Un
po’ flusso di coscienza, un po’ Diari di viaggio e di
letteratura, queste note di Lawrence Ferlinghetti contengono
molto, se non tutto, dello spirito della Beat Generation, con una
prospettiva singolare, informale, intima e pubblica nello stesso
tempo. Viaggiatore infaticabile, convinto che “la poesia è ciò
che si perde”, Lawrence Ferlinghetti si lascia confondere dal
labirinto del mondo, tra i vicoli di Parigi in particolare e della
Francia in generale (una sorta di seconda patria) e le peripezie
negli ospedali russi, Nagasaki e un arresto a Brescia mentre cercava
la casa del padre, la Spagna e Marrakech, New York e New Orleans.
Sospinto da “una leggerezza strana, un senso di vertigine, uno
stordimento, una sensazione di svenimento, un disorientamento,
un’euforia psichedelica, quasi come se la terra avesse smesso di
girare per un istante, come se il tempo si fosse fermato per un
istante, e un tremolio di luce, come se l’oracolo fosse a portata
di mano, sul punto di parlare”, in Messico è accolto dal fantasma
(ricorrente) di Malcom Lovry al punto che Lawrence Ferlinghetti si
immedesima nel console di Sotto il vulcano. Non è l’unica
deviazione: ci sono anche trip psichedelici (grazie al peyote) non
sempre a buon fine, come succede nell’esilarante incontro con
Octavio Paz, ma le immagini sono sempre vivide, fresche, immediate,
frutto di un istinto innato per le parole. E’ un registro di
incontri e riferimenti letterari intorno al globo, con Ernesto
Cardenal nel Nicaragua sandinista, Samuel Beckett evocato a fasi
alterne, Ingeborg Bachmann a Roma, Allen Ginsberg sempre &
ovunque e Henry Miller quando si aggira per L’incubo ad aria
condizionata e a Big Sur scrive, nel settembre 1961: “Vedo cose
buie attraversare il paese”. Lo spirito è molto fedele alle
logiche dell’improvvisazione, degli appunti e degli schizzi, ed è
giusto così: “A volte è meglio non sapere nulla di un paese
quando lo visiti. In particolare è importante non conoscere la sua
lingua o le sue lingue. Così ogni suono, colpendo l’orecchio come
un campanellino o il verso di un animale, senza alcun significato
associativo, assume la qualità immediata della poesia, la qualità
del colore puro in pittura, con l’effetto percussivo del suono puro
e vuoto. E’ solo mentre questi suoni si accumulano dentro di noi
che qualche tipo di significato composito prende forma”. La mole
della raccolta comprende i resoconti delle sue peregrinazioni
oniriche (“Ho sognato tutto, io da solo, comprendendo ogni cosa”),
una bella dose di autoironia (“Ho visto le menti migliori di varie
generazioni di vari paesi uccise dalla noia ai reading di poesia”)
e tutti “i miti che adagiamo su noi stessi”, compreso
l’appuntamento con l’oracolo di Delfi, conclusione simbolica di
un’indomita odissea. Lawrence Ferlinghetti è “più poetico
perché più umano”, e non il contrario, e così conferma il mood
delle sue scritture sulla strada: “L’innocenza persiste,
follemente inesauribile, nonostante tutto. La strada non finisce. E’
come se la radio non stesse suonando. C’è un’immobilità
nell’aria, nella luce del crepuscolo, negli occhi fissi in avanti,
nella fine immobile della vita, una dolcezza intollerabile”. Sì,
come dice Patti Smith, questa è proprio “la voce inconfondibile
del poeta, del vagabondo americano”, che, in Messico, scrive: “I
galli cantano tutta la notte. Deve essere la fine del mondo”.
Succede, dopo un secolo di vita “dissidente” e dedicata alla
poesia: eroico.
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