L’incontro
lungo una stagione di Addie Moore e Louis Waters in Le
nostre anime di notte è la tregua
di una condizione, dell’essere due e non più uno, dell’essere
uno e non più due, l’idea di prendersi tutto il tempo che serve,
visto che è quello che rimane, e non soltanto, anche quella, come
direbbe Robert Frost, di “incontrarsi e passar oltre”: l’intimità
di una compagnia che è un’acrobazia tra le solitudini di un uomo e
di una donna. L’equilibrio rende la storia di Louis e Addie fragile
e delicata, ma tutt’altro che consolatoria: l’età che non chiede
nulla di più, se non affrontare il negativo del giorno (cos’è la
notte, in fondo?), rincorrendo una tranquillità che pare
impossibile, sfuggente, anche nel tentativo di “aggiustare le vite
degli altri”, che è sempre una missione complicata. Per questo,
per quanto il rapporto tra Addie e Louis si regga su una condizione
frugale e fortuita in sé, è una dichiarazione di indipendenza da
Holt, dalle sue logiche circoscritte e limitate. Kent Haruf guarda a
est e lì sposta anche piccoli dettagli, con i suoi personaggi che
però alla fine vanno a ovest, dove nel corso del romanzo avvengono
gli episodi più importanti. Il richiamo alle coordinate dell’aurora
e del crepuscolo è ambivalente e in questa metamorfosi
dell’orientamento, i giorni di campeggio fuori da Holt sono
intercambiabili con La felicità
ripaga in profondità quel che le manca in lunghezza
di Robert Frost. Il titolo induce già in tentazione e i paralleli
possono durare per (quasi) tutte le pagine: a volte sono palesi,
altrimenti sono connessioni più sottili e nascoste, partendo con “la
necessità di essere versati nelle cose campestri” per arrivare a
chiedersi “se pure possa esservi disegno, in così piccola cosa”.
Quello che collima è il senso di “accettazione” di cui è
pervaso Le nostre anime di notte,
che sembra il tentativo, peraltro riuscito senza eccezioni, di
trasporre in prosa tutta la Conoscenza
della notte di Robert Frost. Il suo
nome è dissimulato all’interno di una lista dei poeti letti “a
memoria” da Louis, ma è soltanto un primo indizio tra i tanti
disseminati da Kent Haruf. C’è una serie di coincidenze
impressionanti, e non soltanto per il naturale accostamento con il
proposito di “attraversare la notte insieme”, per cui comunque la
risposta più efficace è ancora del poeta, quando scrive che “il
miglior modo di uscirne è sempre di passarci”. E’ proprio nel
tono, in quel “suono del senso” che viene attribuito alle parole,
ai dialoghi e che viene donato al lettore, non imposto, non forzato e
neppure così semplice come potrebbe sembrare in apparenza, in
superficie, che l’associazione con Robert Frost diventa più
evidente come se Le nostre anime di
notte fosse un sinuoso bassorilievo
ricavato sulle linee delle poesie perché si svolge tutto nelle voci
soffuse, eppure così marcate, così definite, di due persone che si
parlano nel buio, tenendosi per mano. Quando quel legame che Addie e
Louis hanno costruito frase per frase, silenzio per silenzio, gesto
per gesto, con fatica, misurando i passi, contando le luci e le
ombre, viene interrotto dall’interno, dalla ricomposizione forzata
del concetto di famiglia, si intuisce che il valore delle parole è
mutevole e nel processo di affrontare “i piccoli fatti di ogni
giorno” si celano insidie velenose, e impietose. In soccorso, nel
finale, è necessario richiamare Robert Frost. Quando scrive che “per
il tempo che parlammo tu sembravi sorridere a qualcosa”, è
impossibile non mettere Louis all’inizio del verso e Addie alla
fine. E’ così che il commiato di Kent Haruf si rivela l’omaggio
al lettore attento e scrupoloso che per tutta la vita si è nascosto
dietro il mestiere dello scrittore.
domenica 26 febbraio 2017
lunedì 20 febbraio 2017
Allan Gurganus
Una
figlia straordinaria, Caitlin Cait Mulray, spinta dall’istinto
della buona samaritana, induce l’intera Falls, North Carolina a
condividere una condizione di eccezionalità. In effetti, la
cittadina immaginaria dove si svolge la trilogia Locals
Souls rimane solo sullo sfondo:
tutto succede tra le mura domestiche e una strada a fondo chiuso in
un quartiere residenziale. Falls è una località singolare, che pare
limitata a quel cul de sac dove vivono Cait, i due fratelli gemelli e
la madre, Jean Mulray. Restano in sospeso, e sono relative, le altre
indicazioni, River Road, il parco a sette chilometri o il ghetto dove
Cait va a distribuire generi di prima necessità. L’entusiasta
generosità di Cait è unilaterale, più che francescana, e finché
si limita a dispensare il superfluo, qualche elettrodomestico usato o
le scarpe della madre resta più o meno tollerabile. Quando Cait,
alla vigilia del passaggio all’università, decide di passare
un’estate in Africa, nella sua storia ci si accorge che Anche
le sante hanno una madre, e si apre
una frattura continentale che non è soltanto geografica, anche se la
distanza inciderà parecchio. E' proprio il romanzo che si divide,
quindi si sdoppia. A partire dal rapporto tra madre e figlia che
viene duplicato tra Cait e Jean, e Jean e Ice. Le due parti del
romanzo stesso si specchiano a partire dal colpo di scena magistrale
che Allan Gurganus piazza lì, in mezzo, nel posto dove deve stare,
come una ferita che separa i lembi della stessa pelle che non
vogliono più stare insieme. Quel momento di Anche
le sante hanno una madre fa apparire
tutto ciò che l’ha preceduto giusto un elaborato prologo e tutto
quello che segue un lunghissimo epilogo. La struttura in sé è
singolare, se non proprio geniale, perché il coup
de théâtre in effetti, come tutto in Anche
le sante hanno una madre, è doppio,
e non solo, è inizio e fine, alfa e omega, come direbbe il poeta
preferito di Cait, ovvero Wallace Stevens.
C’è un aspetto critico con cui Allan Gurganus, non senza una
congrua dose di ironia, sottolinea alcuni cliché (a partire
dall’esasperazione di un altruismo che conduce inevitabilmente
all’Africa), ma soprattutto le contorsioni del rapporto tra madre e
figlia, che s’inerpica tra la sfrontata innocenza di Cait e le
frustrazioni di Jean (una poetessa, prima di diventare moglie, madre
ed ex moglie). Il romanzo è perfetto, il ritmo è sempre incalzante,
la descrizione dei personaggi (che sono tutto, con i dialoghi) sempre
scrupolosa. L’abilità di Allan Gurganus è quella di riuscire a
mantenersi in equilibrio perché in Anche
le sante hanno una madre mantiene la
tragedia sospesa sopra la commedia e la commedia si specchia nella
vera tragedia, quella dell’incomunicabilità. Una delle poetesse
più apprezzate da Jean, Elizabeth Bishop direbbe che Anche
le sante hanno una madre scorre
“come se un fiume trasportasse tutte le scene che ha mai
rispecchiato chiuse nelle sue acque, e non a galla, effimere,
fluttuanti”. L’immagine è consona: la tensione è costante
perché deriva da Jean, dal suo essere e non essere, dalle
possibilità sfiorate, dagli effetti collaterali del tirare avanti,
nonostante tutto (i figli, la separazione, e quindi di nuovo i figli
da sola, e poi Cait, e l'Africa) e dalla capacità di Allan Gurganus
di leggere le fragili psicologie dei personaggi, persino i loro
silenzi, in mezzo alle discussioni e alle giornate che non finiscono
mai. Più di tutto, ha il tatto per portare a termine, senza un
singolo cedimento, una storia a fior di pelle, bruciante e delicata
nello stesso tempo.
giovedì 16 febbraio 2017
James Robert Baker
In
fondo, l’idea di Sogni iniettati di
benzina era davvero affascinante.
C’è del torbido nel triangolo tra il fan, la rock’n’roll star
e il mogul dell’industria discografica e nel contesto, Los Angeles
dal 1964 al 1967 e poi vent’anni dopo, c’erano elementi storici a
sufficienza (un nome, Phil Spector, e basta e avanza) per mettere
insieme una rock’n’roll story che diventasse un classico, o
comunque, un modello di riferimento. Certo, non ci si poteva
aspettare un Great Jones Street
sulla West Coast (anche perché, evidentemente, Robert James Baker
non era Don DeLillo) o La luna del
falco da un’altra prospettiva,
visto che di Sam Shepard ne esiste soltanto uno, ma si tratta di
libri che erano già di pubblico dominio quando è stato scritto
Sogni iniettati di benzina,
con una conoscenza linguistica e antropologica del rock’n’roll
molto articolata e profonda e un tono di un certo spessore per
riuscire a raccontare tutte quelle odissee di ordinaria follia. Sogni
iniettati di benzina invece si
concentra su una sorta di fiaba in acido, una variante del cavaliere
che vuole salvare la principessa dalla prigionia, con contorno di
ville decadenti con viste sull’oceano, 357 magnum sfoderate (e
usate) nel pieno della notte e di tutti i cliché legati alla
costruzione di canzoni di successo e all’ambizione artistica. I
luoghi comuni imperanti nello show business agorafobia,
claustrofobia, paranoie, ossessioni, schizofrenia e altri disturbi
della personalità alimentato i personaggi di Sogni
iniettati di benzina. Solo che il
linguaggio, per dirla con lo stesso James Robert Baker, è “piatto
e desolato come il sogno surrealista di un ragazzino”. La scrittura
è limitata, un torpiloquio di battute sempre satirico e colloquiale.
I frequenti cambi di registro, dalla commedia alle atmosfere noir,
non sono supportate da un’equivalente e parallela metamorfosi della
tonalità che è caotica e cacofonica. Se non altro, James Robert
Baker anticipava, con quei modi un po’ allucinati e sconclusionati
(e divertenti, bisogna ammetterlo), uno stile che sarebbe diventato
obbligatorio da lì a qualche anno, ma sembra accorgersi anche lui
che i Sogni iniettati di benzina
girato a vuoto quando lasciare dire a uno dei protagonisti: “Questa
routine magica da paese dei balocchi mi ha stancato”. Nella
celebrazione dell’eccesso, una tradizione consolidata a Hollywood,
si trova di tutto: dal mistero di una ragazza scomparsa sulla
spiaggia all’ossessione per le auto d’epoca, per non parlare dei
consunti standard sesso, droga e rock’n’roll, fin troppo abusati
da James Robert Baker (in particolare i primi due della lista).
Ammesso, e non concesso, lo status psichedelico, lo sviluppo di Sogni
iniettati di benzina resta
claudicante in tutte le sue parti, che sono sempre affollate. C’è
di tutto: stupri, omicidi, una riunione di coscritti, gli incendi
sulle colline di Los Angeles, persino un presagio, tra le righe,
della vera tragedia di James Robert Baker, che è morto suicida nel
1997. Alla fine, i Sogni iniettati di
benzina non sono stati sufficienti
nemmeno per lui.
lunedì 13 febbraio 2017
Flannery O'Connor
Si
fa presto a dire gotico o grottesco, che sono definizioni che
lasciano sempre il tempo che trovano. In realtà l’esplorazione di
Flannery O’Connor, “garantita” in un certo senso dalla fede,
dalla certezza assoluta della separazione tra bene e male, è
qualcosa di assolutamente originale e singolare: è un calarsi nelle
profondità dell’animo umano e nelle sue distorsioni con un
coraggio che pochi hanno avuto. Sempre sul filo del rasoio, con
un’energia ricavata dai contrasti, perché poi bene o male non sono
così distanti, i racconti di Flannery O’Connor funzionano come
parti di un insieme, e spesso sono serviti da apripista ai romanzi,
ma il più delle volte sono forme indipendenti che vivono di vita
propria. Sono constatazioni multiple dei dettagli, istantanee
brucianti, visioni, percezioni, figure in movimento, e sono gioielli
di precisione. Ogni particolare si incastra in quello successivo, uno
nell’altro, ogni piccola sfumatura, naturale, artificiale o umana
che sia, concorre a costruire la storia in un equilibrio cristallino
perché come diceva Flannery O’Connor “la narrativa opera
attraverso i sensi, e uno dei motivi per cui, secondo me, scrivere
racconti risulta così arduo è che si tende a dimenticare quanto
tempo e pazienza ci vogliono per convincere attraverso i sensi. Se
non gli viene dato modo di vivere la storia, di toccarla con mano, il
lettore non crederà a niente di quel che il narratore si limita
riferirgli. La caratteristica principale, e più evidente, della
narrativa è quella di affrontare la realtà tramite ciò che si può
vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. E’ questa una cosa che
non si può imparare solo con la testa; va appresa come un’abitudine,
come un modo abituale di guardare le cose. Lo scrittore di narrativa
deve rendersi conto che non è possibile suscitare la compassione con
la compassione, l’emozione con l’emozione, o i pensieri con i
pensieri. A tutte queste cose bisogna dare corpo, creare un mondo
dotato di peso e di spessore”. L’ossessione per il corpo,
derivata dalla malattia, dalla sofferenza e, ancora una volta, dal
conflitto, è trasmessa come un’infezione ai protagonisti. Un
piccolo dato statistico: su 32 racconti, 20 cominciano con il nome di
un personaggio sparato già nelle prime righe dell’incipit, come se
Flannery O’Connor dovesse nominare, subito, fin dall’inizio, i
volti, le figure, i caratteri che determineranno la trama, il
racconto, la storia. Uomini e donne “spaventosamente ingenui”,
come li definisce, su tutti, in Brava gente di campagna e la
brutale predisposizione verso i personaggi porta di conseguenza verso
una forma di scrittura che è un concentrato urticante di
sovrapposizioni di toni, di sfumature, di linguaggi, dal gergo
popolare ai motti tradizionali, dalle pagine bibliche ai dialetti.
C’è qualcosa nella forma, estrema e tagliente quanto rigorosa, che
sfiora e graffia: nella sua essenza conta l’ambiente, rurale e
povero, le dimensioni famigliari sempre un po’ incompiute, la
vocazione a guardare dentro il buio. Un
modo di pensare, anche, perché “la narrativa riguarda tutto ciò
che è umano e noi siamo fatti di polvere, dunque se disdegnate
d’impolverarvi non dovreste tentare di scrivere narrativa. Non è
cosa abbastanza nobile per voi”. A volte è goffa e crudele nel
modo di esprimersi (non tanto nella forma, quanto nella scelta di
tempo), e quando deve parlare di sé e del suo lavoro sa essere
ancora più perfida, come scriveva in una delle lettere raccolte in
Sola a presidiare la fortezza: “Sono contentissima che i
racconti ti siano piaciuti, così ora non trovo sconveniente che a me
piacciano tanto. La verità è che mi piacciono più che a chiunque
altro e li leggo e li rileggo e mi sbellico dalla risate, poi mi
ricordo che li ho scritti io e un po’ mi vergogno”. Inimitabile.
martedì 7 febbraio 2017
Walt Whitman
Prima
l’America, okay, ma dato che “una bellezza delle parole consiste
nell’esattezza”, cosa rappresenta il vocabolo in sé? La
dimensione delle parole, più che l’uso (e abuso) è una felice
ossessione di Walt Whitman e la somma di note e appunti raccolti in
Un sillabario americano
assume un valore indipendente, singolare e speciale, una volta
collocata nell’attualità, dove peraltro sta benissimo. Walt
Whitman sapeva che “le parole non sono originali né arbitrarie in
se stesse” e, affascinato dall’insorgere di “nuove parole
richieste dalle nuove situazioni, dai nuovi fatti, dalle nuove
politiche, dalle nuove combinazioni”, con innato trasporto si è
lanciato in una serie di riflessioni, appunti e tracce nel tentativo
di definirne un profilo accettabile. Essendo un poeta, Un
sillabario americano non esprime
analisi, comparazioni, etimologie, esegesi, ma è un inno entusiasta,
che comincia così: “Le parole sono state creare per esprimere i
pensieri della vostra e dell’altrui mente, per esprimere tutte le
aspirazioni, i desideri profondi, le passioni, l’amore e l’odio,
la noia e la follia, la disperazione degli uomini per le donne, e
quella delle donne per gli uomini; per esprimere il carico e il
sovraccarico, lì nella testa che abbiamo posata sul corpo, che
elettrizzano il corpo che sta sotto la testa, o scorrono con il
sangue nelle vene; o si manifestano in quei curiosi e incredibili
miracoli che chiamiamo vista e udito; insomma, per esprimere tutte
queste cose, e molte altre simili, ebbene, è per questo, ripeto, che
sono state create le parole. Sono queste le parole che non sono mai
né nuove né vecchie”. Lo scopo di Un
sillabario americano è individuare
le parole tra le lingue, i gerghi, i dialetti che andranno a
confluire in un nuovo idioma, che solo in parte coincide con
l’origine anglosassone. Walt Whitman era già convinto che “tra
breve gli americani saranno il popolo che parlerà nel modo più
fluente e melodioso della terra, e saranno i più perfetti fruitori e
utilizzatori di parole. Le parole sono conseguenze del carattere e da
esso derivano origine, indipendenza , individualità”. Per quello
insisteva nel richiamare l’attenzione all’applicazione del
vocabolario, per esempio, invocando il rispetto della toponomastica
nativa perché i nomi “sono fatti, discendenza, maternità, fedi”.
L’equazione è fin troppo elementare: gli togli il linguaggio, li
rendi stranieri, li rendi schiavi. E’ proprio il senso di Un
sillabario americano, fin dal
provvisorio titolo, quello di “offrire allo spirito, al corpo,
all’individuo, nuove parole, nuove potenzialità del linguaggio...
Una sorta d’estensione americana e cosmopolita della libera
espressione della propria personalità (il meglio dell’America
consiste proprio nel migliore cosmopolitismo)”. Incredibile, a
dirsi, ma non ci sono parole migliori per descrivere il bisogno
disperato di un’altra America, dell’America ideale, di Walt
Whitman che in Foglie d’erba
scriveva “Guardate attraverso gli atlantici abissi, le pulsazioni
americane che raggiungono l’Europa, le pulsazioni dell’Europa che
debitamente rispondono”. Era profetico, in quelli che Ralph Waldo
Emerson chiamava “liberi e audaci pensieri”, e non di meno la
parte conclusiva del sillabario, che riporta a Brooklyn, all’infanzia
e all’albero genealogico di Walt Whitman è altrettanto pertinente
perché nella sua storia personale si riflette il canto di se stesso
e di una nazione, il sogno di qualcosa di nuovo, un’utopia per cui
“probabilmente sono necessarie altre parole”. Walt Whitman lo
diceva alla fine della guerra di secessione: valeva allora, oggi
ancora di più.
sabato 4 febbraio 2017
Lou Reed
C’è
una sintonia, una coincidenza anche nei tempi, nella lettura che Lou
Reed ha dato di Edgar Allan Poe, riconosciuto fin dall’incipit
dell’introduzione a The Raven
come “il più classico degli scrittori americani, uno scrittore
paradossalmente più in sintonia col battito cardiaco del nostro
secolo appena nato di quanto non lo sia mai stato con quello del
proprio”. Un precursore, senza ombra di dubbio, che Lou Reed
presenta, “non proprio come il ragazzo della porta accanto” e,
con maggiore precisione, come uno scrittore che “vi racconta storie
dell’orrore per poi giocare con la vostra mente”. La definizione
si sovrappone a quella di un altro adepto, Stephen King: “Forse il
miglior racconto del male che abbiamo dentro è Il
cuore rivelatore di Poe, dove
l’assassinio viene perpetrato per il puro piacere del male, e non
vi è alcuna circostanza attenuante a smorzarne il gusto
appassionato. Poe ci invita a vedere nel suo narratore un folle,
perché, se teniamo alla salute mentale, dobbiamo pensare che un male
così perfetto e gratuito è folle”. Prendendosi qualche libertà
in più, Lou Reed tende ad andare oltre, avvicinandosi piuttosto alla
descrizione di D. H. Lawrence: “Tutte quelle storie sotterranee
altro non sono che il simbolo del subcosciente. Mentre alla
superficie tutto è limpido e chiaro, sotto non v’è che
quell’orribile, estremo, criminale desiderio di seppellire persone
vive”. The Raven
è tutto concentrato su quella lotta, senza l’intenzione di
risolverla o di comporla. Scrive ancora Lou Reed: “Nella mia testa
Edgar Allan Poe è il padre di William Burroughs e di Huber Selby.
Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie melodie. Perché
facciamo quello che non dovremmo fare? Perché amiamo quello che non
possiamo avere? Perché abbiamo sempre una gran passione proprio per
la cosa sbagliata? E che cosa intendiamo per sbagliato?”:
sono proprio questi interrogativi che costituiscono il nucleo
pulsante dell’interpretazione di The
Raven. Si tratta di temi costanti
nella storia di Lou Reed visto che in tutti i personaggi delle sue
canzoni “c’è un conflitto e cercano di risolverlo”. Un indizio
lo si trova sul finire di The Raven:
“Agiamo per la ragione per cui non dovremmo agire. Per certe menti
questa è una tentazione assolutamente irresistibile. La convinzione
del torto o della inopportunità di un’azione è spesso una forza
invincibile. E’ un impulso primordiale”. Lou Reed ha compreso
Edgar Allan Poe nello stadio più profondo per cui, benvenuti, e “che
serata di gala, un pubblico magico e in ghingheri affolla il teatro
per assistere a un dramma di speranze e paure, mentre l’orchestra a
tratti sincopati dà fiato alla musica delle sfere”, ed è solo
l’inizio con cui Il verme
trionfante inaugura una festa di
misteri e di fantasmi dove “il suono e la musica ci portano alle
parabole gemelle dell’esperienza. Intrecciati come fratello e
sorella si liberano del contatto corporeo e danzano in un’orgia
pagana”. Lì in mezzo, Lou Reed è nel suo elemento perché “la
musica è un riflesso del nostro io profondo, senza filtri il dolore
tocca le corde capricciose. La mente capricciosa si confonde con il
futuro che essa stessa prevede e si ripiega su di sé con ribrezzo e
terrore. Con la premeditazione o con il semplice pensiero siamo
condannati a conoscere la nostra fine”. Senza la musica, Lou Reed
alias Edgar Allan Poe deve ammettere che “la mente che cede di
notte ai rimorsi” non lascia scampo ed è abitata da “fragore di
metallo sbattuto e riverberi attutiti”, “rumore di una
moltitudine urlante e di tempesta” e dal “suono d’un incendio;
un forte battito cardiaco”, come pare inevitabile. Stephen King
l’aveva capito fin dall’inizio: “Il terrore è il suono del
battito continuo del cuore del vecchio in Il
cuore rivelatore”. Non ci sono
alternative al “terribile silenzio”, niente che le parole,
scritte o recitate, possano fare. Forse il sassofono di Ornette
Coleman, ma non tutti possono permetterselo.
giovedì 2 febbraio 2017
Don DeLillo
Le
indicazioni scenografiche sono limitate all’indispensabile, eppure
autosufficienti: “Un’ampia stanza in una vecchia casa, situata in
un luogo remoto. La scena è quasi vuota e semi-astratta, luci basse,
i pochi mobili sono molto vissuti, compreso il sofà. Vi è anche una
piantana di metallo con appeso il flacone per la flebo”. Una
postilla a parte recita: “C’è una zona isolata che servirà per
alcune scene”. Come succede spesso, quello che Don DeLillo lascia
sospeso e incognito è più importante di ciò che è reso esplicito
e nel caso di Love-Lies-Bleeding
è pure ambivalente. Quella “zona isolata” di cui parla è
riempita dalle contorsioni delle persone attorno ad Alex Macklin,
l’artista che non è vivo e non è morto, non è presente e non è
passato. I personaggi sono identificati soltanto attraverso l’età,
i ricordi cozzano e Don DeLillo incide con profondità nel cambiare
prospettiva. Primo atto, prima scena, l’immagine di un viaggio in
metropolitana, con un cadavere davanti, succede a New York. Subito
dopo, intorno allo scarno capezzale si ritrovano due delle quattro
mogli (Lia, l’ultima, e Toinette, la numero tre), nessuna delle
quali è la madre dell’unico figlio, Sean. Lui definisce il padre
“un uomo capace di creare opere grandi e famose”, non di meno si
sentono tutti in trappola, almeno quanto Alex è rinchiuso in un
corpo ormai spento e senza alternative. Il dilemma è come
considerare l’ombra di un uomo voluttuoso, imprevedibile, istintivo
ormai costretto all’immobilità, al silenzio, ad attendere una
decisione che, come ricorda Toinette, “non è una cosa pubblica. E’
privata”. In controluce si può intravedere un precedente
(notevole) per Zero K,
ma la condizione in sé di Love-Lies-Bleeding
è quella di una pièce di Sam
Shepard, con un terzo occhio in più. Uno, due flashback e in un
dialogo tra Alex e Toinette tutto diventa chiaro. Alex dice: “Voglio
buttarmi alle spalle dubbi, smettere di pensare, di preoccuparmi,
voglio sapere, voglio lavorare”. Per tutta risposta Toinette sembra
tradurre i suoi desideri: “Vuoi rischiare il tutto per tutto. E qui
non hai via di scampo. C’è tutto. Arte, artista, paesaggio,
cielo”. In quel momento si trovano nel deserto che Don DeLillo tra
l’altro descrive così in Punto
omega: “C’erano distanze che
abbracciavano ogni caratteristica del paesaggio e c’era la forza
del tempo geologico, lì, da qualche parte, i reticoli di spago dei
palentologi in cerca di ossa erose dalle intemperie”. Alex,
l’artista in attività, forse pensa a Georgia O’Keefe o meglio
ancora Michael Heizer, scultore che modella dozzine di tonnellate di
pietra perché considera le rocce “un buon surrogato” e dice
ancora: “Non facciamo troppo gli ambiziosi. Rimaniamo qui in questo
spazio e in questa luce”. Gli fa eco Toinette: “Mi immergo nella
luce di questo vasto, di questo grandioso, di questo. Abbiamo bisogno
di qualcosa per estendere il verso”. Per tutta risposta, Don
DeLillo annota sul canovaccio di Love-Lies-Bleeding
che “Alex versa il vino”. La laconica osservazione ha un suo peso
specifico. Da quel punto di vista, il deserto è uno stadio di
primitiva naturalezza, l’ultima occasione per ritrovare una
spontaneità o un’innocenza perdute, persino una grazia nelle
asperità della lotta per la sopravvivenza della flora e della fauna
nella limitata e crudele catena alimentare. Solo che il deserto,
“piatto e assolutamente teatrale”, come lo descrive Michael
Heizer diventa un “paesaggio dialettico”, l’espressione di
un’ipotetica metafora della condizione di Alex oppure no, soltanto
il capolinea della sua espressione artistica, orizzonte verticale e
orizzontale insieme, spazio senza dimensioni e senza tempo e comunque
riflesso di un’altra condizione di cui non si percepisce né inizio
né fine. Nemmeno Don DeLillo riesce a definirlo, ma almeno rende
l’idea, riesce a fornire una cornice, un’atmosfera. Come direbbe
Michael Heizer: “Davanti a noi non c’è nulla, eppure c’è una
scultura”. Ecco, com’è Love-Lies-Bleeding,
proprio così.
mercoledì 1 febbraio 2017
Jim Harrison
La
seconda trilogia di racconti dopo le Leggende d’autunno
alias Vento di passioni è l’apoteosi del Jim Harrison più
viscerale e dei suoi temi preferiti, la lotta per la sopravvivenza,
la vita nella wilderness, una caccia alla libertà senza sosta e
nello stesso tempo un senso per l’introspezione spontaneo, evocato
da Società tramonti in un passaggio inequivocabile: “La
realtà è una questione di percezione e di riflessi, e dopo trenta
giorni si può dimenticare dove finisce la propria pelle e dove
comincia il mondo esterno”. A Brown Dog, il personaggio che
comincia proprio qui una saga di racconti, poi radunati
nell’omonima raccolta del 2013, capita spesso. Il suo carattere,
che lo porta a interpretare il ruolo di ultimo possibile discendente
di un complicato albero genealogico nativo, e per motivi molto meno
nobili di quanto si possa immaginare, è riassunto in un passaggio,
che per molti versi collima con il modus vivendi di Jim Harrison:
“Non serviva a niente starsene lì al vento farselo venire duro
pensando alla ragazza, così sono tornato nella capanna, ho aperto la
finestra senza far rumore, ho preso il mio fucile calibro 22
(Remington) e ho sparato al coniglio per la cena. L’ho spellato e
sventrato, l’ho tagliato a pezzi e li ho fatti rosolare con un po’
di pancetta. Il coniglio era un grosso maschio e sapevo che sarebbe
stato duro, così l’ho messo a stufare con un po’ di rape,
patate, cipolle e una testa d’aglio. E’ stata Shelley a iniziarmi
all’aglio, per via che ho la pressione alta, e adesso piace più a
me che a lei. Qualche volta ne faccio bollire una testa lo spalmo sul
pane tostato, perché non mi piace il burro. Ho messo la pignatta
sulla stufa e mi sono seduto a ripensare alle cose che erano successe
di recente, passo dopo passo”. Avranno molto su cui riflettere,
anche i personaggi di Società tramonti, impegnati in una missione
impossibile che ricorda, più per gli umori che per gli scopi,
l’improbabile gang di Un buon giorno per morire. Sono in
viaggio sul border per salvare “un seccatore sfinito più che un
rivoluzionario, un uomo ossessionato dall’ingiustizia al punto da
farsene distruggere, ridotto a un paranoico amareggiato che i suoi
compagni rivoluzionari preferivano ignorare o evitare. Le autorità
che potevano ancora aver voglia di perseguitarlo dovevano aver
dimenticato che era passato ben più di un decennio dall’ultima
volta che al suo dossier era stato aggiunto qualcosa di
significativo”. Il destino dell’operazione è segnato fin
dall’inizio e l’unico motivo concreto che hanno per sprofondare
in un disastro completo è che sono amici e, come si premura di
sottolineare Jim Harrison, “nella mitologia della nostra cultura,
che risale ai primi esploratori, agli uomini delle montagne ai
cacciatori di indiani, ai cowboy, attraverso una mezza dozzina di
guerre, il concetto del primato dell’amicizia è praticamente la
spina dorsale della nazione. Il fatto che sia una cosa di cui si
parla molto ma che si pratica poco, nulla toglie alla sua funzione di
motivazione. Il più delle volte nessuno si getta su una granata
innescata per salvare gli amici”. Allineato a Brown Dog e
Società tramonti nell’evidenziare il tormento degli
outsider nel cronico e quotidiano conflitto per restare a galla, La
donna illuminata dalle lucciole sposta invece l’attenzione su
contorni artistici e intellettuali seguendo le gesta di Clare, un
diversivo sul personaggio femminile già anticipato un paio d’anni
prima con Dalva e poi seguito da Julip nella raccolta
seguita a Società tramonti. Tre sorsi di un Jim Harrison d’annata (era
il 1990), invecchiato molto bene.