Costretta
a letto dalle complicazioni di un’appendicite, Lucy Barton vede
arrivare la madre al suo capezzale e con lei comincia un dialogo
imprevisto e imprevedibile. La forzata immobilità è un’occasione
unica perché, come nota Lucy Barton, “forse era il buio appena
rotto dalla crepa pallida di luce che filtrava dalla porta, forse la
costellazione del formidabile grattacielo Chrysler davanti a noi, a
permetterci di parlare come non avevamo mai fatto”. Sono parecchie,
le distanze, accumulate nel corso degli anni, e la prima è proprio
in quello scintillio notturno perché tra New York dove, c’è più
gente che cielo, e Amgash, Illinois i ricordi che riemergono sono
poveri, affamati, freddi, “white trash”. E’ un retaggio da cui
non ci si può liberare, è qualcosa di inciso nell’anima e la
stoica presenza della madre è lì a ribadirlo, per naturale istinto,
insieme all’inestricabile legame con la figlia. Lei è fuggita
grazie alla redenzione della lettura e degli studi (“I libri mi
davano qualcosa. E’ questo quello che penso. Mi facevano sentire
meno sola. E’ quello che penso”) eppure quel passato è ancora lì
e abbandonarlo, secondo Lucy Barton, “deve essere il sistema che
adottiamo quasi tutti per muoverci nel mondo, sapendo e non sapendo,
infestati da ricordi che non possono assolutamente essere veri.
Eppure, quando vedo gli altri incedere sicuri per la strada, come se
non conoscessero per niente la paura, mi accorgo che non so cos’hanno
dentro. La vita sembra spesso fatta di ipotesi”. E’ anche
l’infanzia che non se ne vuole andare. La madre la chiama
Bestiolina, il marito la chiama Passerotto perché Lucy Barton tende
a richiamare protezione, ma è anche votata a una sua indipendenza,
solo che “ci sono fattori che influiscono sulle strade che
prendiamo ed è raro che sappiamo individuarli e registrarli con
precisione”. Cercando quell’impossibile definizione, Elizabeth
Strout più che un romanzo (breve) si concentra su quello che per le
sue caratteristiche è un copione teatrale, un atto unico, con pochi
interpreti e uno scenario limitato al minimo indispensabile. Madre e
figlia restano separate in un equilibrio precario e rimarcato da
personaggi secondari, prima il dottore, nel presente della
narrazione, e poi soprattutto Sarah Payne, docente di scrittura
creativa. Entrambi sono determinanti a fissare gli intervalli del
confronto tra madre e figlia, in più Sarah Payne, una scrittrice
insofferente la cui identità sembra il sovrapporsi dei profili di
Joyce Carol Oates, Grace Paley e Joan Didion, definisce così il tema
di Lucy Barton: “E’ la storia di uomo che si è tormentato ogni
giorno della vita per cose che aveva fatto in guerra. E’ la storia
di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte
le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza
d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni
falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta
facendo. E’ la storia di una madre che ama sua figlia. In modo
imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto”. La
ricostruzione non è comunque consolatoria: anche se entrambe sono
coscienti che “si perde soltanto tempo a soffrire due volte”, la
tensione è garantita dall’accumularsi di tensioni, attriti e
speculazioni che vengono arrotondati dall’attenzione a ogni singola
parola e sembra quasi che Elizabeth Strout con metodo e scrupolo il
consiglio di Sarah Payne: “Ciascuno di voi ha soltanto una storia.
Scriverete la vostra unica storia in molti modi diversi. Non state
mia a preoccuparvi, per la storia. Tanto ne avete una sola”. Ogni
pagina è ricavata per sottrazione, levigando le frasi, persino
risparmiando sui personaggi, che appaiono e svaniscono in fretta,
compresi quelli vicinissimi a Lucy Barton. Nella luce, al centro,
resta il confronto tra madre e figlia e la trama rimane tanto
elegante quanto esile. Del resto la sua bellezza è tutta lì, come
l’ammissione finale di Lucy Barton ammette senza dubbi: “La vita
mi lascia sempre senza fiato”. Si sente, si percepisce, si capisce,
nessuna sorpresa.
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