I
Primi blues
nascono con l’intenzione di interpretare e trasformare le “canzoni
dell’innocenza” di William Blake: un desiderio che Allen Ginsberg
matura raccogliendo la sfida della lingua “spontanea” di Jack
Kerouac, dell’irruenza di Gregory Corso e delle “catene di
immagini lampeggianti” di Dylan, più di tutti. Il processo è più
empirico che poetico e nei Primi
blues confluiscono quei rag, quei
mantra e quelle ballate dove le parole, non meno della musica,
nascono sull’onda dell’improvvisazione, un po’ flusso di
coscienza, un po’ cronaca impressionistica di quella che, in
contemporanea, Allen Ginsberg chiamerà La
caduta dell’America. Prima di
essere raccolti in un libro, i Primi
blues vengono assemblati nel corso
di alcune session prodotte da Jack Douglas a New York nell’autunno
1971, con Allen Ginsberg coadiuvato da un variopinto gruppo di
“amici”. L’intento è dichiarato: “La musica porta a emettere
vocali senza senso, che si potrebbero correggere ma, per rimanere
fedele allo spirito di questa arte, ho preferito lasciare la maggior
parte degli abbozzi e delle improvvisazioni nella loro dicitura
originale, il che è utile a me e agli altri per vedere come canta
effettivamente la mente inesperta”. Se William Blake è la fonte
principale a cui attingere, il modello di riferimento, il capostipite
dei sognatori e dei visionari, le altre sfumature sono garantite da
un’ampia gamma, colorita e cosmopolita, di voci, dai bardi
irlandesi e scozzesi ai bluesman americani. Anche se i Primi
blues sono dedicati a Dylan, in
virtù di un’attrazione a tutto tondo, l’ispirazione è frutto
della libertà d’espressione, condivisa con Phil Ochs, Happy Traum,
Harry Smith, David Amram che potrebbero essere radunati in Mc
Dougal Street Blues, a celebrare una
delle strade fondamentali e uno dei luoghi dove Allen Ginsberg può
dire: “le chitarre suonano tutto intorno. So fare solo tre accordi,
posso cantare la mia vita sotterranea”. E’ quella che coincide
con il tormento di quegli anni: i Primi
blues arrivano quando la lunghissima
stagione della Beat Generation sta vivendo un intenso e movimentato
crepuscolo. L’elegia, a modo suo, è esplicita nei confronti di
Neal Cassady e Jack Kerouac, ed è quasi un epitaffio nei versi conclusivi di Molti
amori: “Molti amori sono
sottoterra, molti amori non fanno più rumore, molti amori sono
andati in cielo, molti amori hanno detto addio”. Allen Ginsberg
riporta con naturalezza la poesia dentro l’alveo primordiale della
musica e senza timori nel maneggiare il linguaggio, le parole, la
storia stessa e per un’ironica legge del contrappasso di
quell’America che ormai ha un sapore “metallico”e in un “oceano
azzurro” che dovrebbe rappresentare il paradiso, “passano i
nostri bombardieri”. Sono i momenti lancinanti in cui la guerra del
Vietnam sembra non finire più e se Allen Ginsberg ancora non si
sottrae all’esortazione (“Abbiamo bisogno di inginocchiarci e di
seminare con la mano la terra su cui stiamo, la terra che abbiamo
bombardato”), d’altro canto si chiede “cosa fa il pubblico se
non bere birra in lattina”. Domanda retorica, perché recepiva
l’onda lunga della disillusione, della sconfitta, della malinconia
che avrebbe inondato e pervaso l’America, e non solo. E’ evidente
che da William Blake, Allen Ginsberg ha tratto il carattere profetico
delle “canzoni”, e l’annunciazione alla gioventù cosmopolita
di New York, datata 20 dicembre 1971, finisce con un presagio perché
dice: “Questo secolo finirà in zolfo o con le vostre tenere
lacrime”. Non si sbagliava.
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