E’
come se L’anno del pensiero magico si fosse allungato a
dismisura, dando forma compiuta alle impercettibili variazioni delle
Blue Nights, quando, secondo Joan Didion, diventano evidenti
“la fine della promessa, l’affievolirsi dei giorni,
l’inevitabilità della dissolvenza”. Se, nella sostanza, si
tratta di un memoriale dedicato alla figlia Quintana Roo, a tutti gli
effetti Joan Didion usa l’introspezione per ricollocare il dolore
(immane) e quei ricordi che “sono tutto ciò che non vuoi più
ricordare”. Il paradosso è alla fonte nella frattura delle Blue
Nights nel momento in cui, dice Joan Didion, “qualcosa che ha
alterato la prospettiva delle mie possibilità, ha ristretto, per
così dire, l’orizzonte”. La confessione è sempre esplicita e
l’unico palliativo è lo stile irreprensibile. La rivelazione di
particolari (autobiografici) intimi, anche molto vividi e laceranti,
ancora carichi di interrogativi (nello specifico, tutto quello che
riguarda l’adozione di Quintana Roo) non sorprende per
l’accuratezza e la minuziosa elaborazione di Joan Didion che misura
parola per parola, spesso ripetendosi, per essere certa di
trasmettere una ricostruzione efficiente. Stupisce l’immediatezza e
la lucidità con cui momenti delicati e appartenenti a una sfera
riservatissima delle emozioni nelle Blue Nights si associano
con naturalezza a fatti di cronaca e/o storici (la guerra in Vietnam
o l’invasione di Panama, tra gli altri) che filtrano per osmosi e
si vanno a incastrare nel tessuto narrativo nel tentativo,
lungimirante e ammirevole, di definire il mestiere indefinibile di
madre, di padre, di genitore. Un ruolo molto privato, una funzione
molto pubblica. La differenza generazionale, tra madre e figlia, è
anche una frattura epocale su cui Joan Didion riflette a lungo:
“C’era una guerra in corso. Quella guerra non ruotava intorno ai
desideri dei figli, né dipendeva in alcun modo da essi. In cambio
dell’accettazione di queste semplici verità, ai figli era concesso
di inventarsi la propria vita. L’idea che potevano essere
abbandonati a se stessi, che anzi fosse la cosa migliore per loro,
non veniva messa in discussione”. I dettagli vengono usati come
chiodi per fissare quegli istanti, “un periodo, un decennio,
durante il quale tutto sembrava corrispondere”, così come schegge
e frammenti che si perdono perché “il tempo passa. Il ricordo
sbiadisce, il ricordo si adatta, il ricordo si adegua a ciò che
pensiamo di ricordare”. Joan Didion non si sofferma mai né alle
mutevoli ragioni della memoria né al bisogno di consolazione ed è
estrema nel sottolineare le asperità della perdita, della mancanza,
ma la tensione nella confessione delle Blue Nights è
continua, inalterata, va oltre il lutto e la sua condivisione. Lo
ribadisce, con grande coraggio: “Vi racconto questa storia vera
solo per dimostrare che posso farlo. Che la mia fragilità non è
ancora arrivata al punto di impedirmi di poter raccontare una storia
vera”. La realtà delle Blue Nights ricorda che “quando
perdiamo quel senso di possibilità, lo perdiamo in fretta. Un giorno
siamo tutti presi a vestirci bene, a seguire le notizie, a tenerci al
passo, a essere all’altezza, in sostanza a restare vivi; il
giorno dopo non più”. L’inadeguatezza è fisiologica
l’incongruenza inevitabile, visto che “per ogni cosa c’è una
stagione”, dicono le sacre scritture, ma Joan Didion pensa ancora e
prima di tutto a Turn, Turn, Turn dei Byrds, a non dimenticare
che, a saldo di tutte le ferite, c’è quel sogno, magico, di volare
via, anche nell’implacabile luce del crepuscolo.
martedì 26 luglio 2016
domenica 24 luglio 2016
Jennifer Egan
L’indecisione
che regna sovrana nell’incipit, una pagina di ripetute negazioni, una porta
che non si apre, è già un’indicazione allarmante. Si capirà, più
avanti, che lo stile titubante e, a tratti, scolastico che sottolinea
La fortezza
è dovuto a un particolarissimo narratore, i cui limiti sono
espliciti e concreti. Tra l’altro, non è l’unica voce ad avere
qualche problema con i fondamentali della scrittura, perché La
fortezza si sviluppa
su più piani e più tempi. Jennifer
Egan non è nuova a soluzioni temerarie e a scomporre il flusso
narrativo (con ottimi risultati come è stato per Il
tempo è un bastardo)
seguendo l’istinto essenziale dell’idea che “sei tu che inventi
la storia, sei tu che la racconti, e a quel punto sei libero”.
Tutto comincia quando Danny, un loser con la mania per la
connessione, vola da New York verso un non meglio identificato
villaggio mitteleuropeo dove La
fortezza
è stata acquistata da Howie alias Howard, un vecchio amico
d’infanzia che ha l’idea di trasformarla in un resort
rinascimentale, privo di contatti analogici e/o digitali, per
riaccendere la fantasia. Tra lui e Danny c’è un antico e doloroso
segreto che resta sospeso sopra La
fortezza
come un’inevitabile spada di Damocle. Il carattere kafkiano del
soggetto viene svolto, almeno nel filone centrale, con una serie di
colpi di scena, episodi e salti nel buio degni di Stephen King, dove
la trama sembra riflettere la condizione di Danny, che “sapeva solo
di vivere più o meno in un costante stato di attesa per qualcosa che
da un giorno all’altro, da un’ora all’altra, cambiasse tutto
quanto, ribaltasse il mondo su se stesso e rimettesse in prospettiva
la sua intera vita trasformandola in una storia di assoluto successo,
perché ogni inghippo e avvitamento e intoppo e casino non aveva
fatto altro che condurre a quello”. Inoltrandosi nel romanzo, si
scopre che per La
fortezza,
Jennifer Egan ha architettato un meccanismo che funziona come una
reazione a catena con i diversi (e parecchi) strati del racconto che
si innescano uno con l’altro. Se la scrittura resta solida è
perché Jennifer Egan supera i suoi alter ego, ma la natura della
trama non va oltre un assemblaggio, particolarmente ardito. Si
capisce l’ipotesi di superare una narrativa che è frutto dell’idea
di “catturare fantasmi”, agendo sulla forma, sulle immagini,
sulle dimensioni parallele solo che spesso è piuttosto la confusione
a risaltare. Nel corso della storia, quella che a volte pare soltanto
un traccia, poi diventa l’elemento decisivo, poi viene dimenticato.
I passaggi dall’incoscienza alla realtà, dal racconto dentro il
racconto, da un tempo all’altro, si intersecano con un uso
disinvolto (forse fin troppo) della prima e della terza persona, a
volte persino una dentro l’altra. Tirando le somme, nell’arco del
romanzo ci sono (almeno) due narratori che non lo sanno fare e una
scrittrice, Jennifer Egan, che lo so sa fare benissimo, ma che
fingendosi uno e poi l’altro, alla fine sembra esserne assorbita.
La storia zoppica come Danny, la coerenza svanisce insieme a
personaggi impalpabili, l’intenzione va a corrente alternata come
gli umori di Howie, il finale arriva frettoloso e La
fortezza
resta rigida custode di un’idea tanto ingegnosa quanto irrisolta.
giovedì 21 luglio 2016
Jenny Offill
Nell’incipit
di Le cose che restano Jenny Offill traduce subito “una
parola in codice per cielo blu”, proprio come Joan Didion definiva
quel momento in cui “il crepuscolo diventa azzurro” e le Blue
Nights preannunciano “un cambiamento di stagione, non proprio
un clima più caldo, niente affatto, eppure all’improvviso l’estate
sembra vicina, una possibilità, o meglio una promessa”. Il senso
di quell’istante è tutto nel colore e le differenti tonalità sono
l’essenza dello scorrere di Le cose che restano, che pare
diviso in tre fasi. La prima parte è proprio dell’intensità delle
“blue nights”. Il cielo indaco, sereno, immerso nella luce
nasconde qualcosa di indefinito nell’aria e l’intuizione di una
speranza disattesa si trasforma in una premonizione. Per comprendere
Le cose che restano serve la conoscenza di tutta una geologia
dei sentimenti, che risale alla lingua segreta parlata dal nonno
(l’annic, che avrà un ruolo non secondario) e Jenny Offill ha una
sua delicatezza nell’incontrare e nel presentare di la famiglia
Davitt (Anna, la madre e Jonathan, il padre) disegnando una
dimensione incantata, con lo stupore di Grace, la figlia. E’ sua la
voce che traccia le distanze rispetto al mondo complicato e confuso
degli adulti con i loro riti e le loro stravaganze. Gli sbalzi
d’umore di entrambi i genitori, la precarietà di una condizione
tra la razionalità di Jonathan e l’eccentricità di Anna con
l’aggiunta delle oscillazioni di Edgar, il suo baby sitter, cui
sogno è illuminare la città con una muffa fosforescente sono gli
ingredienti che determinano l’evoluzione della specie e
l’involuzione dei legami. Visti dagli occhi di Grace e data la
propensione scientifica dei personaggi viene spontaneo a pensare a
quello che scriveva Charles Darwin nella Ricapitolazione e
conclusione, ovvero come “a prima vista niente può sembrare
più difficile che il credere che i complessi organi e istinti si
siano perfezionati non con mezzi superiori, sebbene analoghi, alla
ragione umana, ma per l’accumulazione di innumerevoli lievi
variazioni, ciascuna utile al loro possessore individuale”. La
metamorfosi della storia si compie anche nei toni che, nella seconda
nuance, pur non essendo molto differente dalla prima diventano più
marcati, come se fosse pervasa da riflessi elettrici. Le parti
combaciano e il brio iniziale quasi comico si trasforma, anche se Le
cose che restano mantiene una sua fluidità e una sua identità
che resta inalterata anche quando, dalla metà in poi il ritmo
diventa convulso. Grace è prigioniera (come è inevitabile) delle
proiezioni e delle variazioni d’umore della madre e la vena di
follia di Anna si rivela contagiosa. Le stravaganze diventano sempre
più bizzarre, Grace fugge con lei dal Vermont a New Orleans fino al
deserto californiano, dove il miraggio si spezza. Le cose che
restano passano dalla presenza, alla partenza e, arrivate allo
stadio terminale dell’assenza, la variazione dominante sfuma nel
blues, in tutti i sensi. Bisogna ammettere che, con Le cose che
restano, Jenny Offill ha molta più dimestichezza con i contorni
indefiniti, quando tutte le possibilità sono ancora all’orizzonte,
magari nascoste in un alone di mistero o circondate da un’aura
impalpabile. E’ molto più brava a nascondere, che a svelare.
Quando le differenze si manifestano e diventano solchi e confini
invalicabili e il ritmo diventa più convulso, Jenny Offill, che è
molto vicina al cuore dei suoi personaggi, pare perdere il controllo
con loro e la verità è che Le cose che restano sono comunque
quelle allineate nella prima fase del romanzo, dove l’attrito tra
il mondo degli adulti e la meraviglia di Grace provoca scintille,
magie, colori da immaginare.
venerdì 15 luglio 2016
Henry Miller
Una città torbida,
fremente, maudit, uno dei luoghi d’elezione di ascendenti e
discendenti della Beat Generation, quella Parigi fatta di
sesso, vino, poesia, cibo, musica, proprio in questo ordine. Le
esigenze sono elementari, gli sviluppi rudimentali e i metodi pure
perché, come ricorda Henry Miller, “era un periodo in cui l’aria
stessa sapeva di lotta”, e I giorni tranquilli di Clichy
tanto tranquilli non erano. Henry Miller sta lavorando a Primavera
nera, mentre il suo alias, Joey, e l’amico Carlo, si contendono
le ragazze, Colette e Nys e tutte le altre, con lo scopo di
“innamorarsi della felicità! Diventare inutile il più possibile!
Avere la coscienza dura come la pelle dei coccodrilli!”. Oltre alle
peripezie gastronomiche ed erotiche, ai vagabondaggi notturni e alla
dissoluta condotta bohémienne, Henry Miller vive la giornata con la
scrittura in testa, distinguendo toni di voce, isolando spezzoni di
dialoghi, episodi e aneddoti dato che “per un artista le brutte
situazioni sono fertili come quelle felici, e qualche volta anche di
più. Per un artista ogni esperienza è fruttuosa, suscettibile di
convertirsi in un credito”. L’illusione è tale che Henry Miller
ammette di essere “affondato fino a quel livello pericoloso in cui,
per pura beatitudine e per lo stupore, uno ritorna alla condizione di
gemma”. Passate le sbornie, ricuciti i cuori spezzati, lasciate le
femme fatale, la ragion di stato dello scrittore impone una
riflessione che Henry Miller non tarda a illustrare: “Vediamo un
po’... A che cosa pensavo? Ma non mi riuscì di pensare, di farmi
venire in mente un bel niente. Mi sentivo troppo mirabilmente felice.
Perché pensare, del resto? Sì, era una grande giornata. Erano state
parecchie, anzi. Sì, soltanto pochi giorni prima ce ne stavamo
seduti lì domandandoci dove saremmo potuti andare. Poteva essere
stato ieri, oppure un anno prima. Che differenza faceva? Uno si
gonfia, poi si affloscia. Anche il tempo si affloscia. Si afflosciano
le puttane. Tutto si affloscia. Si affloscia nella sifilide”. La
conseguenza è, inevitabile, un’altra partenza: “Ma sì, andiamocene lontano,
molto lontano; senza libri, senza macchina per scrivere, senza
niente. Non dir niente, non far niente. Lasciarsi portare dalla
marea”. L’oceano lo ritroverà (anni dopo) mentre riscriveva I
tranquilli giorni a Clichy, ormai stabilitosi a Big Sur: “Che
differenza ci sarebbe stata a vedere Parigi dalla cima di un omnibus
a cavalli all’età di ventun anni! Oppure contemplare i grands
boulevards come un flâneur nel periodo reso famoso dagli
impressionisti”. All’epoca dei giorni felici a Clichy, le
ambizioni era ben diverse, e molto più limitate: “Senti, torniamo
a Parigi e prendiamoci una bella dose di sifilide”, quest’ultima
riconosciuta, evidentemente, come malattia professionale. Già in
Paradiso perduto offriva un’altra panoramica della sua belle
époque parigina e I giorni tranquilli a Clichy sarebbero
diventati i “giorni febbrili” poi sfumati tra amarezza, nostalgia
e il brutale azzeramento delle gioie e delle fantasie imposto dalla
seconda guerra mondiale. A distanza e in prospettiva I giorni
tranquilli a Clichy restano sono una scheggia incendiaria e
selvaggia di vita in stato di abbandono eppure non priva di una
precisa consapevolezza: “Mi ero avvalso di tutte le mie risorse per
esprimermi in modo corretto ed eloquente. E mi parve di aver colpito
nel segno”. Adieu, Parigi: finiva un’era, lo aspettava L’incubo
ad aria condizionata.
lunedì 11 luglio 2016
Patti Smith
Per
Patti Smith, il volto della maturità è un’esistenza frugale
dedicata all’arte, alla cultura, alla contemplazione, ai viaggi,
tutti strumenti utili a definire “l’amalgama di un sogno”, una
forma accarezzata spesso e altrove definita Dream Of Life. Lo
stesso M Train è un treno immaginario, che Patti Smith scopre
nel dormiveglia, una twilight zone dove si tende a ricostruire la
realtà seguendo vie misteriose. Da lì, le dinamiche del memoir, con
cui Patti Smith ha scoperto la vocazione di narratrice in Just
Kids, vengono aggiornate con maggior coraggio e il tragitto
dell’M Train porta più lontano. Se allora la figura
maschile centrale era rappresentata da Robert Mapplethorpe, qui viene
richiamata invece quella di Fred Sonic Smith. La ricostruzione del
matrimonio, forse proprio la riscrittura in sé, è accorata ed
elegiaca, e le correzioni e le omissioni autobiografiche sono
comprensibili, anche dove Patti Smith ammette che “con il tempo
spesso finiamo per identificarci con chi in passato in passato non
riuscivamo a capire”. Da quello che viene riportato in M Train,
l’intesa con Fred Sonic Smith era funzionale a un equilibrio
contraddittorio, fondato su un’idea tradizionale della famiglia che
si scontrava con le velleità artistiche e i colpi di testa di
entrambi. Come l’acquisto di uno yacht pieno di falle o il
pellegrinaggio ai Caraibi sui passi di Jean Genet, la cui figura
apre e in qualche modo chiude l’eccentrico percorso dell’M
Train. Il primo elemento indiscutibile è che, pur composto in un
piccolo caffè, seguendo una routine immutabile e una dieta dimessa,
M Train è in realtà un diario di viaggio, in un certo senso
anche di una fuga, se come dice Patti Smith, “è proprio vero: a
volte nascondiamo i nostri sogni dietro alla realtà”. Di treni,
aerei e autobus Patti Smith ne prende parecchi verso Città del
Messico, Tokyo, Berlino, Londra e Tangeri, l’approdo finale dove,
nell’incontro con Paul Bowles, M Train si svela nell’essenza
di un omaggio alla Beat Generation, almeno quanto all’inizio lo era per
Sam Shepard. I due punti di riferimento affiorano sulla superficie
dei pensieri e delle note di Patti Smith in modi diversi (impossibile
non identificare Sam Shepard nell’onirico “mandriano” che la
segue ovunque) e comunque indispensabili ad alimentarne intenzioni &
propositi: “Ho perlustrato le nicchie di gioie passate, fermandomi
a un momento di esaltazione segreta. Ci sarebbe voluto del tempo, ma
sapevo come fare”. La lettura, più di tutto: l’elenco delle
ossessioni letterarie comprende Haruki Murakami
e Roberto Bolaño, Mohammed Mrabet e Sylvia Plath e una sequenza di
riflessioni disposte sui suoi taccuini la portano a considerare che
“lo scrittore è un direttore d’orchestra”. Nel suo M
Train, Patti Smith ha il vizio di dimenticare tutto e di
ricordare così bene, seguendo soltanto l'ispirazione, senza
subordinate: “Volevo solo perdermi, diventare tutt’uno con
qualche altro luogo, infilare una ghirlanda sulla cima di un
campanile solo perché mi andava di farlo”. Allo stesso modo, alla
fine torna a casa, che vuol dire NYC, a ritrovare i piccoli riti. La
saggezza di Patti Smith è quella di essere rimasta insaziabile,
curiosa, irrazionale tanto da comprare un rudere a Rockaway Beach
appena prima dell’uragano Sandy solo perché “vogliamo cose che
non possiamo avere. Cerchiamo di recuperare un particolare momento,
suono, sensazione”. Quando non rimane nulla, ed è ora di
rimettersi in piedi, viene anche il momento in cui “il sogno deve
cedere il passo alla vita” ed è anche noia, ozio, distrazione
(“Una serie televisiva ha una sua realtà morale) eppure persino
nel suo placido tran tran casalingo M Train riesce a
trasmettere l’inconfondibile spirito dell’artista, perché “la
metamorfosi del cuore è una cosa meravigliosa, a prescindere da come
arrivi”. Con gli occhi aperti, con gli occhi chiusi.
venerdì 8 luglio 2016
Mike Davis
L’incubo
che si materializza leggendo Il
pianeta degli slum è
un’ombra apocalittica sulla civiltà così come la conosciamo e
sale proprio da quei luoghi in cui l’umanità nei secoli si è data
regole, connotati, ruoli, forme di convivenza. Il
pianeta degli slum è
un’inchiesta su quelle che Mike Davis definisce “patologie della
forma urbana”, ovvero le deformazioni delle metropoli nella loro
essenza, da polis a ghetto, da centro a periferia, dove “il lento
incrostarsi delle baraccopoli sul guscio della città è stato
punteggiato da tempeste di miseria e scoppi improvvisi di
edificazioni di slum”. Le città, esplose nella dimensione, nella
popolazione, nelle forme e implose nella contrazione dei diritti, dei
servizi e delle tutele si sono spezzate lungo la linea del fronte tra
ricchezza e povertà, hanno attratto e nello stesso tempo respinto
moltitudini, trasformando il miraggio del benessere in una trappola
perché, come scrive Mike Davis, “la segregazione urbana non è uno
status quo congelato quanto un’incessante guerra sociale in cui lo
stato interviene regolarmente in nome del progresso,
dell’abbellimento e perfino della giustizia sociale per i poveri
per ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà
immobiliare, degli investitori stranieri, dell’élite di
proprietari di case e dei pendolari delle classi medie”. E’ un
quadro che allarma e disturba nelle previsioni di Mike Davis che,
mettendo in prospettiva l’analisi strutturale di dati demografici e
architettonici e lo storytelling per descrivere le condizioni
disumane che circoscrivono, dimostra come “la rapida crescita
urbana in un contesto di aggiustamenti strutturali, svalutazione
monetaria e tagli statali è stata inevitabilmente una ricetta per la
produzione di massa degli slum”. Nella pericolosa intersezione tra
industrie, sfruttamento, disastri e miseria “tutti i principi
classici della progettazione urbana, compresa la conservazione dello
spazio aperto e la separazione degli usi nocivi dei terreni dalle
residenze, nelle città povere vengono capovolti. Sembra che una
sorta di infernale ordinanza di zonizzazione imponga di circondare le
attività industriali pericolose e le infrastrutture di trasporto con
folte aggregazioni di baracche”. Un caos che si è pianificato da
solo e, se nell’accumulo del disordine non è facile individuare
delle possibili linee di sviluppo, Mike Davis prova a descrivere
evitando riduzioni semplicistiche, non di meno sottolineando quella
che è, a tutti gli effetti, una visione distopica: “Le città del
futuro, lungi dall’essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Anzi, il miliardo di cittadini che abitano gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’alba della vita urbana, ottomila ciaio anni fa”. Bisogna solo aggiungere che,
come sempre, la letteratura più coraggiosa Il
pianeta degli slum l’aveva
scoperto anni e anni fa, nel 1982, quando Don DeLillo scriveva in I
nomi:
“Crescendo, la città avrebbe consumato l’amara storia finché
non sarebbe rimasto null'altro che strade grigie, palazzi a sei piani
con la biancheria che ondeggiava al vento sui tetti. Poi mi resi
conto che la città stessa era inventata da gente che aveva perduto i
propri luoghi, gente costretta a ristabilirsi altrove, per sfuggire
alla guerra, al massacro e agli altri, affamata, in cerca di lavoro”.
Una lettura scomoda, ma necessaria.
martedì 5 luglio 2016
Elizabeth Strout
Costretta
a letto dalle complicazioni di un’appendicite, Lucy Barton vede
arrivare la madre al suo capezzale e con lei comincia un dialogo
imprevisto e imprevedibile. La forzata immobilità è un’occasione
unica perché, come nota Lucy Barton, “forse era il buio appena
rotto dalla crepa pallida di luce che filtrava dalla porta, forse la
costellazione del formidabile grattacielo Chrysler davanti a noi, a
permetterci di parlare come non avevamo mai fatto”. Sono parecchie,
le distanze, accumulate nel corso degli anni, e la prima è proprio
in quello scintillio notturno perché tra New York dove, c’è più
gente che cielo, e Amgash, Illinois i ricordi che riemergono sono
poveri, affamati, freddi, “white trash”. E’ un retaggio da cui
non ci si può liberare, è qualcosa di inciso nell’anima e la
stoica presenza della madre è lì a ribadirlo, per naturale istinto,
insieme all’inestricabile legame con la figlia. Lei è fuggita
grazie alla redenzione della lettura e degli studi (“I libri mi
davano qualcosa. E’ questo quello che penso. Mi facevano sentire
meno sola. E’ quello che penso”) eppure quel passato è ancora lì
e abbandonarlo, secondo Lucy Barton, “deve essere il sistema che
adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo,
infestati da ricordi che non possono assolutamente essere veri.
Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se
non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos’hanno
dentro. La vita sembra spesso fatta di ipotesi”. E’ anche
l’infanzia che non se ne vuole andare. La madre la chiama
Bestiolina, il marito la chiama Passerotto perché Lucy Barton tende
a richiamare protezione, ma è anche votata a una sua indipendenza,
solo che “ci sono fattori che influiscono sulle strade che
prendiamo ed è raro che sappiamo individuarli e registrarli con
precisione”. Cercando quell’impossibile definizione, Elizabeth
Strout più che un romanzo (breve) si concentra su quello che per le
sue caratteristiche è un copione teatrale, un atto unico, con pochi
interpreti e uno scenario limitato al minimo indispensabile. Madre e
figlia restano separate in un equilibrio precario e rimarcato da
personaggi secondari, prima il dottore, nel presente della
narrazione, e poi soprattutto Sarah Payne, docente di scrittura
creativa. Entrambi sono determinanti a fissare gli intervalli del
confronto tra madre e figlia, in più Sarah Payne, una scrittrice
insofferente la cui identità sembra il sovrapporsi dei profili di
Joyce Carol Oates, Grace Paley e Joan Didion, definisce così il tema
di Lucy Barton: “E’ la storia di uomo che si è tormentato ogni
giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. E’ la storia
di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte
le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza
d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni
falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta
facendo. E’ la storia di una madre che ama sua figlia. In modo
imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto”. La
ricostruzione non è comunque consolatoria: anche se entrambe sono
coscienti che “si perde soltanto tempo a soffrire due volte”, la
tensione è garantita dall’accumularsi di tensioni, attriti e
speculazioni che vengono arrotondati dall’attenzione a ogni singola
parola e sembra quasi che Elizabeth Strout con metodo e scrupolo il
consiglio di Sarah Payne: “Ciascuno di voi ha soltanto una storia.
Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state
mia a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola”. Ogni
pagina è ricavata per sottrazione, levigando le frasi, persino
risparmiando sui personaggi, che appaiono e svaniscono in fretta,
compresi quelli vicinissimi a Lucy Barton. Nella luce, al centro,
resta il confronto tra madre e figlia e la trama rimane tanto
elegante quanto esile. Del resto la sua bellezza è tutta lì, come
l’ammissione finale di Lucy Barton ammette senza dubbi: “La vita
mi lascia sempre senza fiato”. Si sente, si percepisce, si capisce,
nessuna sorpresa.
domenica 3 luglio 2016
Sam Shepard
L’inquadratura
iniziale di Pazzo
d’amore riassume
già gran parte della narrativa di Sam Shepard:
“Una squallida stanza di un motel di terza categoria al limite del
deserto Mojave. Le pareti sono di un verde sbiadito. Il pavimento è
di linoleum marrone scuro. Non ci sono tappeti. Il letto di ferro
battuto a quattro pomi, a una piazza, è leggermente decentrato sulla
parte destra del palcoscenico e parallelo rispetto al pubblico”. Un
punto di partenza proprio in mezzo al nulla, in realtà una sorta di
capolinea, tanto per cominciare. Eddie ha fatto una deviazione di
duemilaquattrocentottanta miglia (“Duemilaquattrocentottanta”)
per andare a trovare May e lo sforzo di un viaggio tanto lungo e
impegnativo è accolto così: “Non puoi venire a fare questo casino
ogni volta. Lo fai da troppo tempo, io non ce la faccio più. Mi
sento male ogni volta che arrivi e poi sto male quando te ne vai. Sei
una malattia. E poi non hai nessuno diritto di essere geloso dopo
tutta la merda che mi hai fatto ingoiare”. Le scintille tra May,
Eddie e Martin e un po’ più in là, il vecchio, sono compresse in
una trama che è un condensato e un compendio della drammaturgia di
Sam Shepard, anche nella forma e nello stile. Il linguaggio è aspro,
immediato, spietato perché oltre al groviglio dei legami, non c’è
alternativa. Fuori resta il deserto, eppure è sempre l’opzione
migliore: “Chissà quante cose ho dimenticato. Per fortuna che a un
certo punto me ne sono andato. E’ stata la mossa migliore che
potessi fare”. Focalizzato su rapporti che non sono mai semplici,
mai lineari, mai risolti, Pazzo
d’amore è
necessario perché a modo suo racchiude tutti gli elementi
fondamentali dei copioni di Sam Shepard. Il tema è coerente con
altre battaglie tra uomini e donne, il più delle volte concluse da
sconfitte brucianti, e Pazzo
d’amore riporta
un segmento significativo quando, infine, tocca proprio a May
completare il quadro: “Non credere di cavartela così. Hai rigirato
questa storia come ti pareva, Eddie. L’hai completamente stravolta.
Adesso non sai più qual è il capo e qual è la coda. Okay, okay.
Non ho bisogno di nessuno di voi. Non ho bisogno di niente tanto già
lo so come va a finire questa storia. Lo so perfettamente come va a
finire. So esattamente come sono andate le cose, senza dover
aggiungere colpi di scena”. Rimane l’eco di una voce, quasi fuoci
campo, ed è il vecchio che chiede: “Tu inventi i sogni, non è
così?”, ma la risposta rimane comunque ambigua, un po’ dentro e
un po’ fuori, perché “una bugia è quando tu credi che quella
sia la verità. Ma se già sai che quella è una bugia allora non è
una vera bugia”. Scorticato nell’essenzialità della sua cornice,
circoscritto da Merle Haggard che canta Wake
Up dall’album The
Way I Am e
poi I’m
The One Who Loves You alla
fine, Pazzo
d’amore ribadisce
soprattutto il ritmo tambureggiante, sincopato, serrato, battuta
sopra battuta, con le frasi si incastrano una nell’altra. Una volta
immerisi nel groove, leggere Sam Shepard è come guidare nella notte
con gli abbaglianti. Il centro è illuminato quel tanto che basta da
credere di essere nella direzione giusta. Tutto intorno, c’è
soltanto l’oscurità.