C’è
una sintonia, una coincidenza anche nei tempi, nella lettura che Lou
Reed ha dato di Edgar Allan Poe, riconosciuto fin dall’incipit
dell’introduzione a The Raven
come “il più classico degli scrittori americani, uno scrittore
paradossalmente più in sintonia col battito cardiaco del nostro
secolo appena nato di quanto non lo sia mai stato con quello del
proprio”. Un precursore, senza ombra di dubbio, che Lou Reed
presenta, “non proprio come il ragazzo della porta accanto” e,
con maggiore precisione, come uno scrittore che “vi racconta storie
dell’orrore per poi giocare con la vostra mente”. La definizione
si sovrappone a quella di un altro adepto, Stephen King: “Forse il
miglior racconto del male che abbiamo dentro è Il
cuore rivelatore di Poe, dove
l’assassinio viene perpetrato per il puro piacere del male, e non
vi è alcuna circostanza attenuante a smorzarne il gusto
appassionato. Poe ci invita a vedere nel suo narratore un folle,
perché, se teniamo alla salute mentale, dobbiamo pensare che un male
così perfetto e gratuito è folle”. Prendendosi qualche libertà
in più, Lou Reed tende ad andare oltre, avvicinandosi piuttosto alla
descrizione di D. H. Lawrence: “Tutte quelle storie sotterranee
altro non sono che il simbolo del subcosciente. Mentre alla
superficie tutto è limpido e chiaro, sotto non v’è che
quell’orribile, estremo, criminale desiderio di seppellire persone
vive”. The Raven
è tutto concentrato su quella lotta, senza l’intenzione di
risolverla o di comporla. Scrive ancora Lou Reed: “Nella mia testa
Edgar Allan Poe è il padre di William Burroughs e di Huber Selby.
Cerco sempre di adattare il loro sangue alle mie melodie. Perché
facciamo quello che non dovremmo fare? Perché amiamo quello che non
possiamo avere? Perché abbiamo sempre una gran passione proprio per
la cosa sbagliata? E che cosa intendiamo per sbagliato?”:
sono proprio questi interrogativi che costituiscono il nucleo
pulsante dell’interpretazione di The
Raven. Si tratta di temi costanti
nella storia di Lou Reed visto che in tutti i personaggi delle sue
canzoni “c’è un conflitto e cercano di risolverlo”. Un indizio
lo si trova sul finire di The Raven:
“Agiamo per la ragione per cui non dovremmo agire. Per certe menti
questa è una tentazione assolutamente irresistibile. La convinzione
del torto o della inopportunità di un’azione è spesso una forza
invincibile. E’ un impulso primordiale”. Lou Reed ha compreso
Edgar Allan Poe nello stadio più profondo per cui, benvenuti, e “che
serata di gala, un pubblico magico e in ghingheri affolla il teatro
per assistere a un dramma di speranze e paure, mentre l’orchestra a
tratti sincopati dà fiato alla musica delle sfere”, ed è solo
l’inizio con cui Il verme
trionfante inaugura una festa di
misteri e di fantasmi dove “il suono e la musica ci portano alle
parabole gemelle dell’esperienza. Intrecciati come fratello e
sorella si liberano del contatto corporeo e danzano in un’orgia
pagana”. Lì in mezzo, Lou Reed è nel suo elemento perché “la
musica è un riflesso del nostro io profondo, senza filtri il dolore
tocca le corde capricciose. La mente capricciosa si confonde con il
futuro che essa stessa prevede e si ripiega su di sé con ribrezzo e
terrore. Con la premeditazione o con il semplice pensiero siamo
condannati a conoscere la nostra fine”. Senza la musica, Lou Reed
alias Edgar Allan Poe deve ammettere che “la mente che cede di
notte ai rimorsi” non lascia scampo ed è abitata da “fragore di
metallo sbattuto e riverberi attutiti”, “rumore di una
moltitudine urlante e di tempesta” e dal “suono d’un incendio;
un forte battito cardiaco”, come pare inevitabile. Stephen King
l’aveva capito fin dall’inizio: “Il terrore è il suono del
battito continuo del cuore del vecchio in Il
cuore rivelatore”. Non ci sono
alternative al “terribile silenzio”, niente che le parole,
scritte o recitate, possano fare. Forse il sassofono di Ornette
Coleman, ma non tutti possono permetterselo.
Nessun commento:
Posta un commento