Le
Storie del West rappresentano una fetta di di “una civiltà
che nel diciassettesimo secolo sarebbe stata chiamata eroica, e già
nel diciannovesimo era diventata semplicemente spericolata”.
La definizione è caratteristica dello stile irriverente di Bret
Harte che conosce a fondo ed è molto abile nel destreggiarsi nella
terra di nessuno tra la leggenda e la realtà. Nelle Storie del
West non manca di evidenziare storture o deviazioni o persino
luoghi comuni come i duellanti pronti a “spararsi a vista”, ma
tocca e collega tra loro molti elementi conflittuali: lo sfruttamento
del territorio (e degli esseri umani), la dissoluzione di intere
fortune nell’oppio, nel gioco d’azzardo, nella prostituzione, e
infine il rapporto incompiuto con la wilderness e con
l’imprevedibilità degli elementi (le alluvioni, le eruzioni, i
terremoti) che sottolineano i passaggi e le svolte più importanti
dei racconti. Non di meno, le Storie del West partono e si
concludono attorno ai personaggi e ai loro nomi. La strana anagrafe,
dovuta al fatto che “il vero nome di un uomo, a quei tempi, si
basava solamente sulla propria dichiarazione non confermata”,
fornisce già una catena di suggestioni che definisce La fortuna
di Roaring Camp. In un’enclave nell’impervio West, con una
popolazione tutta maschile, non educatissima, l’unica donna muore
partorendo un bimbo che diventa così l’oggetto di attenzioni goffe
e generose. Il racconto procede spedito, Bret Harte ha il senso
dell’ironia, data la situazione, ma mantiene la barra in perfetto
equilibrio in una cornice originale e complessa che ha per
protagonisti proprio quegli “uomini si erano improvvisamente
risvegliati alla bellezza e all’importanza di queste piccole cose,
che avevano così a lungo calpestato senza cura. Una scaglia di mica
luccicante, un frammento di quarzo screziato, un ciottolo brillante
presi dal letto del ruscello, e quindi ripuliti e tonificati, si
dimostravano ora belli ai loro occhi e venivano così invariabilmente
messi da parte”. Il carattere circoscritto di Roaring Camp (con un
finale tutto da scoprire) così come, più avanti, della cittadina di
Sandy Bar svela quel senso di ambiguità che attraversa le frontiere
del West perché “in certe comunità, le azioni buone e cattive
sono contagiose”. Ecco allora apparire ai viandanti, dentro gli
ostacoli insuperabili dell’oscurità e della pioggia battente, la
figura di Miggles, che vive con gli orsi, ma la cui nobile
ospitalità riscatta un passato turbolento. Contrasti ancora più
evidenti in L’Iliade di Sandy Bar, una faida epocale, in
parte ispirata alla vera diatriba tra con Mark Twain, che di Bret
Harte diceva: “E’ un bugiardo, ladro, truffatore, snob,
ubriacone, scroccone, bugiardo”. I racconti hanno una loro
leggerezza e L’Iliade di Sandy Bar è rappresentativa perché
Bret Harte non lesina particolari nella contesa tra le figure di York
e Scott. Come dice il colonnello Starbottle era “una faccenda che
dei gentiluomini avrebbero potuto risolvere in dieci minuti davanti a
un bicchiere, se volevano parlare d’affari; o in dieci secondi con
un revolver, se volevano divertirsi”. Le Storie del West
sono fatte proprio così, compresa La leggenda del monte del
Diablo, che incrocia missioni spirituali e i incontri
mefistofelici o i Giorni di bohéme a San Francisco, dove la
corsa all’oro e la trasformazione di una città vengono raccontate
con un formato “conciso e stringato, e al contempo evocativo”, ma
anche “deliziosamente stravagante o un miracolo di semplicità”
proprio come Bret Harte ha voluto queste Storie del West.
martedì 23 agosto 2016
domenica 21 agosto 2016
Allen Ginsberg
I
Primi blues
nascono con l’intenzione di interpretare e trasformare le “canzoni
dell’innocenza” di William Blake: un desiderio che Allen Ginsberg
matura raccogliendo la sfida della lingua “spontanea” di Jack
Kerouac, dell’irruenza di Gregory Corso e delle “catene di
immagini lampeggianti” di Dylan, più di tutti. Il processo è più
empirico che poetico e nei Primi
blues confluiscono quei rag, quei
mantra e quelle ballate dove le parole, non meno della musica,
nascono sull’onda dell’improvvisazione, un po’ flusso di
coscienza, un po’ cronaca impressionistica di quella che, in
contemporanea, Allen Ginsberg chiamerà La
caduta dell’America. Prima di
essere raccolti in un libro, i Primi
blues vengono assemblati nel corso
di alcune session prodotte da Jack Douglas a New York nell’autunno
1971, con Allen Ginsberg coadiuvato da un variopinto gruppo di
“amici”. L’intento è dichiarato: “La musica porta a emettere
vocali senza senso, che si potrebbero correggere ma, per rimanere
fedele allo spirito di questa arte, ho preferito lasciare la maggior
parte degli abbozzi e delle improvvisazioni nella loro dicitura
originale, il che è utile a me e agli altri per vedere come canta
effettivamente la mente inesperta”. Se William Blake è la fonte
principale a cui attingere, il modello di riferimento, il capostipite
dei sognatori e dei visionari, le altre sfumature sono garantite da
un’ampia gamma, colorita e cosmopolita, di voci, dai bardi
irlandesi e scozzesi ai bluesman americani. Anche se i Primi
blues sono dedicati a Dylan, in
virtù di un’attrazione a tutto tondo, l’ispirazione è frutto
della libertà d’espressione, condivisa con Phil Ochs, Happy Traum,
Harry Smith, David Amram che potrebbero essere radunati in Mc
Dougal Street Blues, a celebrare una
delle strade fondamentali e uno dei luoghi dove Allen Ginsberg può
dire: “le chitarre suonano tutto intorno. So fare solo tre accordi,
posso cantare la mia vita sotterranea”. E’ quella che coincide
con il tormento di quegli anni: i Primi
blues arrivano quando la lunghissima
stagione della Beat Generation sta vivendo un intenso e movimentato
crepuscolo. L’elegia, a modo suo, è esplicita nei confronti di
Neal Cassady e Jack Kerouac, ed è quasi un epitaffio nei versi conclusivi di Molti
amori: “Molti amori sono
sottoterra, molti amori non fanno più rumore, molti amori sono
andati in cielo, molti amori hanno detto addio”. Allen Ginsberg
riporta con naturalezza la poesia dentro l’alveo primordiale della
musica e senza timori nel maneggiare il linguaggio, le parole, la
storia stessa e per un’ironica legge del contrappasso di
quell’America che ormai ha un sapore “metallico”e in un “oceano
azzurro” che dovrebbe rappresentare il paradiso, “passano i
nostri bombardieri”. Sono i momenti lancinanti in cui la guerra del
Vietnam sembra non finire più e se Allen Ginsberg ancora non si
sottrae all’esortazione (“Abbiamo bisogno di inginocchiarci e di
seminare con la mano la terra su cui stiamo, la terra che abbiamo
bombardato”), d’altro canto si chiede “cosa fa il pubblico se
non bere birra in lattina”. Domanda retorica, perché recepiva
l’onda lunga della disillusione, della sconfitta, della malinconia
che avrebbe inondato e pervaso l’America, e non solo. E’ evidente
che da William Blake, Allen Ginsberg ha tratto il carattere profetico
delle “canzoni”, e l’annunciazione alla gioventù cosmopolita
di New York, datata 20 dicembre 1971, finisce con un presagio perché
dice: “Questo secolo finirà in zolfo o con le vostre tenere
lacrime”. Non si sbagliava.
mercoledì 17 agosto 2016
Raymond Carver
Raymond
Carver è il suo mondo e allora cosa si può trovare nelle fotografie
di Bob Adelman che non c’è nelle sue storie? Da Yakima a Port
Angeles, Carver Country è tutto un paesaggio d’acqua: i
fiumi, le dighe, i ruscelli, i laghi sono una presenza costante,
insistente tanto che nella corrispondenza con Bob Adelman, Raymond
Carver scrive: “Sarei in grado di mettere una didascalia o di
scrivere qualche riga su ogni punto di quel fiume che tu volessi
fotografare”. In realtà le indicazioni di Raymond Carver a
Bob Adelman sono tutt’altro che precise, visto che deve frugare
nella memoria in cerca di luoghi e tormenti che si è lasciato alle
spalle e la sua immagine da bambino con canna e lenza, all'inizio di
Carver Country riporta a quello che diceva Thomas McGuane: “La
pesca è una situazione in cui le valenze emotive sono immediatamente
dipendenti dal loro contesto”. Con tanta di quell’acqua a due
passi da casa (e qui parafrasando un titolo da Di cosa parliamo
quando parliamo d’amore) la vicinanza non ha nulla di mistico,
metafisico o ecologico, ma deriva da un legame intimo e delicato, a
cui in effetti risponde Carver Country perché per Raymond
Carver vale ancora la precisazione di Thomas McGuane: “La pesca mi
ha innanzitutto insegnato a osservare i fiumi. Ora mi sta insegnando
a osservare le persone, me compreso”. L’acqua è l’elemento
determinante degli anni felici di Raymond Carver e Carver Country
riesce a raccontare un crepuscolo intenso e fortunato, che forse
soltanto le immagini potevano mostrare. Un mondo semplificato e
concentrato su pochi amici sorridenti (Richard Ford, Ann Beattie e
Jay McInerney tra gli altri), una gamma selezionatissima di
interessi, l’essenza della scrittura che, tra “un po’ di
autobiografia e un sacco di immaginazione”, trova e mostra in
Carver Country quei “punti di riferimento nel mondo reale”
che Bob Adelman identifica in una cassetta della posta, nelle mani
nere di uno spazzacamino, nell’impronta dentale di Tess Gallagher,
in un’insegna, in un dipinto di Alfredo Arreguin, nella sua
macchina da scrivere (da tutte le prospettive), in uno o due
taccuini, nella neve, nella musica creata dai torrenti, nei volti. La
luce, il bianco e nero, le geometri nitide dimostrano che Bob Adelman
ha capito quello che Raymond Carver diceva in Il mestiere di
scrivere: “In una poesia o in un racconto si possono descrivere
cose e oggetti comuni usando un linguaggio comune ma preciso e dotare
questi oggetti, una sedia, le tendine di una finestra, la forchetta,
un sasso, un orecchino, di un potere immenso, addirittura
sbalorditivo”. E’ per quello che, anche se Carver Country
funziona come una spicciola antologia con frammenti editi e inediti,
la sensazione, fotografia dopo fotografia è, come diceva Tobias
Wolff in La nostra storia comincia, quella di sentire “il
rumore di qualcuno che si muove per la casa, un estraneo”. Bob
Adelman si è introdotto proprio così nel Carver Country, con
la discrezione di un’ombra al tramonto, con lo scrupolo di un
topografo e con la percezione precisa e insieme sfuggente del dettaglio di un songwriter,
concentrando sulla pellicola quella definizione dei racconti di
Raymond Carver che, secondo Marylinne Robinson, “creano significato
per tramite della forma”. L’intensità dello sguardo di Raymond Carver, dietro la sigaretta, dice tutto. Il viaggio è negli occhi, lo
è sempre stato.
sabato 13 agosto 2016
Henry Miller
Big
Sur e le arance di Hieronymus Bosch è introdotto dalla pittura,
un’arte sensibile, istintiva e complicata perché “la cosa più
esasperante è l’impossibilità di catturare la luce che permea il
mondo della natura. La luce è l’unica cosa che non possiamo
rubare, imitare, o anche contraffare”. A capirlo, Henry Miller ci
arriva proprio a Big Sur dove, dopo anni selvaggi e turbolenti, trova
una routine beata e battuta, semplice e dura, una rete di anime che
lo sostiene ed è meno distratto dalle evenienze cittadine, con la
consapevolezza, già allora, che non si può vivere dentro “un
sistema difettoso”, e non lo si può cambiare. Se Parigi era
caotica e imprevedibile, Big Sur è un’alternativa più naturale:
“Ha un suo clima e una personalità tutta sua. E’ una regione
dove gli estremi si toccano dove si ha sempre un senso di stagione,
di spazio, di grandiosità, di eloquente silenzio”. Il piccolo
ossimoro svela il genius loci di Big Sur che nei consigli di Henry
Miller diventa la casa ideale quando sostiene che tutto quello “che
occorre all’artista nascente è il privilegio di affrontare i suoi
problemi in solitudine: e ogni tanto un sostanzioso pezzo di carne”.
La parte più sostanziosa Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch
è chiamata dallo stesso Henry Miller un “potpourri” e comprende
parti del diario e delle impressioni sulla vita quotidiana a Big Sur,
dove “se non sempre si parte dalla natura certo vi si arriva
nell’ora del bisogno”. E’ anche un po’ un’antologia, un po’
autobiografia e un po’ vademecum per quell’aspirante artista che
“deve impegnare una perpetua lotta per la sua libertà. Trovare,
cioè, scampo all’insensata routine che quotidianamente minaccia di
annientare ogni incentivo”. Consiglio da prendere alla lettera,
anche senza particolari velleità intellettuali. Big Sur e le
arance di Hieronymus Bosch è, infine, l’omaggio agli
esploratori che si sono spinti “a ovest, terra nuova, nuove figure
di terra. Sognatori, fuorilegge, precursori. Che avanzano verso
l’altro mondo, lontano nello spazio e nel tempo, il mondo di ieri e
di domani. Il mondo nel mondo”. Questo si capisce perché per Henry
Miller Big Sur non è il buen retiro anche se la sua collocazione
topografica lascia intravedere la forma di un capolinea all’estremità
dell’America o il terminale di un’epopea perché l’attività è
febbrile. I tormenti della corrispondenza, delle visite quotidiane e
delle conversazioni si sommano all’osservazione sempre attenta a
ribadire che “un piccolo errore è lo stesso che un grande errore.
Al di qua del paradiso e al di là del paradiso. Una cosa vale
l’altra. Vigile e disteso; vuoto e perfettamente sveglio. Al passo,
ma non in divisa. Con la pistola sempre a portata di mano, ma
caricata a salve. Un occhio meteorologico attento alle erbacce, i
cardi, le lappole, le ortiche e i rovi”. A Big Sur anche la
filosofia è frugale, e basta poco, perché “la vita è essere, il
che comprende fare e non fare. L’arte è fare. Essere un poeta
della vita, benché di rado gli artisti se ne rendano conto, è il
summum. Espirare più di quanto si ispira. Fare tre miglia a
piedi quando ti si chiede di farne due”. Si pensa molto in cerca di
risposte a quella che Henry Miller definisce “la propria fame
abissale di sconfinata esperienza”. Nella percezione dell’arte (e
della pittura, nello specifico) e della natura, la ricchezza e la
confusione nei temi e negli argomenti regna sovrana, ma la lucidità
non viene mai a mancare. L’imperativo è sempre “scrivere,
scrivere, scrivere” e il luogo in sé (nonostante l’isolamento, o
forse proprio per quello) è uno stimolo continuo dato che “ogni
creatura, ogni oggetto, ogni luogo ha il proprio ambiente. Il nostro
stesso mondo possiede un ambiente che è unico. Ma mondi, oggetti,
creature, luoghi, tutti hanno questo in comune: sono sempre in uno
stato di trasmutazione. La gioia suprema del sogno giace in questo
potere trasformativo”. Con quello, lo stile è sempre fluido,
brillante, all’altezza della situazione, sia che debba spiegare i
limiti logistici di Big Sur sia che s’imbarchi in voli pindarici
sull’essenza stessa dell’arte e dell’esistenza, del colore
dell’oceano all’alba o delle colline al tramonto. Con Big Sur
e le arance di Hieronymus Bosch vive in simbiosi Paradiso
perduto, che però è un capitolo a parte, essendo dedicato a un
protagonista delle avventure parigine (Conrad Moricand), e
nell’epilogo si dilunga a spiegare che “chiunque usa
creativamente lo spirito che è in lui è un artista. Fare un’arte
della stessa vita, ecco il traguardo”. Big Sur e le arance di
Hieronymus Bosch è “un’iniziazione a un nuovo modo di vita”,
e l’invito (che per un po’ è stato anche un ottimo sottotitolo)
resta sempre valido.
martedì 9 agosto 2016
Charles Willeford
Mentre
il sergente della omicidi di Miami, Hoke Moseley cerca di sfuggire al
lavoro che l’ha consumato, Troy Louden è un delinquente che non riesce a evitare la follia deviante e violentissima che lo
anima. Il suo ritratto autobiografico nelle prime pagine di Tiro mancino è perentorio: “Sono un
criminale professionista, quello che gli strizzacervelli chiamano uno
psicopatico con tendenze criminali. Vorrebbe dire che sono in grado
di distinguere tra il bene e il male, ma che non me ne frega un beato
cazzo. Questa è la versione ufficiale. Quasi tutti quelli che stanno
in galera sono psicopatici proprio come me, e certe volte, quando non
ce ne frega il suddetto beato cazzo, ci comportiamo in base
all’impulso. Di solito, però, non sono un tipo impulsivo, perché
prima di mettermi a fare un lavoro ci penso e ci ripenso con estrema
attenzione”. Ciò non toglie che ci sia una folle lucidità in
quello che fa, scegliendosi compagni di sventura improbabili, ma pur
sempre sacrificabili. Appena uscito di prigione, progetta una rapina
in un supermercato con un trio di complici che sembrano un’armata
Brancaleone. La rapina finisce in un bagno di sangue, poi Troy Louden
cercherà di fuggire fino a quando, inevitabilmente, troverà sulla
sua strada l'eroe di Charles Willeford. Provato da anni sulla strada, Hoke Moseley in teoria avrebbe anche mollato il suo vecchio lavoro (per dedicarsi
ad una modestissima attività alberghiera, ma soprattutto per
salvarsi la vita), ma un’articolata serie di coincidenze lo porta
proprio nel centro del gorgo oscuro della mente di Troy Louden. Tiro
mancino diventa così, all’improvviso, un romanzo sorprendente
perché per tre quarti si destreggia in una sorta di amara commedia
esistenziale, con Hoke Moseley a confrontarsi con un inedito tran
tran famigliare, per poi confluire in un finale, la rapina e tutto
ciò che ne consegue, dove la violenza esplode brutale, a bruciapelo,
senza preavviso. Charles Willeford non deve aggiungere molto di più,
con due personaggi così: gli basta lasciarli liberi e sono capaci di
trovarsi da soli la loro storia. Troy Louden, in tutta la sua
devastante subcultura criminale, resta il vero, incontrastato, feroce
protagonista di Tiro mancino. Un vero e proprio principe delle
tenebre, che non distingue i confini morali delle proprie azioni: “La
differenza tra il bene e il male la so distinguere, ma non mi fa né
caldo né freddo. Se vedo la cosa giusta e mi va di farla, la faccio;
se invece vedo quella sbagliata, e mi va di farla lo stesso, faccio
anche quella”. Hoke Moseley, in quest’occasione più che in
altre, viene un passo dopo. E funziona (benissimo) per contrasto. In Tiro mancino è un personaggio più disincantato, quasi dolente, come se dall’alto
della sua esperienza e della sua faticosissima lotta per la
sopravvivenza, abbia semplicemente accompagnato gli altri personaggi
verso il loro tragico destino. E’ proprio questo suo ruolo,
marginale al cuore nero della storia, ma per niente secondario, a
rendere speciale Tiro mancino, come se Hoke Moseley fosse una
specie di Virgilio che accompagna Troy Louden e i suoi accoliti nella
loro discesa agli inferi.
venerdì 5 agosto 2016
Marlon James
In
una notte del dicembre 1976 Bob Marley, la moglie, il manager, i
Wailers vengono assaliti e feriti a colpi di armi automatiche.
L’attentato matura nelle circostanze tragiche e conflittuali dove
la strategia della tensione e degli interessi e delle perversioni
della guerra fredda hanno trasformato la Giamaica in un campo di
battaglia. Dall’antefatto storico, Marlon James dipana la Breve
storia di sette omicidi seguendo le voci del ghetto secondo le
quali nella selva giustizia e vendetta collimano e tutti i sette
attentatori sono spariti nel nulla. L’idea ha senso e non solo per
Bob Marley e la Giamaica perché, come ha giustamente notato Irvine
Welsh, il ritornello insistente che attraversa la Breve storia di
sette omicidi parla del potere e di conseguenza della corruzione,
della falsità, della sua innata e irrinunciabile vocazione alla
violenza. Forse quello di Marlon James è l’unico modo per
raccontarlo perché fa sprofondare il lettore nella Breve storia
di sette omicidi, senza spiegazioni, senza indicazioni, senza
metafore, senza traduzioni. La struttura che ha sviluppato è
allettante: il sovrapporsi di differenti modulazioni, con l’incedere
della lingua compressa tra il gergo, lo slang, il patois, l’inglese,
lo spagnolo, il dialetto, un po’ di tutto, ma anche le diverse
intonazioni dei personaggi, compresa una variegata selezione di versi
di Bob Marley infilati tra le pieghe del discorso, è molto efficace
nel ricreare un’atmosfera di incertezza e di insensata ferocia. Il
ritmo è vorticoso e martellante, ma l’aderenza linguistica non
spiega, è dura, ostica, proprio come la disperazione nelle notti
della Giamaica. La capacità di Marlon James di cogliere la
dimensione della Breve storia di sette omicidi non è in
discussione, solo che spesso la narrazione si arrotola su se stessa e
se non c’è alcun dubbio che sappia districarsi nei meandri degli
idiomi e dei fatti caraibici, non c’è nemmeno su una congrua quota
di narcisismo. Questo incide in modo particolare nella fase finale
ambientata a New York: dovrebbe concludere e circoscrivere, e invece
è fine a se stessa, molto lontana (e non solo dal punto di vista
geografico) dal resto del romanzo. Torbido e convulso, Breve
storia di sette omicidi si porta dietro un bel po’ di
confusione, che è anche parte integrante del gioco di Marlon James,
con le voci dei personaggi che s’incastrano una nell’altra e la
narrazione, già abbastanza contorta, che si fa cacofonica.
Inevitabile che qualche dettaglio non si incastri. Su tutti, uno dei
personaggi principali nelle prime battute di Breve storia di sette
omicidi, Papa-Lo, sostiene che è appena arrivato un carico di
Glock e M9. Nel 1976 le Glock non esistevano e M9 è la designazione
data nel 1980 dall’esercito americano alla pistola (italiana)
Beretta 92 FS. La questione non è perniciosa. Potrebbe essere un
anacronismo, piuttosto delicato da interpretare visto che Breve
storia di sette omicidi è imperniato su una sparatoria in
particolare e su più scontri con armi da fuoco in generale. Potrebbe
essere un lapsus o un improbabile déja vu, dato che la Breve storia
di sette omicidi si conclude nel 1991 quando quelle armi, sì,
godevano di una certa popolarità. Il dettaglio resta in sospeso,
l’ambiguità rimane. Estremo, eccessivo, a tratti ridondante, per
Breve storia di sette omicidi la sintesi migliore è quella
del proverbio giamaicano citato in epigrafe: “Se non è andata
così, ci è andata vicino”. Né più, né meno.
martedì 2 agosto 2016
James Ellroy
L’America
all’alba di Pearl Harbour, l’America di oggi, trovate le
differenze. Adesso come allora, “gli appetiti sono nell’aria” e
l’ambivalenza della guerra, che “dà agli uomini qualcosa da
fare, in modo puro e semplice”, si manifesta a più livelli:
consolida lo status quo (“Non è il momento adatto per la
sovversione”), celebra le nuove opportunità, e sfodera una
prospettiva non del tutto inedita, ma sempre efficace visto che “la
gente sembrava condividere un nuovo senso di lealtà. Tutto era
nuovo. Molti sembravano la personificazione della sorpresa. Alcuni la
personificazione della rivelazione”. E’ così che nel dicembre
1941 l’illusione del melting pot viene marchiata a fuoco
dall’inizio delle ostilità nel Pacifico. L’isteria razziale e
razzista parte dai giapponesi e coinvolge tutti: cinesi
(soprattutto), tedeschi, russi nell’immediato futuro, italiani,
messicani, americani. E’ un nervo malato che James Ellroy lascia
scoperto con somma disinvoltura ed è l’energia crudele che governa
l’atmosfera di quella Los Angeles che “andava avanti a insonnia,
sigarette e liquori”. Al parziale elenco di vizi e disturbi
(pubblici e privati, nessuna distinzione) vanno aggiunti additivi
chimici e naturali, aborti clandestini e morali cattoliche,
rastrellamenti e confische, tangenti e protezioni, intrighi e quinte
colonne e, last but not least, una lunga teoria di omicidi. Le
“confluenze”, come le chiama James Ellroy portano sempre verso
“lo stato di polizia” del dipartimento di Los Angeles, dove
William Parker e Dudley Smith sono i due poli uguali e opposti di un
magnete ubriaco che attira legioni ed emana ambiguità. Sono tutti
“complici nella calunnia del sangue”, sospesi tra
l’autodistruzione e la sopravvivenza e nessuno è portato alle
confessioni. A Hollywood, dove chiunque finge di essere
qualcos’altro e l’imperativo è trasformare tutto in un film, la
verità resta una chimera. Ben presto, in Perfidia
le connessioni storiche e i riferimenti geopolitici, per quanto
espliciti e coerenti, hanno un peso relativo nelle singole parabole e
nella storia nel suo complesso, dato che “i collegamenti
circostanziali e le paranoie” vanno a sovrapporsi. James Ellroy è
spietato con i suoi personaggi che, a quanto pare, ricambiano e sono
puntualissimi a farsi trovare sulla soglia, in fallo, in pericolo,
sull’orlo del baratro e (anche) più in là. Gli uomini quanto le
donne (e spesso più le donne degli uomini) sono incontrollabili,
vagano impazziti inseguendo ambizioni, pulsioni, deduzioni, visioni e
intuizioni. Nonostante gli sforzi, il loro destino è segnato visto
che “la merda ha tendenza a schizzare in giro, soprattutto quando
si mescolano i soldi e l’ideologia”, ed è proprio quello che
succede dall’inizio alla fine di Perfidia.
James Ellroy è micidiale a spiegare come “come parole e pensieri
avvelenano lo spirito umano con un intento criminale sistematico” e
il finale pirotecnico è anche cupissimo perché poi la guerra
comincia davvero, gli uomini se ne vanno e il flusso inalterato del
racconto fissa soltanto “quel breve caos che si porta via vite
inutili e lascia i sognatori spietati liberi di ricominciare da
capo”. Qui, più che mai, il meccanismo delle reiterazioni di James
Ellroy segue una sequenza matematica, è esponenziale e ipnotico e
ossessionato dal ritmo, e il ritmo è randagio e swing con Paul
Robeson, Gene Krupa, Count Basie, Jimmie Lunceford, George Gershwin e
Glenn Miller (a cui deve il titolo). “Il tempo è un juke-box” e
Perfidia è
una monumentale, devastante valanga di ottocento pagine che rende
benissimo l’idea che “il mondo è un posto strano e incasinato”.
Nel dettaglio, la tempesta americana si nutre di benzedrina, idrato
di terpina, oppio, morfina e alcol come se piovesse per placare una
sete tragica, ma l’unica, vera droga resta il potere.