Le
indicazioni scenografiche sono limitate all’indispensabile, eppure
autosufficienti: “Un’ampia stanza in una vecchia casa, situata in
un luogo remoto. La scena è quasi vuota e semi-astratta, luci basse,
i pochi mobili sono molto vissuti, compreso il sofà. Vi è anche una
piantana di metallo con appeso il flacone per la flebo”. Una
postilla a parte recita: “C’è una zona isolata che servirà per
alcune scene”. Come succede spesso, quello che Don DeLillo lascia
sospeso e incognito è più importante di ciò che è reso esplicito
e nel caso di Love-Lies-Bleeding
è pure ambivalente. Quella “zona isolata” di cui parla è
riempita dalle contorsioni delle persone attorno ad Alex Macklin,
l’artista che non è vivo e non è morto, non è presente e non è
passato. I personaggi sono identificati soltanto attraverso l’età,
i ricordi cozzano e Don DeLillo incide con profondità nel cambiare
prospettiva. Primo atto, prima scena, l’immagine di un viaggio in
metropolitana, con un cadavere davanti, succede a New York. Subito
dopo, intorno allo scarno capezzale si ritrovano due delle quattro
mogli (Lia, l’ultima, e Toinette, la numero tre), nessuna delle
quali è la madre dell’unico figlio, Sean. Lui definisce il padre
“un uomo capace di creare opere grandi e famose”, non di meno si
sentono tutti in trappola, almeno quanto Alex è rinchiuso in un
corpo ormai spento e senza alternative. Il dilemma è come
considerare l’ombra di un uomo voluttuoso, imprevedibile, istintivo
ormai costretto all’immobilità, al silenzio, ad attendere una
decisione che, come ricorda Toinette, “non è una cosa pubblica. E’
privata”. In controluce si può intravedere un precedente
(notevole) per Zero K,
ma la condizione in sé di Love-Lies-Bleeding
è quella di una pièce di Sam
Shepard, con un terzo occhio in più. Uno, due flashback e in un
dialogo tra Alex e Toinette tutto diventa chiaro. Alex dice: “Voglio
buttarmi alle spalle dubbi, smettere di pensare, di preoccuparmi,
voglio sapere, voglio lavorare”. Per tutta risposta Toinette sembra
tradurre i suoi desideri: “Vuoi rischiare il tutto per tutto. E qui
non hai via di scampo. C’è tutto. Arte, artista, paesaggio,
cielo”. In quel momento si trovano nel deserto che Don DeLillo tra
l’altro descrive così in Punto
omega: “C’erano distanze che
abbracciavano ogni caratteristica del paesaggio e c’era la forza
del tempo geologico, lì, da qualche parte, i reticoli di spago dei
palentologi in cerca di ossa erose dalle intemperie”. Alex,
l’artista in attività, forse pensa a Georgia O’Keefe o meglio
ancora Michael Heizer, scultore che modella dozzine di tonnellate di
pietra perché considera le rocce “un buon surrogato” e dice
ancora: “Non facciamo troppo gli ambiziosi. Rimaniamo qui in questo
spazio e in questa luce”. Gli fa eco Toinette: “Mi immergo nella
luce di questo vasto, di questo grandioso, di questo. Abbiamo bisogno
di qualcosa per estendere il verso”. Per tutta risposta, Don
DeLillo annota sul canovaccio di Love-Lies-Bleeding
che “Alex versa il vino”. La laconica osservazione ha un suo peso
specifico. Da quel punto di vista, il deserto è uno stadio di
primitiva naturalezza, l’ultima occasione per ritrovare una
spontaneità o un’innocenza perdute, persino una grazia nelle
asperità della lotta per la sopravvivenza della flora e della fauna
nella limitata e crudele catena alimentare. Solo che il deserto,
“piatto e assolutamente teatrale”, come lo descrive Michael
Heizer diventa un “paesaggio dialettico”, l’espressione di
un’ipotetica metafora della condizione di Alex oppure no, soltanto
il capolinea della sua espressione artistica, orizzonte verticale e
orizzontale insieme, spazio senza dimensioni e senza tempo e comunque
riflesso di un’altra condizione di cui non si percepisce né inizio
né fine. Nemmeno Don DeLillo riesce a definirlo, ma almeno rende
l’idea, riesce a fornire una cornice, un’atmosfera. Come direbbe
Michael Heizer: “Davanti a noi non c’è nulla, eppure c’è una
scultura”. Ecco, com’è Love-Lies-Bleeding,
proprio così.
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