L’incanto
della poesia di Robert Frost non è tanto e non è solo quello di
trovarci “le parole migliori nell’ordine migliore”, per dirla
con Coleridge. E’ la convinzione, alla fonte, di una scelta non
emendabile, non rinviabile, perché c’è solo una strada che si può
prendere quando si afferma: “Non desidero che il mondo venga reso
più sicuro e accessibile alla poesia. Vada al diavolo. Fatti suoi.
Affoghi pure nel suo materialismo. Anzi, non vada al diavolo ma se ne
stia così com’è mentre io ne faccio arte”. La Conoscenza
della notte è l’apologia conclamata di quei “cuori
non avversi all’illusione”, come li chiamava Robert Frost in
Ottobre,
anche, per non dire soprattutto, al cospetto di tutte le circostanze
avverse che “ci lasciano alla strada che abbiamo presa così,
come due sul cui conto si fossero sbagliati, che nell’angolo a
volte ce ne stiamo acquattati, coi nostri ostili, erratici e serafici
sguardi, tentiamo di non sentirci dimenticati”. I versi di
Negletti
sono un parte considerevole di quel “dono totale”, che la poesia
di Robert Frost interpreta con una naturale spontaneità, capace di
ascoltare La voce degli alberi
o di assecondare il Rio Hyla ovvero quando un fiume è
“ormai soltanto per chi ha memoria buona. Questo come si vede è
tutt’altro che i fiumi invocati altro in canto. Noi amiamo le cose
che amiamo per quel che sono”. Sono lì, nelle pieghe della
wilderness, che si trovano i versi che sono diventati quasi dei
sigilli. Una prima direzione, inevitabile, in La
strada non presa: “Divergevano due
strade in un bosco, e io... Io presi la meno battuta, e di qui tutta
la differenza è venuta”. Speculare (e a ben vedere,
complementare) a La strada non presa
è Fermandosi accanto a un bosco in
una sera di neve. Stessa posizione,
sulla mappa, ma un’altra prospettiva: “Bello è il bosco, buio e
profondo, ma io ho promesse da mantenere e miglia da fare prima di
dormire”. Naturalmente, la fatale Conoscenza
della notte: “Ora sia pure
la notte buia quanto le pare e tanto buia per me ch’io non possa
guardare dentro il futuro. E sia quel che sarà”. Robert
Frost non si nasconde, non è riluttante, è giusto Un po’
scontroso, per amore delle ombre e difendere la dimensione
personale: “Per me voglio tenere solo la
libertà del mio materiale: la capacità occasionale di corpo e mente
di pescare convenientemente nel grande caos di tutto ciò che ho
vissuto”. Essendo un poeta tanto ricco quanto essenziale
(“Scrivere è tutta questione di avere idee. Imparare a scrivere è
imparare a avere idee”), non va cercato Né lontano né in
profondo: si concede, senza esitazioni, senza ripensamenti:
“Niente lacrime nello scrittore, niente lacrime nel lettore. Niente
sorpresa per lo scrittore, niente sorpresa per il lettore. Per me la
gioia iniziale è nella sorpresa di ricordare qualcosa che non sapevo
di sapere. Sono in un posto, una situazione, come materializzato da
una nuvola o sorto da terra. V’è un felice riconoscimento del
lungamente perduto e il resto segue”. Va accettato, questo sì, e
infine, “ogni rivelazione” possibile è contenuta nei che
concludono Di un albero caduto attraverso la strada. Potrebbero
essere il commiato ideale: “Non ci faremo distogliere
dall’obiettivo finale che in noi segreto abbiamo da raggiungere,
dovessimo afferrare la terra per il polo e, stanchi di girare a vuoto
in un sol posto, gettarci a inseguire qualcosa nello spazio”. E’
dove va cercato “il suono del senso”, il miraggio della
primordiale simbiosi tra musica e poesia.
martedì 28 marzo 2017
lunedì 27 marzo 2017
Lawrence Ferlinghetti
Un
po’ flusso di coscienza, un po’ Diari di viaggio e di
letteratura, queste note di Lawrence Ferlinghetti contengono
molto, se non tutto, dello spirito della Beat Generation, con una
prospettiva singolare, informale, intima e pubblica nello stesso
tempo. Viaggiatore infaticabile, convinto che “la poesia è ciò
che si perde”, Lawrence Ferlinghetti si lascia confondere dal
labirinto del mondo, tra i vicoli di Parigi in particolare e della
Francia in generale (una sorta di seconda patria) e le peripezie
negli ospedali russi, Nagasaki e un arresto a Brescia mentre cercava
la casa del padre, la Spagna e Marrakech, New York e New Orleans.
Sospinto da “una leggerezza strana, un senso di vertigine, uno
stordimento, una sensazione di svenimento, un disorientamento,
un’euforia psichedelica, quasi come se la terra avesse smesso di
girare per un istante, come se il tempo si fosse fermato per un
istante, e un tremolio di luce, come se l’oracolo fosse a portata
di mano, sul punto di parlare”, in Messico è accolto dal fantasma
(ricorrente) di Malcom Lovry al punto che Lawrence Ferlinghetti si
immedesima nel console di Sotto il vulcano. Non è l’unica
deviazione: ci sono anche trip psichedelici (grazie al peyote) non
sempre a buon fine, come succede nell’esilarante incontro con
Octavio Paz, ma le immagini sono sempre vivide, fresche, immediate,
frutto di un istinto innato per le parole. E’ un registro di
incontri e riferimenti letterari intorno al globo, con Ernesto
Cardenal nel Nicaragua sandinista, Samuel Beckett evocato a fasi
alterne, Ingeborg Bachmann a Roma, Allen Ginsberg sempre &
ovunque e Henry Miller quando si aggira per L’incubo ad aria
condizionata e a Big Sur scrive, nel settembre 1961: “Vedo cose
buie attraversare il paese”. Lo spirito è molto fedele alle
logiche dell’improvvisazione, degli appunti e degli schizzi, ed è
giusto così: “A volte è meglio non sapere nulla di un paese
quando lo visiti. In particolare è importante non conoscere la sua
lingua o le sue lingue. Così ogni suono, colpendo l’orecchio come
un campanellino o il verso di un animale, senza alcun significato
associativo, assume la qualità immediata della poesia, la qualità
del colore puro in pittura, con l’effetto percussivo del suono puro
e vuoto. E’ solo mentre questi suoni si accumulano dentro di noi
che qualche tipo di significato composito prende forma”. La mole
della raccolta comprende i resoconti delle sue peregrinazioni
oniriche (“Ho sognato tutto, io da solo, comprendendo ogni cosa”),
una bella dose di autoironia (“Ho visto le menti migliori di varie
generazioni di vari paesi uccise dalla noia ai reading di poesia”)
e tutti “i miti che adagiamo su noi stessi”, compreso
l’appuntamento con l’oracolo di Delfi, conclusione simbolica di
un’indomita odissea. Lawrence Ferlinghetti è “più poetico
perché più umano”, e non il contrario, e così conferma il mood
delle sue scritture sulla strada: “L’innocenza persiste,
follemente inesauribile, nonostante tutto. La strada non finisce. E’
come se la radio non stesse suonando. C’è un’immobilità
nell’aria, nella luce del crepuscolo, negli occhi fissi in avanti,
nella fine immobile della vita, una dolcezza intollerabile”. Sì,
come dice Patti Smith, questa è proprio “la voce inconfondibile
del poeta, del vagabondo americano”, che, in Messico, scrive: “I
galli cantano tutta la notte. Deve essere la fine del mondo”.
Succede, dopo un secolo di vita “dissidente” e dedicata alla
poesia: eroico.
lunedì 20 marzo 2017
Masha Gessen
I
fratelli Tsarnaev, Tamerlan e
Dzhokar alias Jahar, sono i responsabili degli attentati al traguardo
della maratona di Boston in occasione del Patriots Day, 15 aprile
2013. Tamerlan è morto in seguito alle ferite subite nel corso di un
conflitto a fuoco con la polizia, quattro giorni dopo. Dzhokar è
stato arrestato, processato e condannato alla pena di morte. Dalla
scia di sangue che si sono lasciati alle spalle in poi, la
ricostruzione di Masha Gessen è davvero scrupolosa e dettagliata e
non cerca di generare nella storia dei fratelli ceceni delle
motivazioni o delle attenuanti (non ce ne sono) ma compie uno sforzo
in due diverse direzioni: capire da dove sono partiti, e dove sono
arrivati. Nel Daghestan ci si stupisce se qualcuno spegne la
sigaretta mentre rifornisce di metano la propria auto, e “il
semplice fatto di vivere” in una “condizione premoderna”, con
un conflitto in corso, è una spinta sufficiente per migrare e “per
trovare un posto migliore”. La famiglia Tsarnaev ha sempre
assecondato quell’istinto alla partenza e Masha Gessen, lei stessa
figlia americana dell'immigrazione, ricorda che “non si descrive
mai il modo in cui la vita quotidiana perde colore perché nulla è
familiare, il modo in cui la concretezza del vivere sembra svanire.
Non si dice neanche una parola sul fatto che non sai più chi sei,
dove stai andando, con chi e perché e il timore esistenza senza pari
di questa condizione. Soprattutto, non si torna mai sulla propria
decisione: dal momento in cui passi il confine, c’è solo il
futuro”. Proprio in quel senso, cercando di delineare I
fratelli Tsarnaev svela uno dei nodi
principali all’origine dell’alienazione: “Le famiglie di
immigrati spesso patiscono una sorta di inversione: i bambini
smettono di essere bambini, perché gli adulti hanno perduto il loro
ruolo. I bambini non diventano adulti competenti dall’oggi al
domani; attraversano un periodo di intensa sofferenza e sradicamento,
tanto più doloroso in quanto obbligato e inatteso. Ma all’altro
capo del dolore individuano il loro ruolo e lo assumono rivendicando
il loro posto nel nuovo mondo”. Quando l’idea di “far parte
della squadra” si sgretola nella convivenza con le contraddizioni
della società americana, gli “outsider in mezzo ad altri
outsider” tendono a riprodurre la violenza come l’hanno vista e
vissuta. Forse più che la radicalizzazione (religiosa o politica) è
lo sradicamento a determinare la sequenza, ma le analisi rimangono
sullo sfondo di quella che è davvero Una
moderna tragedia americana e Masha
Gessen non lo nega: “La storia che cercavo di raccontare non
parlava di grandi cospirazioni e neanche di enormi esempi di
ingiustizia. Le persone che hanno un ruolo chiave in questa storia
sono poche, le idee che coltivano sono semplici e i piani che
elaborano sono tutt’altro che lungimiranti. Era il tipo di storia a
cui è più difficile e spaventoso credere”. La paura che deriva
dal dolore, dallo shock, dalla brutalità delle esplosioni è
altrettanto pericolosa perché le limitazioni alle libertà decretate
dalle esigenze di sicurezza (di fatto, la legge marziale imposta
durante la caccia ai fratelli Tsarnaev) sono l’anticamera di uno
stato in guerra, ovvero l’unico, vero momento in cui le distanze
tra America e Daghestan si sono azzerate. A saldo delle (immancabili)
teorie del complotto, di qualche legittimo dubbio, l’humus è
quello descritto dall’antropologo Scott Atran: “Mentre la
globalizzazione economica ha schiacciato o lasciato da parte una
larga fetta dell’umanità, la globalizzazione politica coinvolge
attivamente le persone, quale che sia la loro società e il loro
percorso di vita, anche le vittime dell’economia globale: profughi,
migranti, emarginati e coloro che vedono maggiormente frustrare le
proprie aspirazioni. C’è infatti, accanto a un mondo piatto e
fluido, un mondo più tribale frammentario e divisivo, poiché le
persone strappate a tradizioni e culture millenarie galleggiano in
cerca di un’identità sociale che sia individuale e intima, ma
nello stesso tempo dia il senso di uno scopo più grande e una
possibilità di sopravvivenza al di là della dolorosa e passeggera
quotidianità”. In questo limbo, la dimensione che spinge il
ricorso alla violenza non è nemmeno lontanamente ideologica o
filosofica, perché, come ha capito Masha Gessen con I
fratelli Tsarnaev “essere nati nel
posto sbagliato nel momento sbagliato, come capita a molte persone,
non sentirsi mai inseriti, vedere sfumate tutte le occasioni, anche
quelle apparentemente a portata di mano, finché l’occasione di
essere qualcuno finalmente, quasi casualmente, si presenta”. Come o
con quale prezzo da pagare, a quel punto, non è più importante. Un
libro lucido, coraggioso, scomodo.
sabato 18 marzo 2017
Patti Smith
Mentre
Robert Mapplethorpe, “vittima di una maligna metamorfosi”, se ne
sta andando, Patti Smith immagina, sogna, vede e prepara per lui un
viaggio verso le isole Salomone, terre vulcaniche di “beatitudine
equatoriale”, come canterà in Beneath
The Southern Cross. La rotta nelle
allegorie del Mar dei Coralli viene
tracciata dall’istinto e dall’inerzia in parti uguali ed è
presentata così dalla stessa Patti Smith: “Quando se ne andò, non
riuscivo a piangere, perciò mi misi a scrivere. Poi presi le pagine
che avevo scritto e le riposi. Eccole, sono queste pagine, il mio
addio alla mia avventura, alla mia gioia sconfinata”. Lei lo guarda
spegnersi e sparire e vede in lui i fanciulli delle sue letture, Kim,
Peter Pan, con la stessa aura scintillante: “Sognava. Dormiva. No,
non sognava affatto. Era piuttosto soggiogato da uno strano senso
d’amore. Un grembiule di occhi che tremavano e esplodevano come
tanti bulbi. Un unico tulipano. Grande, solitario e nero, come una
macchia sul sole”. Patti Smith procede già nella ricostruzione del
ricordo, nella conservazione della memoria e, nell’appropriarsi
delle gesta e dei simboli, presta a Robert Mapplethorpe le parole che
nessuno dei due riesce più a pronunciare: “Come potrei essere
incolpato, sussurrò. Per il bisogno di tanta opulenza. Per occhi che
volevano dare un nuovo assetto alle cose. Per essere stato uno che
voleva niente meno che abbracciare il crinale di una montagna mentre
la luce vi giocava sopra”. Per quanto metaforico,
l’attraversamento dell’oceano necessita di identificare con
precisione i naviganti ed è così Patti Smith racconta Robert
Mapplethorpe: “Adorava la prospettiva di un rapporto imprevisto. La
curva di uno stelo contro la gola di una dea caduta. La voluta di una
rete in una sala nuda. E quando ci si aggirava in quello spazio così
abilmente trasformato, era come penetrare davvero nel miracolo di una
mente eccezionale”. Il senso della prospettiva nella sua fotografia
resta testimone di tanta ammirazione e anche di “come avrebbe
voluto, per un attimo, stringere una vita sottile e fare un giro di
valzer sulle lucide tavole di legno. Affascinare la bellezza, essere
audace e seducente, essere inebriato dall’amore, e una ragione per
credere”. Dovrebbe essere un dialogo, ma sull’altra sponda ormai
c’è il silenzio, e Patti Smith si assume la responsabilità di
tradurre l’intesa, la complicità, lo spirito che li legava: “Era
arrivato alla conclusione che ciascuno di noi sa tutto, perché il
destino è dentro di noi, permea il nostro respiro. Sua è
l’atmosfera su cui il bambino posa il capo come su un cuscino. I
segni agitano le braccia, mentre noi passiamo oltre. Gli amanti
distolgono gli occhi finché la percezione tremante diventa
insopportabile, e si separano. Ciascuno tenendo un pezzo di futuro,
con le due metà che si combinano insieme come un cuore da quattro
soldi”. Lui era Queeneg e lei l'inevitabile Ismaele, ma poi, “una
folta rapida di vento afferrò l’orlo della coperta. Non amava il
guerriero, né la guerra, ma certi rituali, relitti di guerra. La
sciarpa del samurai, la ciotola di saké versata nel vento divino. E
nel controllare pezzo per pezzo i suoi strumenti, raggiunse il
comportamento di chi non appartiene più a nessuno, a niente, salvo
ai propri sogni, al proprio destino. E ne è schiavo”. Un’estrema
forma di saluto, coagulato attorno ai primi germi di quella scrittura
che, dal minuscolo bozzolo di Mar dei
Coralli, porterà entrambi
protagonisti, una volta tornati indietro nel tempo, a Just
Kids, quando erano ancora insieme,
affamati d’arte e di bellezza, trepidanti, sognanti.
giovedì 16 marzo 2017
Bret Easton Ellis
Bret
Easton Ellis torna a Los Angeles e ritrova le ombre dei protagonisti
di Meno di zero che vagano in cerca d’autore sotto l’egida,
un po’ arrugginita, di Hollywood. Gli aggiornamenti sono limitati
alla musica (i Counting Crows, i National), alle firme della moda e
alla vocazione per la tortura che serpeggia lungo il confine con il
Messico. Sfuggente più che mai, vittima e carnefice, Clay è un
riflesso dei suoi stessi incubi e così il ricordo di quegli anni
brillanti e folli rimane diventa qualcosa di sinistro e tutto “sembra
l’anticamera di una disastro”. La violenza si proietta con forza
onirica e, nel gioco delle personalità multiple di Clay e dei suoi
amici, è fine a se stessa. Lo scrittore, il narratore, Bret Easton
Ellis, i personaggi e gli interpreti ricoprono ruoli a cui manca una
regia e nei meccanismi che condizionano le vite fatte di apparenze si
perdono sullo sfondo di un piano sequenza senza fine di party, alcol
(molto alcol), cocaina (onnipresente), paranoie, analisi, sesso,
discussioni in formato digitale, con l’imperativo di avere sempre
un diversivo e una via di fuga pronti all’uso: “Passa ad altro,
buttati sull’impersonale, concentrati sui pettegolezzi, qualsiasi
cosa che susciti comprensione e riesca a chiudere la telefonata”.
Imperial Bedrooms è tutto plasmato in quel ronzio di fondo e
si regge su un equilibrio molto precario: alterna parti convulse
(tutto il finale) a momenti più cerebrali, onde e risacche di
emozioni vaghe che scorrono sul quel piano inclinato dove la finzione
è l’unica prassi quotidiana conosciuta e ammessa, e peraltro è la
principale fonte di guadagno dell’industria locale, dove “ciò
che conta di più è la patina di giovanile superficialità. E questo
dovrebbe far parte del fascino: mantenere tutto giovane e morbido,
mantenere tutto in superficie, pur sapendo che la superficie svanisce
e non può durare per sempre, bisogna approfittarne prima che la data
di scadenza si profili all’orizzonte”. E’ la superficie più
amara perché il cinismo diventa sempre più acido, e predominante,
ed è la più opaca perché gli anni che sono passati confondono la
prospettiva e Los Angeles è rimasta la stessa soltanto nelle pieghe
falsate dai miraggi di Hollywood, che restano le note più
interessanti di Imperial Bedrooms. E’ una storia di tutti i
fantasmi che attraversano Meno di zero (nella prima parte)
perché quello era “un mosaico di giovinezza, un luogo a cui tu non
appartieni proprio più”, e anche l’ennesimo titolo rubato a
Elvis Costello (compresa Beyond Belief posta in epigrafe)
introduce in una palude di rapporti istigati dal desiderio di essere
qualcuno, a tutti i costi. Dalla metà in poi, ovvero una volta
usciti dalle Imperial Bedrooms, i colori cominciano a tendere
all’oscurità e i toni conducono piuttosto alle mostruosità di
American Psycho, in un cocktail di rimpianti e confusione,
compresa la conclusione che “il mondo dev’essere un luogo dove a
nessuno interessano le tue domande e che se sei solo non può
accaderti nulla di male”. La considerazione è l’ennesimo indizio
nel suggerire che la via più semplice sarebbe classificare Clay (e
Bret Easton Ellis) come “un adolescente invecchiato male”, ma
parafrasando (entrambi) la sostanza è che Imperial Bedrooms
“non si capisce. E se si capisse, sarebbe tutto finito”.
Recidivo.
martedì 14 marzo 2017
Henry Miller
Introdotta
da Kenneth Rexroth, questa raccolta di frammenti è una sorta di
salto in lungo avanti e indietro nel tempo, in cerca di qualcosa che
non c’è più o non c’è ancora. L’assemblaggio, per niente
organico, un po’ scomposto, ha come unico fattore dominante la voce
di Henry Miller, spezzata dalle linee di demarcazione, storiche e
geografiche, della seconda guerra mondiale. Un cadavere ancora caldo
che in Il veterano alcoolizato con il cranio
ondulato, viene attribuito a quella logica
per cui viene ordinato “a milioni di innocenti di sterminarsi a
vicenda, e quando il sacrificio è compiuto autorizziamo un pugno di
uomini bigotti e ambiziosi, che non hanno mi saputo che cosa sia la
sofferenza, a riorganizzare le nostre vite”. Cosa c’è di
sbagliato in queste parole? Niente, purtroppo, perché si possono
adattare senz’altra variazione a qualsiasi giorno dal 1955, ovvero
da quando sono state scritte, a oggi. Una prima diretta conseguenza è
l’ammissione che una percezione del destino si è frantumata e
ormai non ci sia “nulla da cui ricavare poesia, a parte la morte e
la desolazione. Non si può far una poesia su un’automobile o una
cabina telefonica. Prima di tutto, è il cuor che deve essere
intatto. Bisogna essere capaci di credere in qualcosa”. Nello
specifico momento Henry Miller si accontenta di seguire il flusso dei
racconti, sapendo che “quando una storia si ascolta volentieri, se
si in seguito salta fuori che si trattava di una menzogna, tanto
meglio, una bella menzogna mi piace quanto la verità. Una storia è
sempre una storia, vera o inventata che sia”. Non è molto, ed è
la giustificazione, abbastanza fragile, che regge un delirio come
Fricassea astrologica
(basta il titolo) o la prosopopea delle divagazioni, sue o dei suoi
ospiti, che poi trovano in Dieppe-Newhaven e
ritorno tutto lo spazio, fin troppo, una
specie di varco temporale per riprendersi il tempo dei Giorni
tranquilli a Clichy, compresa una colorita
boutade sulla natura e sull’essenza di Tropico
del Cancro. Molto più definito Il
ponte di Brooklyn che evidenzia, una volta di
più, quella capacità di elevare i luoghi a qualcosa di leggendario,
con una vita propria. Qui, nel magma della scrittura di Henry Miller
si possono ritrovare accenni di Primavera nera
e la lucidità che pervade L’incubo ad aria
condizionata quando scrive: “Quella che
viene chiamata storia è soltanto la carta sismografica delle
esplosioni e corrosioni prodotte dall’aborto di un nuovo e salutare
tipo di uomo in non si sa quale oscuro periodo del passato. Questo
passato, come il futuro che lo dissolverà, si nutre della coscienza
dell’uomo di oggi. L’uomo d’oggi viene trasportato dalla sua
stessa corrente; i suoi momenti di maggiore chiarezza non sono
diversi nella qualità e nella trama della stoffa dei sogni. La sua
vita è come una cresta schiumante di una lunga ondata che sta per
frangersi sulla costa di un continente sconosciuto. Ha lanciato i
suoi detriti davanti a sé; si infrangerà pulito contro una solida
muraglia di flutti”. Il più vivido dei racconti è quello dedicato
a Mademoiselle Claude,
la dimostrazione vivente che “in un certo senso, la parola
prostituta non è abbastanza grande”. L’ammirazione è
incondizionata e le parole per Mademoiselle
Claude sono le uniche proiettate con
decisione verso il futuro: “Sento che anche se vivo con un angelo,
dovrei cercar di fare un uomo di me stesso. Dovremmo andarcene da
questo lurido buco, a vivere da qualche parte nel sole, una camera
con il balcone che dà sul fiume, uccelli, fiori, la vita che scorre,
soltanto lei e io e niente altro”. Henry Miller è determinato nel
proposito, così come nella sua negazione: “Non voglio dire che non
era sincero quel che avevo scritto, ma dopo quel primo gesto
spontaneo, non so, era soltanto letteratura”. C’è molto Henry
Miller in queste notti di riso e d’amore, ma è disordinato,
contraddittorio e sparso in briciole prima e dopo la guerra, al punto
che Porto Poros,
l’estratto da Il colosso di Marussi messo
in fondo, sembra voler ricominciare, ed è solo il ricordo di “una
stella finita”.
venerdì 10 marzo 2017
Charles Bukowski
Dieci
anni delle lettere di Bukowski agli amici, agli editori, ai redattori
e ai biografi offrono uno spaccato molto articolato e complesso
dell’uomo, dello scrittore, del sognatore. A differenza della
limita immagine pubblica, emerge un’altra faccia, dalle lettere che
Bukowski inviava di volta in volta ai numerosi corrispondenti del suo
inner circle. Per quanto disordinato, per non dire caotico, il suo
epistolario è la prova concreta di una dedizione appassionata e
assidua. Forse Bukowski non era così indisciplinato come voleva
apparire, ed è probabile che non fosse nemmeno “un gran
lavoratore”, come l’ha definito spesso Fernanda Pivano, a
dispetto dei cliché che gli hanno incollato addosso. Di fatto, Urla
dal balcone misura una bella fetta della sua eredità, anche
perché Bukowski si concede con la consueta e disarmante sincerità,
e tra le tante ipotesi sull’essere o non essere, ci aggiunge una
sua peculiare definizione: “Non voglio recitare la parte
dell’ubriacone; è soltanto che le cose che mi ricordo fanno venire
una tale nausea”. Ecco, prese in gruppo, le lettere del Buk non
solo offrono una prospettiva sulla sua convulsa quotidianità, ma
danno forma anche ad una sorta di catalogo delle idee sulla scrittura
(“Ma la scrittura, ovviamente, come il matrimonio, le nevicate o
le gomme delle macchine, non dura per sempre. Capita che ti
addormenti mercoledì notte che sei uno scrittore, e ti svegli
giovedì mattina che sei tutt’altro. O magari vai a letto mercoledì
che sei un idraulico, e ti svegli giovedì che sei uno scrittore.
Questo è il genere di scrittori migliore che ci sia”), sulla
poesia (“Scrivere poesie non è difficile; è difficile viverle.
Siamo realistici: ogni volta che diciamo buongiorno a qualcuno senza
intendere davvero augurargli una buona giornata, siamo un po’ meno
vivi”) e sullo stile (“Per ottenere un buono stile bisogna
innanzitutto essere privi di pretenziosità, e ciò che è
pretenzioso cambia di anno in anno di giorno in giorno di minuto in
minuto. Dobbiamo stare molto attenti. Un uomo non diventa vecchio
perché si avvicina alla morte; un uomo diventa vecchio perché non
riesce più a distinguere il buono dal falso. Ok, basta discorsi
retorici”). Altrove è difficile trovare un Bukowksi altrettanto
teorico ed idealista, ma quello che sorprende è scoprirlo
attentissimo a schivare i luoghi comuni e le banalità anche nei
rapporti epistolari d'uso quotidiano. Infatti non si lascia
trascinare dalle polemiche, dall’euforia e dalle follie di quegli
anni bollenti e irrisolti (dal 1959 al 1969), decide di confermarsi
come il principe degli outsider (“Certifico la mia esistenza in
vita. Sono vivo e bevo birra”). e sembra quasi profetico quando
scrive: “Non abbiamo bisogno di abbattere un bel niente. E’ tempo
che cominciamo a raccogliere quello che resta, e a conservarlo con
cura”. Un Bukowski sincero, umanissimo e persino accorato, come
quando scrive a John William Corrington, il 27 maggio 1962: “Noi
andiamo avanti con le nostre piccole poesie, e aspettiamo”. Una
specie di autobiografia spedita al mondo intero, senza ricevuta di
ritorno.
lunedì 6 marzo 2017
Kaye Gibbons
Una
volta saputo che il suo tempo sta per scadere Ruby Pitt Woodrow
Stokes passa i suoi ultimi giorni a cucinare e a confezionare le
pietanze da lasciare al marito spinta dall’idea che “se si cerca
la pace e si trova una certa serenità, si è già a metà strada”.
Ruby Pitt Woodrow Stokes ha due cognomi per due mariti diversi: il
primo, sposato da giovanissima, ha rischiato di ucciderlo il giorno
che l’ha trovato a gozzovigliare nel letto nuziale, poi è morto
comunque ammazzato, un disastro che proprio non sentiva di meritarsi,
Il secondo coniuge arriva dopo avere colto, anche abbastanza in
fretta, quella saggezza che le fa dire: “A volte è più difficile
smettere di pensare a certe cose piuttosto che ad altre, ma quanta
gente conoscete, d’altronde, che è riuscita a togliersi il cappio
dal collo con la stessa facilità con cui se l’è messo? Sognare a
occhi aperti, amare l’uomo sbagliato, fumare: tutte abitudini
difficili da togliersi”. Jack Ernest Stokes è un uomo semplice,
senza pretese ed era destinato a confondersi con la terra che
coltiva, se non fosse stato per lei: “Fin quando non incontrai
Ruby, la cosa più carina che avevo chiesto a una donna era se per
favore mi teneva fermo il mulo mentre agganciavo l’aratro”.
L’alternanza delle voci di Jack e Ruby Kaye Gibbons a raggiungere
uno degli obiettivi della sua scrittura, la ricostruzione fedele del
parlato, del gergo originario perché “non si può mica tirar fuori
le parole e basta”. A saldo dell’influenza (inevitabile) di
William Faulkner perché Una donna
virtuosa ha più riferimenti,
diretti e indiretti, a Mentre morivo,
Kaye Gibbons riesce nell’impresa di tradurre nel romanzo tutti i
“southern accents” (come direbbe Tom Petty) che vanno oltre la
lingua scritta e parlata: “C’è una tradizione oratoria molto
radicata a tutti i livelli. Amiamo esprimerci in maniera colorita,
folkloristica. Amiamo moltissimo le metafore. C’è un amore per una
scelta accurata delle parole e quando scrivo cerco di fare onore a
questa tradizione”. Il ritmo ondeggiante della scrittura di Kaye
Gibbons ha una forma fluida, molto personale ed evidenzia in modo
spontaneo i contrasti. Il tono è aspro, solido, risoluto: la
conversazione a distanza, perché uno dei due interlocutori è ormai
un fantasma, permette a Kaye Gibbons la sovrapposizione delle voci,
come se le avesse separate per dare un senso compiuto alla storia
perché “il punto è solo riuscire a vedere quello che vuoi vedere.
La gente lo fa di continuo, anche se in modi diversi: sente, pensa e
dice quello che vuole sentire, pensare e dire”. I punti di vista
cambiano e collidono, sembrano riflettersi uno nell’altro e
l’ipotetico confronto si sposta dal l’alveo del matrimonio di
Jack e Ruby a un livello più personale visto che che “non c’è
niente che non diremmo a noi stessi pur di riuscire a tirare avanti”.
Lo stesso linguaggio che permea Una
donna virtuosa è a sua volta un
riflesso naturale dell’ambiente rurale, limitato, polveroso in cui
Jack sopravvive a Ruby, come se le parole fossero parte integrante
dell’atmosfera e della convinzione che “tutto quello che puoi
fare è andare là fuori e fare del tuo meglio per adattarti”, e
non molto di più. Convincente.
giovedì 2 marzo 2017
T. C. Boyle
L’incipit
funziona da detonatore: “Cercò in seguito di ridurre l’episodio
a un’astrazione, a un incidente in un mondo d’incidenti, a uno
scontro di forze contrapposte, il paraurti della sua macchina e il
corpo fragile, curvo, annaspante di un ometto con la pelle scura e lo
sguardo folle, ma ci riuscì solo fino a un certo punto”.
L’episodio mette in collegamento due famiglie che abitano agli
estremi opposti del Topanga Canyon, nell’habitat indefinibile della
“città di quarzo” alias Los Angeles. Cándido e América vivono
accampati ai bordi delle strade dove sono arrivati per “trovare
qualcosa” e si ritrovano con le macchine che strappano l’aria
dai polmoni “e si lasciavano dietro un fetore di gas. I pneumatici
sibilavano. Le facce guardavano impassibili”. Aspettano un figlio
in un rifugio improvvisato, Cándido lavora come può, quando può,
per pochi dollari, ed entrambi sono costretti a subire ogni genere di
angheria: sono immigrati e clandestini, un duplice peccato mortale
che li costringe a una vita pericolosa, senza diritti, senza
speranze, al punto che América comincia a sognare di tornare a casa,
tra “gente come loro, di Teploztlán o di Cuernavaca, mettendo
insieme le risorse, vivendo come una grande famiglia. E, per quanto
piccola, per quanto sporca, con topi e scarafaggi e sparatorie sotto
le finestre, sarebbe stata sicuramente preferibile a quel posto”.
Delaney e Kyra Mossbacher (e il figlio Jordan) vivono dall’altra
parte del canyon, in un’area chiamata Arroyo Blanco Estates. Lei è
un’agente immobiliare, adora le case vuote. Delaney scrive per una
rivista di ecologia che, per contrasto, si chiama Wide Open Spaces e
in cui ricorda che “In America, certo, si stava tranquilli, ma era
folle pensare di poter ignorare il resto del mondo, il mondo della
fame e della perdita e della costante inesorabile degradazione
dell’ambiente. Cinque miliardi e mezzo di persone che divoravano le
risorse del pianeta come cavallette, e solo settantatré condor della
California sopravvissuti in tutto l’universo”. Dall’altra
parte, in fondo alla collina, il lusso (quando va bene) sono le uova
in tutte le salse, “huevos con chorizo, huevos rancheros, huevos
hervidos con pan tostado”. I Mossbacher mangiano fibre cereali e
vitamine a colazione, fanno barbecue con kebab di tofu, un modo
sarcastico di T. C. Boyle per ricordare un’ipotesi cosmopolita
ridotta a risolvere “la necessità e le esigenze e le piccole
irritazioni del quotidiano” perché “era questo il sistema
americano. Compra qualcosa. Sentiti bene”, ma l’impalcatura sta
scricchiolando. Sì, l’immigrazione è un’ondata che suscita
paura e T. C. Boyle, già vent’anni fa, non temeva di far
confessare a uno dei protagonisti che l’America “è una società
rabbiosa e frammentata, e non parlo solo dei nostri connazionali con
soldi o senza soldi, ma dei torrenti di umanità che affluiscono
dalla Cina, dal Bangladesh, dalla Colombia, scalzi, senza un mestiere
e senza niente da mangiare. Vogliono quello che hai tu, amico, mio, e
credi che verranno a bussare alla tua porta per chiedertelo con
gentilezza?” La domanda non è retorica. I proprietari della Arroyo
Blanco Estate stanno decidendo di costruire una barriera che li
difenda non solo dal flusso degli indigenti, ma anche dai pericoli
naturali, a cominciare dai coyote che, negli ambienti urbanizzati,
trovano spazi e prede in quantità. Il romanzo di T. C. Boyle spiega
alla perfezione le distanze e le differenze che definiscono le
frontiere, e non soltanto il border tracciato tra Stati Uniti e
Messico. Allora come oggi, nella fiction come nella realtà, l’idea
che un muro possa essere una soluzione non è “offensiva” come
dice Delaney, o antieconomica. E’ soltanto tardiva, quindi fuori
luogo, perché proprio come succede in América, invece di
evitare il conflitto, lo esalta. Attualissimo.