Bret
Easton Ellis torna a Los Angeles e ritrova le ombre dei protagonisti
di Meno di zero che vagano in cerca d’autore sotto l’egida,
un po’ arrugginita, di Hollywood. Gli aggiornamenti sono limitati
alla musica (i Counting Crows, i National), alle firme della moda e
alla vocazione per la tortura che serpeggia lungo il confine con il
Messico. Sfuggente più che mai, vittima e carnefice, Clay è un
riflesso dei suoi stessi incubi e così il ricordo di quegli anni
brillanti e folli rimane diventa qualcosa di sinistro e tutto “sembra
l’anticamera di una disastro”. La violenza si proietta con forza
onirica e, nel gioco delle personalità multiple di Clay e dei suoi
amici, è fine a se stessa. Lo scrittore, il narratore, Bret Easton
Ellis, i personaggi e gli interpreti ricoprono ruoli a cui manca una
regia e nei meccanismi che condizionano le vite fatte di apparenze si
perdono sullo sfondo di un piano sequenza senza fine di party, alcol
(molto alcol), cocaina (onnipresente), paranoie, analisi, sesso,
discussioni in formato digitale, con l’imperativo di avere sempre
un diversivo e una via di fuga pronti all’uso: “Passa ad altro,
buttati sull’impersonale, concentrati sui pettegolezzi, qualsiasi
cosa che susciti comprensione e riesca a chiudere la telefonata”.
Imperial Bedrooms è tutto plasmato in quel ronzio di fondo e
si regge su un equilibrio molto precario: alterna parti convulse
(tutto il finale) a momenti più cerebrali, onde e risacche di
emozioni vaghe che scorrono sul quel piano inclinato dove la finzione
è l’unica prassi quotidiana conosciuta e ammessa, e peraltro è la
principale fonte di guadagno dell’industria locale, dove “ciò
che conta di più è la patina di giovanile superficialità. E questo
dovrebbe far parte del fascino: mantenere tutto giovane e morbido,
mantenere tutto in superficie, pur sapendo che la superficie svanisce
e non può durare per sempre, bisogna approfittarne prima che la data
di scadenza si profili all’orizzonte”. E’ la superficie più
amara perché il cinismo diventa sempre più acido, e predominante,
ed è la più opaca perché gli anni che sono passati confondono la
prospettiva e Los Angeles è rimasta la stessa soltanto nelle pieghe
falsate dai miraggi di Hollywood, che restano le note più
interessanti di Imperial Bedrooms. E’ una storia di tutti i
fantasmi che attraversano Meno di zero (nella prima parte)
perché quello era “un mosaico di giovinezza, un luogo a cui tu non
appartieni proprio più”, e anche l’ennesimo titolo rubato a
Elvis Costello (compresa Beyond Belief posta in epigrafe)
introduce in una palude di rapporti istigati dal desiderio di essere
qualcuno, a tutti i costi. Dalla metà in poi, ovvero una volta
usciti dalle Imperial Bedrooms, i colori cominciano a tendere
all’oscurità e i toni conducono piuttosto alle mostruosità di
American Psycho, in un cocktail di rimpianti e confusione,
compresa la conclusione che “il mondo dev’essere un luogo dove a
nessuno interessano le tue domande e che se sei solo non può
accaderti nulla di male”. La considerazione è l’ennesimo indizio
nel suggerire che la via più semplice sarebbe classificare Clay (e
Bret Easton Ellis) come “un adolescente invecchiato male”, ma
parafrasando (entrambi) la sostanza è che Imperial Bedrooms
“non si capisce. E se si capisse, sarebbe tutto finito”.
Recidivo.
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