Per Paul
Auster affrontare “l’esperienza del linguaggio” che “ci dà
il mondo, e ce lo sottrae. Nello stesso respiro” vuol dire
riconoscere quella che altrove chiamava “la musica del caso”, una
percezione divisa tra la visione e l’ascolto delle parole, più che
attraverso la scrittura e la lettura. In questo, la prospettiva della
poesia di Paul Auster non è molto distante dalla sua narrativa: una
forma fatta di tracce, ritratti, istantanee, dove il particolare in sé è sempre uno spazio concluso e definito. Quando dice che, se
l’arte è un riflesso, “l’unico requisito è che rimanga almeno
un frammento”, c’è molta teoria, ma anche qualche concreto
sprazzo di verità. La conclusione di Paul Auster è strettamente legata alla forma della sua scrittura, che predilige
l’immediatezza, la brevità, la sintesi, salvo poi Spazi
bianchi, che definiva così: “E’ un
viaggio attraverso lo spazio, anche se non arrivo in nessun luogo,
anche se termino nello stesso spazio dove sono partito. E’ un
viaggio attraverso lo spazio, come dentro e fuori di molte città,
come attraverso dei deserti, come al confine di qualche oceano
immaginario, dove ogni pensiero annega nelle onde inesorabili della
realtà”. Non è un caso che la scrittura teatrale per Spazi
bianchi lo abbia condotto, e riportato, alla
poesia: “L’occhio vede il mondo nel suo fluire. La parola è un
tentativo di arrestarne il flusso, di stabilizzarlo. E tuttavia
insistiamo nel tentativo di tradurre in linguaggio l’esperienza. Da
qui la poesia, da qui le espressioni della vita quotidiana. Questa è
la fede che impedisce la disperazione universale, e, anche, la
determina”. A modo suo, “ogni sillaba è opera di sabotaggio” e
“nel semplice linguaggio del desiderio” di Paul Auster Affrontare
la musica significa capire che “la lingua
ci porta via per sempre da dove siamo, e in nessun luogo possiamo
stare in pace nelle cose che ci è dato vedere, perché ogni parola è
un altrove, una cosa che si muove più veloce dell’occhio, proprio
mentre si muove questo passero, virando nell’aria dove non ha una
casa”. Questo è il tono che lo distingue nel corso di tutta
l’antologia, e come spiegava Norman Finkelstein: “la sua essenza
è una voce solitaria che parla al silenzio. Un silenzio che a sua
volta ha una storia complessa, spesso legata ad alcuni fra gli eventi
più terribili dei tempi moderni. E che alla fine si insedia
all’interno del poeta ed esige di essere riconosciuto”. Suono e
visione sono un’ultima compensazione della parola e nel work in
progress di Paul Auster diventano immagini forti, vivide: “Muoiono
ancora i morti: e in loro i vivi. Tutto lo spazio, e gli occhi, cui
precari arnesi danno caccia, confinati alle loro abitudini. Respirare
è accettare questa mancanza d’aria, il solo fiato, cercato nelle
fessure della memoria, nel lapsus che divide questa lingua di faide,
senza cui la terra avrebbe assicurato un presagio più forte per
spianare i frutteti di pietra. Neppure il silenzio mi insegue”.
Dove non sono i suoni, è ricorrente l’idea di uno sguardo, quasi
incantato, e sublimato in Affrontare la musica
con “qualche pezzo di carta. Un’ultima sigaretta prima di andare
a dormire. La neve che cade all’infinito nella notte d’inverno.
Rimanere nel mondo dell’occhio nudo felice come sono in questo
momento”. Lo sforzo vale solo per l’aspetto colto, infine, in
Narrazione: “Poiché
quello che accade non accadrà mai e quello che è accaduto accade
nuovamente all’infinito, siamo come eravamo, tutto in noi è
cambiato, se parliamo del mondo è solo per lasciare il mondo non
detto”. Non è casuale la ripetizione "all'infinito", in contrasto con la fragilità degli attimi. Quello che resta al poeta, e qui a Paul Auster,
nell’Affrontare al musica
è “il linguaggio dei muri. O un’ultima parola, tagliata dal
visibile” o l’ammissione di un limite o persino di un destino
irrisolto quando dice: “Sono venuto fino a qui per te, la voce che
mi fa eco non è più la mia”.
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