Il linguista
canadese Edwin G. Pulleyblank, citato da Tom Wolfe in Il
regno della parola, scriveva: “La nostra
capacità, attraverso il linguaggio, di manipolare il mondo mentale e
interagire così creativamente con il mondo dell’esperienza è
stata un fattore primario, forse il principale, che ha conferito agli
esseri umani il loro straordinario vantaggio sulle altre specie in
termini di evoluzione culturale più che di evoluzione biologica”.
Questa definizione sembra esplorata ed espansa in un romanzo
intelligente, originale e a tratti persino divertente perché
sovrapponendo i toni del dramma e della commedia con L’ultima
dei Neanderthal, Claire Cameron è riuscita a
sottolineare le principali distinzioni tra necessità primordiali (il calore, il
cibo) e le priorità moderne (i soldi, le comunicazioni) di due mondi
che rimbalzano uno verso l’altro a distanza di migliaia e migliaia
di anni. Nel fluire dei contrasti e delle coincidenze due donne si
incontrano: Rose e la ragazza di Neanderthal stanno per diventare
madri e la prospettiva, anche se divisa in due corsie narrative
separate, è palese: la nascita contiene in sé il passato e il
destino, e l’urgenza del rinnovamento, che è sempre il primo passo
per evitare l’estinzione. Le storie si alternano, ponendo un
chiaro interrogativo sulle differenze e sui contatti tra l’uomo
moderno e quello di Neanderthal. Nel mondo di Rose (il nostro) le
persone sono disperse tra Londra, New York e un angolo circondato
dalla lavanda in Francia. Le relazioni sono sostenute dalle forme
linguistiche filtrate dalla tecnologia e dai contratti sociali, e i
bisogni essenziali si sovrappongono ai desideri personali. Nell’era
dei Neanderthal c’è una ridotta e fragile comunità, esposta alle
intemperie e ai pericoli degli altri animali, che vive nelle capanne
di pelli, nelle caverne e sugli alberi, contando le stagioni,
aspettando “la corsa dei pesci” e osservando con rispetto gli orsi, annusando l'aria, sempre assecondando l'istinto perché essendo carne
o mangerai o sarai mangiata e “nessuno di loro poteva immaginarsi
separato dagli altri”. L’incontro tra le due donne arriva nella
terra, grazie a uno scavo archeologico: una, L’ultima
dei Neanderthal, è ormai fossile mentr l’altra
più viva e combattuta che mai: Rose deve mettere alla luce il figlio
e deve portare in superficie i resti degli antenati del genere umano.
La sfida implicita era raccontare un mondo retto dal ridotto uso del
linguaggio, dove “le parole potevano essere vuote, ricambiare un
gesto era pieno di significato”, ma anche della vista, considerata
il più limitato dei sensi, perché la salvezza è più nell’ascoltare
che nel vedere: quando riesci a distinguere un leopardo vuol dire che ormai sei troppo vicino. Claire Cameron è riuscita
nella spericolata impresa di spiegare, questi e altri dettagli, con un tono frizzante, riuscendo a dare una
dignità ancestrale alla scoreggia così come a rendere credibili gli
istinti peggiori alimentati dai morsi della fame o a elevare qualche
interrogativo sulle intersezioni tra le vite dei Neanderthal e quelle
degli esseri umani così come li conosciamo. Con altrettanta grazia,
ha potuto alternare un ambiente in cui tutto si muove attraverso
il virus del linguaggio e a spiegare che “essendo esseri umani, preferiamo il
racconto più semplice sull’evoluzione della nostra specie: ovvero
che ci siamo evoluti da esseri primitivi e abbiamo raggiunto la
perfezione”. Con L’ultima dei Neanderthal,
Claire Cameron suggerisce che forse la
metamorfosi non è stata del tutto lineare e la prova più evidente è
che non siamo così perfetti.
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