L’incubo
che si materializza leggendo Il
pianeta degli slum è
un’ombra apocalittica sulla civiltà così come la conosciamo e
sale proprio da quei luoghi in cui l’umanità nei secoli si è data
regole, connotati, ruoli, forme di convivenza. Il
pianeta degli slum è
un’inchiesta su quelle che Mike Davis definisce “patologie della
forma urbana”, ovvero le deformazioni delle metropoli nella loro
essenza, da polis a ghetto, da centro a periferia, dove “il lento
incrostarsi delle baraccopoli sul guscio della città è stato
punteggiato da tempeste di miseria e scoppi improvvisi di
edificazioni di slum”. Le città, esplose nella dimensione, nella
popolazione, nelle forme e implose nella contrazione dei diritti, dei
servizi e delle tutele si sono spezzate lungo la linea del fronte tra
ricchezza e povertà, hanno attratto e nello stesso tempo respinto
moltitudini, trasformando il miraggio del benessere in una trappola
perché, come scrive Mike Davis, “la segregazione urbana non è uno
status quo congelato quanto un’incessante guerra sociale in cui lo
stato interviene regolarmente in nome del progresso,
dell’abbellimento e perfino della giustizia sociale per i poveri
per ridisegnare i confini spaziali a favore della proprietà
immobiliare, degli investitori stranieri, dell’élite di
proprietari di case e dei pendolari delle classi medie”. E’ un
quadro che allarma e disturba nelle previsioni di Mike Davis che,
mettendo in prospettiva l’analisi strutturale di dati demografici e
architettonici e lo storytelling per descrivere le condizioni
disumane che circoscrivono, dimostra come “la rapida crescita
urbana in un contesto di aggiustamenti strutturali, svalutazione
monetaria e tagli statali è stata inevitabilmente una ricetta per la
produzione di massa degli slum”. Nella pericolosa intersezione tra
industrie, sfruttamento, disastri e miseria “tutti i principi
classici della progettazione urbana, compresa la conservazione dello
spazio aperto e la separazione degli usi nocivi dei terreni dalle
residenze, nelle città povere vengono capovolti. Sembra che una
sorta di infernale ordinanza di zonizzazione imponga di circondare le
attività industriali pericolose e le infrastrutture di trasporto con
folte aggregazioni di baracche”. Un caos che si è pianificato da
solo e, se nell’accumulo del disordine non è facile individuare
delle possibili linee di sviluppo, Mike Davis prova a descrivere
evitando riduzioni semplicistiche, non di meno sottolineando quella
che è, a tutti gli effetti, una visione distopica: “Le città del
futuro, lungi dall’essere fatte di vetro e acciaio secondo le previsioni di generazioni di urbanisti, saranno in gran parte costruite di mattoni grezzi, paglia, plastica riciclata, blocchi di cemento e legname di recupero. Al posto delle città di luce che si slanciano verso il cielo, gran parte del mondo urbano del ventunesimo secolo vivrà nello squallore, circondato da inquinamento, escrementi e sfacelo. Anzi, il miliardo di cittadini che abitano gli slum postmoderni guarderà molto probabilmente con invidia le rovine delle solide case di fango di Catal Hayuk in Anatolia, erette all’alba della vita urbana, ottomila ciaio anni fa”. Bisogna solo aggiungere che,
come sempre, la letteratura più coraggiosa Il
pianeta degli slum l’aveva
scoperto anni e anni fa, nel 1982, quando Don DeLillo scriveva in I
nomi:
“Crescendo, la città avrebbe consumato l’amara storia finché
non sarebbe rimasto null'altro che strade grigie, palazzi a sei piani
con la biancheria che ondeggiava al vento sui tetti. Poi mi resi
conto che la città stessa era inventata da gente che aveva perduto i
propri luoghi, gente costretta a ristabilirsi altrove, per sfuggire
alla guerra, al massacro e agli altri, affamata, in cerca di lavoro”.
Una lettura scomoda, ma necessaria.
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