Una città torbida,
fremente, maudit, uno dei luoghi d’elezione di ascendenti e
discendenti della Beat Generation, quella Parigi fatta di
sesso, vino, poesia, cibo, musica, proprio in questo ordine. Le
esigenze sono elementari, gli sviluppi rudimentali e i metodi pure
perché, come ricorda Henry Miller, “era un periodo in cui l’aria
stessa sapeva di lotta”, e I giorni tranquilli di Clichy
tanto tranquilli non erano. Henry Miller sta lavorando a Primavera
nera, mentre il suo alias, Joey, e l’amico Carlo, si contendono
le ragazze, Colette e Nys e tutte le altre, con lo scopo di
“innamorarsi della felicità! Diventare inutile il più possibile!
Avere la coscienza dura come la pelle dei coccodrilli!”. Oltre alle
peripezie gastronomiche ed erotiche, ai vagabondaggi notturni e alla
dissoluta condotta bohémienne, Henry Miller vive la giornata con la
scrittura in testa, distinguendo toni di voce, isolando spezzoni di
dialoghi, episodi e aneddoti dato che “per un artista le brutte
situazioni sono fertili come quelle felici, e qualche volta anche di
più. Per un artista ogni esperienza è fruttuosa, suscettibile di
convertirsi in un credito”. L’illusione è tale che Henry Miller
ammette di essere “affondato fino a quel livello pericoloso in cui,
per pura beatitudine e per lo stupore, uno ritorna alla condizione di
gemma”. Passate le sbornie, ricuciti i cuori spezzati, lasciate le
femme fatale, la ragion di stato dello scrittore impone una
riflessione che Henry Miller non tarda a illustrare: “Vediamo un
po’... A che cosa pensavo? Ma non mi riuscì di pensare, di farmi
venire in mente un bel niente. Mi sentivo troppo mirabilmente felice.
Perché pensare, del resto? Sì, era una grande giornata. Erano state
parecchie, anzi. Sì, soltanto pochi giorni prima ce ne stavamo
seduti lì domandandoci dove saremmo potuti andare. Poteva essere
stato ieri, oppure un anno prima. Che differenza faceva? Uno si
gonfia, poi si affloscia. Anche il tempo si affloscia. Si afflosciano
le puttane. Tutto si affloscia. Si affloscia nella sifilide”. La
conseguenza è, inevitabile, un’altra partenza: “Ma sì, andiamocene lontano,
molto lontano; senza libri, senza macchina per scrivere, senza
niente. Non dir niente, non far niente. Lasciarsi portare dalla
marea”. L’oceano lo ritroverà (anni dopo) mentre riscriveva I
tranquilli giorni a Clichy, ormai stabilitosi a Big Sur: “Che
differenza ci sarebbe stata a vedere Parigi dalla cima di un omnibus
a cavalli all’età di ventun anni! Oppure contemplare i grands
boulevards come un flâneur nel periodo reso famoso dagli
impressionisti”. All’epoca dei giorni felici a Clichy, le
ambizioni era ben diverse, e molto più limitate: “Senti, torniamo
a Parigi e prendiamoci una bella dose di sifilide”, quest’ultima
riconosciuta, evidentemente, come malattia professionale. Già in
Paradiso perduto offriva un’altra panoramica della sua belle
époque parigina e I giorni tranquilli a Clichy sarebbero
diventati i “giorni febbrili” poi sfumati tra amarezza, nostalgia
e il brutale azzeramento delle gioie e delle fantasie imposto dalla
seconda guerra mondiale. A distanza e in prospettiva I giorni
tranquilli a Clichy restano sono una scheggia incendiaria e
selvaggia di vita in stato di abbandono eppure non priva di una
precisa consapevolezza: “Mi ero avvalso di tutte le mie risorse per
esprimermi in modo corretto ed eloquente. E mi parve di aver colpito
nel segno”. Adieu, Parigi: finiva un’era, lo aspettava L’incubo
ad aria condizionata.
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