ecco allora che si comincia con un Progetto
per un viaggio in Cina
e formulare un libro di esplorazioni e
avventure ancora prima di partire contiene già tutta un’idea di
scrittura singolare ed eccentrica, ovvero considerata come “l’unica
soluzione: conoscere e non conoscere contemporaneamente. Letteratura
e non letteratura, facendo uso degli stessi gesti verbali”. Tra le
numerose variazioni sul tema contenute nel bricolage del Progetto
per un viaggio in Cina c’è
un primo indizio del collante che unisce gli altri frammenti di Io,
eccetera ed è la collocazione degli
individui nella schizofrenia ricorrente dei tempi moderni. L’ipotesi
formulata da Susan Sontag è che
“nessuna persona straordinaria ha l’aria del tutto contemporanea.
La gente contemporanea non sembra affatto: sono invisibili”. A
maggior ragione in Rapporto
successivo all’operazione,
un’altra immagine evidenzia il carattere conflittuale dei racconti:
“In campo lungo: una chiazza cosmica, un
agglomerato di energie sanguinanti. In primo piano, è un circuito
stampato decifrabile senza difficoltà, un labirinto transistorizzato
di orme animali, una banca dati per impronte vocali asmatiche. Solo
alcuni cittadini hanno il diritto di essere amplificati e farsi
sentire”. La disgressione più squillante dal punto di vista letterario è
anche la più pertinente al filo rosso di Io, eccetera si trova invece è Il fantoccio,
un androide e un doppelgänger che sostituisce il padre, il marito,
l’impiegato. Il tema (non così) latente del doppio e della schizofrenia sfocia
nella fantascienza e Susan Sontag riesce a muoversi con disinvoltura, anche in un contesto atipico, almeno per lei. Per capire cosa
può essere Il fantoccio
bisogna andare alla definizione di Robert Sheckley, riportata nel
Dizionario degli esseri umani fantastici e
artificiali di Vincenzo Tagliasco, per cui i
“robot sosia” sono “identici all’originale e capaci di
comportarsi in tutto e per tutto come il modello di riferimento: in
altre parole dei sosia, dei doppioni, proiezioni della propria
personalità in una situazione particolare”. Il
fantoccio si rivela fin troppo fedele alle
idiosincrasie umane, tanto è vero che nel capitolo successivo, dal
titolo fin troppo espressivo di Vecchie
lagnanze rivisitate, Susan Sontag si lascia
sfuggire: “E se il mio concetto di oppressione e di libertà è
mediocre, resta comunque un problema reale, sentito almeno vagamente
da milioni di persone: l’invenzione della libertà”. Nell’insieme
ci sta anche la personalissima rivisitazione di Susan Sontag di un figura letteraria
fondamentale, Il dottor Jekyll,
così come poi diventerà logica la conclusione di Giro
turistico senza guida perché, in fondo, “la
verità è semplice, molto semplice. Centrata. Ma la gente brama
altre forme di nutrimento oltre alla verità. Le sue privilegiate
distorsioni, nella filosofia e nella letteratura. Per esempio”. Da
ritrovare.
domenica 30 aprile 2017
giovedì 27 aprile 2017
Mike Davis
Sul border tra Messico e
Stati Uniti si giocano molte partite, tutte distinte da un’ambiguità
di fondo, perché “i capitali, come del resto l’inquinamento,
possono fluttuare liberamente lungo i confini, la forza lavoro
migrante si scontra invece con una criminalizzazione e una
repressione assolutamente senza precedenti”. Non c’è muro che
tenga: come sottolinea Mike Davis la “linea” e la “frontera”
funzionano come una diga che regola l’afflusso di merci (legali e
non) e mano d’opera a bassissimo costo. La condizione dei latinos è
quella che ripropone le condizioni primordiali di ogni emigrazione:
disorientamento, sfruttamento, emarginazione, proprio in quest’ordine
perché “sono prima di tutto i dannati della terra, l’esercito
invisibile di braccia e corpi che si consumano nella rete di
maquiladoras sul lato sempre sbagliato del confine”. E’ soltanto
l’inizio di un puzzle in evoluzione, complesso e disordinato,
difficile da decifrare, che Mike Davis ha la capacità di rendere
fluido, affrontando superficialità e apparenza con un’ostinata
aderenza ai dati, ai riscontri e alle testimonianze. Il travaso di
latinos aggiunge una nuova massiccia componente nel complicato
equilibrio del continente americano, trattandosi di “un formidabile
motore demografico: una popolazione ispanica che cresce a ritmi di un
milione all’anno, dieci volte più veloce di quella anglo”. Le
barriere sono inutili e la tropicalizzazione degli spazi urbani è un
processo inevitabile perché essere latino è “non un’essenza, ma
una storia”. La definizione di Octavio Paz aiuta a comprendere,
meglio di ogni analisi antropologica, come “gli elementi complessi,
spesso conflittuali, presenti nelle preesistenti forme identitarie
dei migranti, che comprendono accanite fedeltà subnazionali di
carattere regionale o locale, così come profonde divisioni
ideologiche tra subculture essenzialmente religiose e altre
secolarizzate e radicali, vengono strategicamente ricomposte, e di
frequente amplificate, in etnicità manipolabili, che entrano a loro
volta in competizione con le rivendicazioni e le pressioni di altri
gruppi costruiti in modo analogo”. Il riflesso condizionato ai
crescenti contrasti prodotti dall’arcobaleno dei latinos è
“ricorrere/alludere a una forma culturale originaria e autentica è
esattamente quanto fa chi tra i bianchi, e sono molti, si sente
minacciato; chi dai tranquilli e dorati suburb di Los Angeles,
piuttosto che di San Diego, vede e teme la presenza di illegal aliens
come un’orda animale, coyote la cui semplice e invisibile esistenza
ai margini costituisce elemento inesorabile di disturbo e paura”.
In questo senso, Mike Davis ha un riguardo particolare alle tematiche
linguistiche dall’imposizione (nemmeno tanto mascherata)
dell’inglese all’ibrido dello spanglish che unisce tutti i
latinos. Un paradosso che non sfugge a Mike Davis perché è un
derivato dallo spagnolo, la lingua dei primi colonizzatori: “Tutta
la riflessione postcoloniale si sviluppa intorno alla
possibilità-necessità di pensare gli attuali equilibri (e
squilibri) globali come effetti più o meno diretti dell’esperienza,
sotto certi aspetti intrascendibile, del colonialismo. Rispetto a
questa cesura storica, storicamente definita e conclusa ma ancora
apertissima nelle conseguenze, ogni transizione si dimostra parziale,
e sconta un campo segnato all’origine da dominazione, sfruttamento
e soprattutto da confini, differenze e identità che sono prima di
tutto riflessi imposti dall’occidente. Da una simile cartografia
emerge una dimensione culturale necessariamente ibrida, in cui forme
di vita ed ecologie locali vengono riattivate strategicamente come
risposte alla dominazione, situandosi negli interstizi, nelle
fratture e nelle disgiunture dell’ordine che, senza soluzione di
continuità, salda l’esperienza coloniale a quella globale. In
questo senso la realtà culturale postcoloniale riflette una più
generale dimensione diasporica, una continua oscillazione tra forme
di ripiegamento in politiche dell’identità locale, assolute e
assolutiste, e forme di assimilazione altrettanto imposte”.
Un’analisi puntuale, precisa e valida anche ad altre longitudini e
latitudini.
lunedì 24 aprile 2017
Philip Slater
L’assunto da cui si dipana
l’analisi di Philip Slater è che la cosiddetta civiltà
occidentale è da sempre espressione di un modello autoritario che
viene confuso con un surrogato di democrazia. Philip Slater non pone
questioni giuridiche, morali o politiche. Le analisi sono
comportamentali, storiche e, in ultima istanza, antropologiche,
perché “l’unica cosa sulla quale possiamo contare nelle vicende
umane è che le cose cambiano e in democrazia cambiano più
velocemente che in qualsiasi altra condizione, raramente nella
direzione che ci aspettiamo e sempre in quella che dispiace a
qualcuno. Il vivere in un contesto realmente democratico richiede
un’accettazione costante del movimento e del cambiamento,
un’abilità ad accettare l’imperfezione permanente, lo sviluppo
cronico. Questo, d’altronde, è ciò che realmente è la vita”.
La prima distinzione, essenziale, è dunque tra la funzionalità dei
regimi autoritari e quella dei sistemi democratici e Philip Slater
comincia dagli sviluppi degli eventi bellici nel corso della storia
per raccontarne la profonda influenza sul linguaggio e
sull’immaginario in generale. Questo perché, come è ovvio, “la
formazione militare, così come viene normalmente impartita, richiede
la sistematica erosione di qualsiasi credo, valore e pratica
democratica”. Nelle catene di comando e nella rigidità della
disciplina, ci sono già tutti gli elementi di immobilismo dei
sistemi autoritari visto che “una burocrazia è una burocrazia, e
la sua inettitudine titanica la tradirà ovunque cerchi di
nascondersi”. L’evidenza dei limiti autoritari, in tutti i
segmenti scandagliati, dall’istruzione fino all’invadenza del
mezzo televisivo, è ridondante e si scontra d’altra parte
nell’esigenza del dissenso, perché, come scrive Philip Slater, “il
conflitto è semplicemente l’espressione attiva della differenza, e
una parte essenziale della nostra evoluzione”. Una precisazione si
rende necessaria anche all’interno della concezione stessa di
democrazia, che non è intesa come rappresentanza e/o mandato
elettorale, ma piuttosto come “sistema di organizzazione delle
relazioni umane”. Philip Slater non manca di sottolinearne le
fragilità implicite, dato “la democrazia non ha niente a che fare
con il carisma, le abilità oratorie, la capacità di stare dritti,
saldi e al posto giusto; ha invece a che fare con la capacità di
trovare modi per comporre i bisogni e i desideri conflittuali”, ma
anche la naturale propensione al rinnovamento, alle trasformazioni,
alla metamorfosi. Il suo modello di valutazione procede attraverso i
vari livelli di attuazione e comprensione della democrazia, che
rimane la grande incompiuta, ovvero Un
sogno rimandato. La definizione del
titolo riguarda in modo esplicito l’american way of life, ma in
termini impliciti tutte le cosiddette democrazie occidentali, che
vivono e subiscono le stesse contraddizioni e l’assuefazione
alle logiche autoritarie, perché “il carattere multinazionale
delle industrie moderne tende ad andare oltre l’influenza
democratica, dato che nessun singolo governo può esercitare un
effettivo controllo”. L’estrapolazione è più attuale adesso di
allora anche se molte della valutazioni raccolte da Philip Slater
erano valide nel 1991, in un momento di grandi speranze seguito al
crollo del muro di Berlino, e lo sono ancora oggi visto che “una
società democratica è decentralizzata, eppure la maggior parte dei
nostri business quotidiani avviene all’interno di organizzazioni
immense, turbolente e autoritarie, sulle quali non abbiamo quasi
nessun controllo”. In concreto, quello che resta di Un
sogno rimandato è solo “una
democrazia parziale”, rispetto a un’idea molto più articolata,
ovvero l’intuizione che non funzioni né come dovrebbe, né come ci
viene propinata.
venerdì 21 aprile 2017
Claire Cameron
Il linguista
canadese Edwin G. Pulleyblank, citato da Tom Wolfe in Il
regno della parola, scriveva: “La nostra
capacità, attraverso il linguaggio, di manipolare il mondo mentale e
interagire così creativamente con il mondo dell’esperienza è
stata un fattore primario, forse il principale, che ha conferito agli
esseri umani il loro straordinario vantaggio sulle altre specie in
termini di evoluzione culturale più che di evoluzione biologica”.
Questa definizione sembra esplorata ed espansa in un romanzo
intelligente, originale e a tratti persino divertente perché
sovrapponendo i toni del dramma e della commedia con L’ultima
dei Neanderthal, Claire Cameron è riuscita a
sottolineare le principali distinzioni tra necessità primordiali (il calore, il
cibo) e le priorità moderne (i soldi, le comunicazioni) di due mondi
che rimbalzano uno verso l’altro a distanza di migliaia e migliaia
di anni. Nel fluire dei contrasti e delle coincidenze due donne si
incontrano: Rose e la ragazza di Neanderthal stanno per diventare
madri e la prospettiva, anche se divisa in due corsie narrative
separate, è palese: la nascita contiene in sé il passato e il
destino, e l’urgenza del rinnovamento, che è sempre il primo passo
per evitare l’estinzione. Le storie si alternano, ponendo un
chiaro interrogativo sulle differenze e sui contatti tra l’uomo
moderno e quello di Neanderthal. Nel mondo di Rose (il nostro) le
persone sono disperse tra Londra, New York e un angolo circondato
dalla lavanda in Francia. Le relazioni sono sostenute dalle forme
linguistiche filtrate dalla tecnologia e dai contratti sociali, e i
bisogni essenziali si sovrappongono ai desideri personali. Nell’era
dei Neanderthal c’è una ridotta e fragile comunità, esposta alle
intemperie e ai pericoli degli altri animali, che vive nelle capanne
di pelli, nelle caverne e sugli alberi, contando le stagioni,
aspettando “la corsa dei pesci” e osservando con rispetto gli orsi, annusando l'aria, sempre assecondando l'istinto perché essendo carne
o mangerai o sarai mangiata e “nessuno di loro poteva immaginarsi
separato dagli altri”. L’incontro tra le due donne arriva nella
terra, grazie a uno scavo archeologico: una, L’ultima
dei Neanderthal, è ormai fossile mentr l’altra
più viva e combattuta che mai: Rose deve mettere alla luce il figlio
e deve portare in superficie i resti degli antenati del genere umano.
La sfida implicita era raccontare un mondo retto dal ridotto uso del
linguaggio, dove “le parole potevano essere vuote, ricambiare un
gesto era pieno di significato”, ma anche della vista, considerata
il più limitato dei sensi, perché la salvezza è più nell’ascoltare
che nel vedere: quando riesci a distinguere un leopardo vuol dire che ormai sei troppo vicino. Claire Cameron è riuscita
nella spericolata impresa di spiegare, questi e altri dettagli, con un tono frizzante, riuscendo a dare una
dignità ancestrale alla scoreggia così come a rendere credibili gli
istinti peggiori alimentati dai morsi della fame o a elevare qualche
interrogativo sulle intersezioni tra le vite dei Neanderthal e quelle
degli esseri umani così come li conosciamo. Con altrettanta grazia,
ha potuto alternare un ambiente in cui tutto si muove attraverso
il virus del linguaggio e a spiegare che “essendo esseri umani, preferiamo il
racconto più semplice sull’evoluzione della nostra specie: ovvero
che ci siamo evoluti da esseri primitivi e abbiamo raggiunto la
perfezione”. Con L’ultima dei Neanderthal,
Claire Cameron suggerisce che forse la
metamorfosi non è stata del tutto lineare e la prova più evidente è
che non siamo così perfetti.
sabato 15 aprile 2017
John Steinbeck
“Un
classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che deve
dire” scriveva Italo Calvino ed è una definizione che ben si
adatta a La luna è tramontata di John Steinbeck. Pur non
essendo mai dichiarato in modo esplicito, è facile dedurre che il
breve romanzo è ambientato in un villaggio norvegese invaso dai
paracadutisti tedeschi che, anche grazie alle trame di un
collaborazionista, riescono a ottenere in breve tempo il controllo
della zona. Il villaggio ha un valore strategico perché l’economia
locale si regge sul carbone, che sarà requisito ai fini bellici e
l’organigramma degli occupanti ripropone i caratteri umani e li
drammatizza: c’è la figura tormentata del colonnello Lanser che
cerca di non lasciarsi travolgere né dagli eventi né dalle emozioni
indotte dall’occupazione e quella del maggiore Hunter, che deve
disegnare e ridisegnare la ferrovia, che viene regolarmente sabotata.
In effetti, se le operazioni militari sono state un successo, la vita
quotidiana è angosciante per tutti. I soldati sono lontani da casa,
soffrono la tensione che ribolle in tutto il villaggio e anche se il
conflitto è limitato, contenuto, dopo un po’ l’impressione è,
come si dice nelle strade, che le mosche abbiano conquistato la carta
moschicida. John Steinbeck trova il modo di mantenere in
fibrillazione ogni singolo personaggio e spicca la figura del sindaco
Orden. In una sua prima riflessione, nel tentativo di limitare i
danni e di mantenere le saldi i confini delle istituzioni, dice: “C’è
un’idea in questo: se curi attentamente certe forme, raggiungi la
sostanza, e spesso la gente si lascia conquistare dalle forme”. Da
lì, sono protagonisti di una guerra fredda, silenziosa, non meno
crudele perché sanno di dover convivere con qualcosa che è
“tradimento e odio, pasticci di generali incompetenti, tortura,
assassinio, disgusto, stanchezza, finché poi è finita e nulla è
mutato, se non che c’è una nuova stanchezza, un nuovo odio”.
Mentre la resistenza diventa sempre più ostile, i soldati scoprono
con amarezza che erano pronti alla vittoria, ma non si sono mai
preparati ad affrontare l’idea di una sconfitta. Il disorientamento
è palpabile: tutte le ambiguità su cui si reggeva il fragile e
irrealistico equilibrio iniziale, tramontano insieme alla luna,
quando gli aerei alleati bombardano ogni singola luce e scaricano
armi e rifornimenti per la resistenza. Nell’impossibilità di far
fronte alla crescente ribellione, il colonnello Lanser, che
all’inizio aveva confidato nella collaborazione del sindaco Orden,
impone il suo arresto, preludio all’esecuzione. Nel drammatico atto
conclusivo, i due diretti antagonisti, il soldato e il politico,
vanno incontro ai rispettivi destini recitando i passi che ricordano
dell’Apologia di Socrate, ma è proprio Orden a sigillare il
messaggio finale: “I popoli non amano essere conquistati e per
questo non lo saranno. Gli uomini liberi non possono scatenare una
guerra, ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a
combattere nella sconfitta”. Scrivendo La luna è tramontata,
John Steinbeck aveva compreso, già nel 1942, quello che tutti gli
strateghi e gli storici avrebbero appreso negli anni a venire, e
l’analisi che filtra attraverso le pagine del romanzo è chiara,
precisa, perfetta. Profetico e, sì, un classico.
martedì 11 aprile 2017
Jim Harrison
Le
responsabilità cominciano nei sogni anche per chi, come Joseph, ha
vissuto di “cose semplici, che comunque gli avevano riempito la
vita, e che conosceva così nell’intimo che lo prendeva il panico
all’idea che potessero venire spazzate via come nuvole”. Da una
parte è rimasto con la fattoria della famiglia, troppo piccola per
offrire una qualche garanzia e troppo grande per essere mandata
avanti da solo, perché “c’era poco da ricamare teorie quando si
doveva mandare avanti una fattoria: si era sempre sul limite della
sussistenza, e per di più si faceva parte di un passato, di un modo
di esistere sulla terra che stava scomparendo”. Dall’altra, cerca
di propinare la passione per la letteratura nella sperduta landa del
Michigan dove, “nel corso dei suoi lunghi anni di insegnamento,
Joseph era arrivato a pensare che l’analfabetismo non fosse un gran
male, se l’unica carta stampata disponibile consisteva in notizie
sportive, bollettini sul bestiame, fumetti e idiozie assortite”.
Per lui, che adora John Keats, Emily Dickinson, Walt Whitman, arriva
proprio in quel momento la certezza che “la vita, in rare
occasioni, può offrire qualcosa all’altezza dell’immaginazione”.
Un giorno intreccia una relazione con una studentessa, Catherine,
figlia di un veterano e lì l’imprevedibile prende forma nella
constatazione che “la gente non si innamora perché c’è un
motivo. Quando capita, capita”. Davanti a Joseph si spalanca un
bivio affollato dal fantasma di Orin, il migliore amico scomparso in
una delle guerra americane, dalla lunga e indefinita relazione con
Rosaelee, che lo aspetta da una vita, dai consigli del suo dottore,
dall’intervento del maggiore, il padre di Catherine,
dall’apprensione della sorella Arlice e, più di tutto, dalla
dimensione della smalltown dove non si può nascondere nulla e ognuno
ha il proprio bravo fardello di sotterfugi, di ferite e di rimpianti.
La grazia di Jim Harrison nell’avvicinare i suoi protagonisti trova
in Joseph il cardine ideale, anche per parecchi spunti
autobiografici. Se l’uomo si considera come l’unico mammifero che
è parte di una specie, la dimensione riflessiva, qui rappresentata
anche dall’elemento onirico, è la sua caratteristica dominante.
Solo in mezzo alla natura, a caccia e a pesca, Joseph (e Jim
Harrison) trova la sua dimensione che viene sottolineata
dall’incognita di un coyote, guardingo e inafferrabile nella sua
selvatica bellezza. Non a caso, il viaggio che conduce al finale, una
gita scolastica a Chicago, è un segnale palese: soltanto fuori dai
confini della contea, lontano dagli sguardi e dalle impressioni, le
decisioni potevano essere consumate. Il romanzo si risolve lì e il
racconto, che rimane sospeso, in equilibrio, come è giusto che sia, è stato riassunto da Richard Brautigan
così: “Una storia d’amore forte e tenera, che parla di un uomo
davanti alla grande scelta che muterà per sempre la sua vita. I
personaggi sono così reali, che spesso i miei occhi si sono riempiti
di lacrime di fronte alla loro insicurezza, alla loro umana
impotenza”. E’ Jim Harrison, naturale al 100%.
venerdì 7 aprile 2017
John Updike
Nelle
sue lezioni di letteratura Bernard Malamud diceva di John Updike che
“una delle cose migliori che abbia scritto sia Il colpo di
stato, una storia di invenzione ma basata su molte letture di
miti africani, storia africana, geografia dell’Africa, oltre alla
sua idea originale”. Ambientato in un immaginaria nazione
subsahariana, il Kush alias il Noire, Il colpo di stato è
imperniato attorno alle trame e alle peripezie del colonnello Hakim
Felix Happy Ellelloû per cui vale la definizione di John Updike: “Un
capo è uno che, per pazzia o per bontà, accetta di assumere su di
sé i guai di un popolo. Vi sono pochi uomini così pazzi; di qui,
quel nonsoché di irregolare che ha sempre un leader”. Le quattro
mogli di Ellelloû distinguono anche le fasi, non lineari, in cui si
articola Il colpo di stato: Kandongolimi, sposata all’età
di sedici anni, Candace alias Candy il rapporto con l’America,
attraverso la sua famiglia, poi Sittina e Sheba. A cui va aggiunta
Kutunda, ammaliante e analfabeta, arriverà ai vertici del governo,
dove intuirà che per il potere “leggere e scrivere era solo
condiscendenza”. Il quadro in cui Ellelloû matura Il colpo di
stato è questo, a cui vanno associate le circostanze specifiche
dato che “l’aria del Kush è trasparente, non vi sono segreti,
solo reticenze”. Ecco che Edumu, il re a cui tagliano la testa, e
l’esecuzione del re, come spartiacque. Le motivazioni sono
ambivalenti e adattabili, ogni volta che Il colpo di stato
prevede nuovi protagonisti: “Il suo regime era corrotto, sia per
quanto concerneva la sua personale tirannia, era sbadatamente crudele
all’antica, sensuale maniera, sia per l’ideologia borghese dei
suoi ministri, che, per conservare la loro ricchezza in seno a
un’élite pateticamente non rappresentativa, vendevano agli
americani ciò che i loro padri avevano venduto ai francesi, i quali,
quanto a questo, credevano ancora di esserne padroni”. La
confusione tra rivoluzioni di ispirazione religiosa o socialista sono
fallimentari perché “ci vuole una montagna di mito per produrre
anche un solo granello di differenza” e il ciclo si compie
inalterato, non c’è vendetta, ci sono “riallineamenti”, e gli
interessi stranieri, così riassunti: “I doni portano uomini, gli
uomini portano fucili, i fucili portano oppressione. L’Africa ha
già subito questo ciclo troppo spesso”. Il linguaggio forbito,
colto, affascinante nella sua ricchezza, che John Updike trova sempre
uno sbocco naturale nel ritmo delle frasi, negli strati della storia
che scivolano uno sopra l’altro. Molto aderente alla realtà nel
definire “un nuovo concetto del tempo, la terribile idea della
storia, l’idea di una rivelazione che inesorabilmente si allontana,
lasciando noi a vivere e morire senza scopo, in stato
d’insensatezza”, il racconto è farraginoso come il viaggio nel
deserto di Ellelloû e Sheba, con strati di lingue che si invadono,
con “l’effetto di goffe maschere”, immaginifico e delirante,
valga su tutte la scena nella base sovietica nel deserto con i
vettori caricati di sacchi di sabbia solo per far spendere agli
americani l’equivalente in un altro angolo sconosciuto di roccia e
di vento. Il colpo di stato di Ellelloû innesca una reazione
a catena, le congiure si susseguono senza soluzione di continuità,
“il popolo guarda in alto, e deve vedere qualcosa”, solo che
ritrova la testa del re che ha ripreso a farneticare. Avvolgente,
paradossale, cosmopolita, a distanza di anni, Il colpo di stato
è ancora un vivido affresco dell’Africa nel corso della cosiddetta
guerra fredda, della mentalità coloniale di cui è stata succube
prima, dopo e ancora oggi, e una parodia del potere assassino e
suicida che si perpetua per partenogenesi, tanto “non c’è nulla
da rivoluzionare”. Da leggere, rileggere e studiare.
mercoledì 5 aprile 2017
Paul Auster
Per Paul
Auster affrontare “l’esperienza del linguaggio” che “ci dà
il mondo, e ce lo sottrae. Nello stesso respiro” vuol dire
riconoscere quella che altrove chiamava “la musica del caso”, una
percezione divisa tra la visione e l’ascolto delle parole, più che
attraverso la scrittura e la lettura. In questo, la prospettiva della
poesia di Paul Auster non è molto distante dalla sua narrativa: una
forma fatta di tracce, ritratti, istantanee, dove il particolare in sé è sempre uno spazio concluso e definito. Quando dice che, se
l’arte è un riflesso, “l’unico requisito è che rimanga almeno
un frammento”, c’è molta teoria, ma anche qualche concreto
sprazzo di verità. La conclusione di Paul Auster è strettamente legata alla forma della sua scrittura, che predilige
l’immediatezza, la brevità, la sintesi, salvo poi Spazi
bianchi, che definiva così: “E’ un
viaggio attraverso lo spazio, anche se non arrivo in nessun luogo,
anche se termino nello stesso spazio dove sono partito. E’ un
viaggio attraverso lo spazio, come dentro e fuori di molte città,
come attraverso dei deserti, come al confine di qualche oceano
immaginario, dove ogni pensiero annega nelle onde inesorabili della
realtà”. Non è un caso che la scrittura teatrale per Spazi
bianchi lo abbia condotto, e riportato, alla
poesia: “L’occhio vede il mondo nel suo fluire. La parola è un
tentativo di arrestarne il flusso, di stabilizzarlo. E tuttavia
insistiamo nel tentativo di tradurre in linguaggio l’esperienza. Da
qui la poesia, da qui le espressioni della vita quotidiana. Questa è
la fede che impedisce la disperazione universale, e, anche, la
determina”. A modo suo, “ogni sillaba è opera di sabotaggio” e
“nel semplice linguaggio del desiderio” di Paul Auster Affrontare
la musica significa capire che “la lingua
ci porta via per sempre da dove siamo, e in nessun luogo possiamo
stare in pace nelle cose che ci è dato vedere, perché ogni parola è
un altrove, una cosa che si muove più veloce dell’occhio, proprio
mentre si muove questo passero, virando nell’aria dove non ha una
casa”. Questo è il tono che lo distingue nel corso di tutta
l’antologia, e come spiegava Norman Finkelstein: “la sua essenza
è una voce solitaria che parla al silenzio. Un silenzio che a sua
volta ha una storia complessa, spesso legata ad alcuni fra gli eventi
più terribili dei tempi moderni. E che alla fine si insedia
all’interno del poeta ed esige di essere riconosciuto”. Suono e
visione sono un’ultima compensazione della parola e nel work in
progress di Paul Auster diventano immagini forti, vivide: “Muoiono
ancora i morti: e in loro i vivi. Tutto lo spazio, e gli occhi, cui
precari arnesi danno caccia, confinati alle loro abitudini. Respirare
è accettare questa mancanza d’aria, il solo fiato, cercato nelle
fessure della memoria, nel lapsus che divide questa lingua di faide,
senza cui la terra avrebbe assicurato un presagio più forte per
spianare i frutteti di pietra. Neppure il silenzio mi insegue”.
Dove non sono i suoni, è ricorrente l’idea di uno sguardo, quasi
incantato, e sublimato in Affrontare la musica
con “qualche pezzo di carta. Un’ultima sigaretta prima di andare
a dormire. La neve che cade all’infinito nella notte d’inverno.
Rimanere nel mondo dell’occhio nudo felice come sono in questo
momento”. Lo sforzo vale solo per l’aspetto colto, infine, in
Narrazione: “Poiché
quello che accade non accadrà mai e quello che è accaduto accade
nuovamente all’infinito, siamo come eravamo, tutto in noi è
cambiato, se parliamo del mondo è solo per lasciare il mondo non
detto”. Non è casuale la ripetizione "all'infinito", in contrasto con la fragilità degli attimi. Quello che resta al poeta, e qui a Paul Auster,
nell’Affrontare al musica
è “il linguaggio dei muri. O un’ultima parola, tagliata dal
visibile” o l’ammissione di un limite o persino di un destino
irrisolto quando dice: “Sono venuto fino a qui per te, la voce che
mi fa eco non è più la mia”.